giovedì 4 gennaio 2018

Michela Murgia, “Accabadora” ed. 2009

                                                           Casa Nostra. Qui Italia
       premio Campiello
        il libro ritrovato

Michela Murgia, “Accabadora”
Ed. Einaudi, pagg. 164, Euro 18,00


    Sembra quasi una parola magica, “Accabadora”, che è il titolo del romanzo di Michela Murgia. Suona un poco come l’Abracadabra che spalanca porte nella roccia, e forse è proprio così. Perché ‘accabadora’ deriva dallo spagnolo acabar, finire, e così viene chiamata- nel villaggio sardo- la vecchia che apre le porte di qualunque cosa sia l’aldilà, aiutando in maniera pietosa coloro la cui vita non si può più definire tale, perché varchino quella soglia con una spinta, finendo di soffrire.
     Che l’anziana Bonaria Urrai vestita di nero sia la Parca che taglia il filo lo intuiamo verso la metà del libro di Michela Murgia, quando qualcuno viene a chiamarla di notte e il giorno dopo si diffonde la voce che un vecchio è morto. Perché il romanzo inizia con un’altra parola sarda- e ci pare bellissima- ‘fillus de anima’. “E’ così che vengono chiamati i bambini generati due volte”, e sono i figli di una madre povera  che vengono, per così dire, “regalati” ad un’altra donna che, invece, di figli non ne può avere. Diventando da figli di sangue a figli dell’anima.
Maria Listru aveva due madri- era arrivata ultima, dopo altre tre bambine, quando suo padre era già morto, ed aveva sei anni quando Tzia Bonaria l’aveva vista giocare con la terra e, dopo un breve parlare con Anna Listru, se l’era portata via con sé. Una doppia opera buona, perché Bonaria Urrai avrebbe anche dato dei soldi alla madre di Maria, oltre a toglierle una bocca da sfamare, e avrebbe assicurato un futuro migliore alla bambina, senza peraltro che perdesse i contatti con la sua vera madre.

    Il romanzo “Accabadora” è costruito nella tensione tra questi due poli, di nascita e di morte. Perché occorre un aiuto sia per nascere sia per morire. Perché, a ben vedere, c’è un debito di gratitudine sia da parte di chi diventa un ‘fillus de anima’ sia da parte di quelli che ricorrono all’accabadora perché non ne possono più di esistere in una ‘non’ vita. E ci può essere uno scambio tra questi due debiti? E dove si pone la linea sottilissima tra un gesto di misericordia e un delitto? Maria Listru non sa nulla, pensa che la madre adottiva sia una sarta; Tzia Bonaria mette ben in chiaro che sapere dove vada- ogni tanto, la notte- non è cosa che la riguardi. Finché, nella notte che precede la festa dei morti, quando le anime dei trapassati tornano a trovare i viventi, muore il fratello di un amico di Maria, un giovane che ha perso una gamba per una storia di liti tra vicini di campi. La sua esistenza è stata distrutta, eppure lui sta bene. E l’amico di Maria ha visto un’ombra nera curva con un cuscino sul letto del fratello.
scena dal film
A questo punto “Accabadora” diventa un doloroso romanzo di formazione (ma quale Bildungsroman non è doloroso?), perché per Maria la madre adottiva è un’assassina. Non serve che Tzia Bonaria le dica che, proprio come si ha bisogno di aiuto per venire al mondo, serve un aiuto anche per andarsene da questo mondo. Che non si deve mai dire: ‘di quest’acqua io non ne bevo’. Che lei è stata l’ultima madre che molti hanno visto.
     Serve uno stacco, per arrivare a bere dell’acqua che non si vorrebbe bere. E nel romanzo c’è una sorta di interludio, che è la parte più debole del libro: Maria parte, va sul continente, a fare la bambinaia in una Torino fredda che verdeggia nel Valentino. Uno dei bambini non è poi tanto piccolo, ha già quattordici anni quando Maria arriva. Ne avrà sedici quando Maria viene licenziata- facile indovinare perché. Ma intanto tornerebbe ugualmente in Sardegna: Tzia Bonaria ha avuto un ictus e Maria la assisterà. Fino alla morte.


     “Accabadora” è un bel libro. Perché ci parla di qualcosa di cui si è molto discusso di recente riportandoci indietro nel tempo- a metà degli anni ‘50- e in un paese, la Sardegna, dove la tecnologia è ancora ben lontana dall’arrivare. Nessun respiratore artificiale, nessuna alimentazione via flebo, nessuna terapia del dolore. Una vita più elementare in cui neppure si parla di ‘eutanasia’. Eppure il problema è quello, il quesito è lo stesso di oggi: si ha il diritto di porre termine all’esistenza di qualcuno? Quale è il momento limite che distingue il delitto dall’atto di amore? E il romanzo corre veloce, con una scrittura nitida, pieno di luci e di ombre. Di quell’ambiguità del sentire che è presente sia nello scegliere un figlio dell’anima sia nello sciogliere i fili della vita.

la recensione e la seguente intervista sono state pubblicate su www.stradanove.net


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