mercoledì 13 febbraio 2019

Javier Marías, “Il tuo volto domani” ed. 2005


                                                Voci da mondi diversi. Penisola iberica
                                                                spy-story

Javier Marías, “Il tuo volto domani”
Ed. Einaudi, trad. Glauco Felici, pagg. 372, Euro 18,80


     Ha un effetto come di lampo e di tuono, ogni nuovo romanzo di Javier Marías, illuminando la scena letteraria e sovrastando ogni altra voce. Eppure, la sua voce ha un tono sommesso, incantatore, ipnotico, con le lunghe frasi che si srotolano per riavvolgersi su se stesse, la malia delle parole cercate, ripetute, rivisitate in sinonimi e contrari, che lanciano un’idea, un pensiero, e poi scavano, approfondiscono, ironizzano, ti obbligano a riflettere. Un libro sulla parola e sul silenzio, questo “Febbre e Lancia”, il primo di una trilogia che ha ancora una volta un titolo shakespeariano, “Il tuo volto domani”. Incomincia dicendo “Non bisognerebbe mai raccontare niente”, perché raccontare significa concedere fiducia, e quanti si meritano questa fiducia? Ma poi è quello che il narratore fa- raccontare, in un lungo monologo che è tale anche quando pare un dialogo. 
E’ lo stesso narratore di “Tutte le anime”, ma con un nome questa volta. Più di un nome, con parecchie varianti del suo (ma è così anche per gli altri personaggi: non è forse un eccesso di fiducia pericoloso, farsi conoscere con il vero nome?): solo sua madre lo ha sempre chiamato Jacques, sua moglie Luisa lo chiama Jaime o con il cognome Deza, in Inghilterra diventa Jack, o Yago, in Spagna Jaime, o Jacobo, o Diego, o Santiago. Jaime è tornato in Inghilterra, dove aveva insegnato a Oxford, perché si sta separando dalla moglie- un primo accenno ad un altro tema del libro, quello del tradimento.
Il tempo di questa storia, che una storia non è, è un lungo fine settimana, ad un party offerto da Sir Peter Wheeler, un vecchio professore che già abbiamo conosciuto in “Tutte le anime”. Ma il tempo di Javier Marías è un tempo proustiano o joyciano, che è poi quello di Laurence Sterne, da cui Marías ha imparato anche il metodo narrativo, di procedere con digressioni, le più affascinanti digressioni della letteratura contemporanea. Non c’è distanza tra presente, passato e futuro. Nel presente al linguista e traduttore Jaime viene offerto il lavoro di “interprete di vite”, “traduttore di persone”, dei loro comportamenti e reazioni, possibili gradi di lealtà e di viltà. Un lavoro per cui Jaime sembra avere una disposizione particolare, che è poi quella che veniva richiesta dai sistemi di spionaggio MI6 e MI5, la Military Intelligence dei servizi segreti interni ed esterni, per cui hanno lavorato sia Wheeler sia il misterioso Mr. Tupra. Si tratta di azzardarsi a parlare, ascoltando e interpretando gli altri, raccontando quello che è un futuro probabile o soltanto possibile. Ed è a questo interrogativo- come si può passare metà della propria vita con un amico senza avvedersi di come potrebbe diventare, in certe circostanze? come si può non accorgersi che qualcuno così vicino a noi ci tradirà? “come posso non conoscere oggi il tuo volto domani”?- che si collegano gli episodi di storia del passato avvenuti durante la guerra civile spagnola, la scomparsa del trotzkista Andreu Nin, tradito dai comunisti, l’arresto del padre di Deza per una delazione, la morte del fratello di sua madre, giustiziato senza colpa.
      Il pericolo della parola come tradimento e, d’altra parte, quello del silenzio imposto, è al centro della lunga digressione di Wheeler sulla campagna del “careless talk” in Inghilterra (il nostro “taci, il nemico ti ascolta”). Da qui la reiterazione che suona come un mantra shakespeariano, “taci, taci e allora salvati”, “taci, taci e allora salvami”. Ma il silenzio è solo dei morti. Non è un romanzo di spionaggio, quello di Marías, anche se contiene un omaggio a Ian Fleming citando delle pagine di “Dalla Russia con amore”, piuttosto un libro di spie, in cui spiare non ha solo un’accezione negativa, ma anche il valore di saper ascoltare. C’è un accenno di mystery nel romanzo, e qui il riferimento è a Conan Doyle e anche a Henry James con cui Marías condivide pure la capacità di caricare di significati ogni sorriso, ogni occhiata, ogni discorso. C’è, ad esempio, una macchia di sangue sul pavimento di legno della casa di Wheeler, una macchia che Deza cerca di cancellare e che non verrà mai spiegata e che serve per la digressione della storia sull’amico Comendador; e c’è il mistero della donna con il cane che segue Deza nella pioggia e che suona il suo citofono alla fine, dicendo solo “sono io”. Ma c’è anche la storia tenuta in sospeso e poi rivelata della moglie di Wheeler, e del segreto di Wheeler stesso, fratello del Toby Rylands che è già stato “maestro” di Deza, uno il doppio dell’altro, estraniati da un cognome diverso e poi riuniti da una scelta comune. 
    Termina come è iniziato, “Febbre e Lancia” che feriscono e fanno soffrire, con l’affermazione “In realtà non si dovrebbe raccontare mai niente”, perché la vita non è raccontabile e noi moriamo quando ci rendiamo conto che il nostro vissuto è stato annullato, e con quello i nostri ricordi irraccontabili.

la recensione è stata pubblicata sulla rivista "Stilos"







                                                                              

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