sabato 19 marzo 2016

Dieter Schlesak, Il farmacista di Auschwitz ed. 2009

                                                 Voci da mondi diversi. Area germanica
        Shoah
        il libro ritrovato



Dieter Schlesak, Il farmacista di Auschwitz
Ed. Garzanti, trad. Tomaso Cavallo, pagg. 414, Euro 18,60

Victor Capesius era farmacista a Sighişoara, amico della famiglia dello scrittore Dieter Schlesak. Durante la seconda guerra mondiale Capesius fu  farmacista ad Auschwitz, l’uomo che distribuiva le dosi dello Zyklon B, il gas usato per uccidere gli ebrei. Fu anche riconosciuto come uno degli ufficiali che operavano la selezione sulla banchina di arrivo: mandò a morire uomini, donne e bambini che conosceva di persona. Un romanzo-saggio che ricostruisce la vita di quest’uomo, che fu condannato a nove anni di carcere e poi continuò la sua vita tranquillamente.

INTERVISTA A DIETER SCHLESAK, autore de Il farmacista di Auschwitz


    ‘Capesius, chi era costui?’. In tedesco il titolo del libro di Dieter Schlesak riporta questo nome, Capesius, subito seguito dalla sua qualifica, der Auschwitzapotheker. Nella versione italiana c’è solo quest’ultima, Il farmacista di Auschwitz, perché altrimenti avremmo potuto farci la domanda di Don Abbondio: di certo il nome Victor Capesius non avrebbe detto nulla alla maggior parte degli italiani. Il farmacista di Auschwitz è un titolo senza ombre che colloca nel luogo e nel tempo il personaggio di Victor Capesius come agente di morte.

Nato a Reuβmarkt (nell’impero austroungarico di allora) nel 1907, Victor Capesius era figlio di un medico e farmacista, aveva studiato farmacia a Cluj (in Romania) e, dopo il servizio militare nell’esercito romeno, aveva terminato gli studi laureandosi a Vienna nel 1933. Dopo di che aveva lavorato come rappresentante farmaceutico per la Bayer. In seguito agli accordi tra Romania e Germania Capesius fu arruolato nella Wehrmacht e addestrato nel corpo delle Waffen SS. Dall’autunno del 1943 fino alla liberazione dei campi nel 1945 Victor Capesius fu responsabile della farmacia delle SS ad Auschwitz. Era l’uomo che consegnava le latte contenenti lo Zyklon B, perché fosse versato nella conduttura delle finte docce delle camere a gas. Ma non solo quello- dei sopravvissuti hanno testimoniato sulla sua presenza all’arrivo dei treni, sulla famigerata banchina di Auschwitz dove un cenno verso destra o verso sinistra significava vita o morte: Victor Capesius in quel delirio di onnipotenza che ti fa sembrare simile a Dio, perché sei padrone del destino dei tuoi simili.

     Il libro, romanzo, saggio storico, di Dieter Schlesak si aggiunge alla narrativa che già abbiamo sui campi di sterminio e sulle persone che hanno reso possibile il genocidio degli ebrei. Per alcuni versi Il farmacista di Auschwitz ci ricorda i due libri inchiesta di Gitta Sereny, In quelle tenebre e In lotta con la verità, il primo una lunga conversazione con Franz Stangl, capo del campo di Treblinka, e il secondo con Albert Speer, architetto personale di Hitler prima e poi ministro degli armamenti. Anche ne Il farmacista di Auschwitz lo scrittore interroga Capesius, incontrandolo a Göppingen, dove questi aveva aperto una farmacia dopo aver scontato i nove anni di reclusione a cui era stato condannato nel Processo Auschwitz. Come Stangl che aveva detto ‘Ho la coscienza pulita’, così Capesius non si riconobbe mai colpevole. Come Speer che- molto più intelligente di Capesius- si era costruito un’autodifesa in cui lui per primo voleva disperatamente credere (perché Speer è un incantatore ma è verosimile che, nelle sue parole, ‘non sapevo ma avrei dovuto sapere’?), anche Capesius manipola la verità, fabbrica e altera testimonianze, usa dei mezzucci meschini, tutti rivolti a provare che il tal giorno lui non era là, sulla banchina di Auschwitz, qualcuno lo aveva sostituito… Quanto ai contenitori dello Zyklon B…sì…no…erano sugli scaffali…lui non sapeva…In conclusione, lui, Capesius, come Stangl o come tutti gli altri citati nel libro, aveva obbedito agli ordini. Era innocente, se non davanti agli uomini, almeno davanti a Dio- come si trova scritto in una lettera del cognato Helmut. Perché Capesius era cresciuto con il mito, inculcatogli dal padre, dell’ordine e della legalità della Germania: ‘Sulla base di questo atteggiamento ho ritenuto che anche ciò che accadeva ad Auschwitz fosse legale, benché mi sembrasse crudele’. Non vorremmo usare le parole tanto sfruttate di Hannah Arendt, della banalità del male, eppure è proprio di questo che si tratta. Nel caso di Victor Capesius c’è un’aggravante alla sconvolgente banalità del male: tra la fine primavera e l’estate del 1944 arrivarono ad Auschwitz 34 treni dalla Transilvania settentrionale e dall’Ungheria e Capesius conosceva di persona molti di quegli ebrei che arrivavano sconvolti dal viaggio, si rallegravano al vedere un viso noto, si illuminavano di una troppo breve speranza di aiuto. Capesius non è solo l’indifferente carnefice. Capesius è il carnefice che è pure un traditore, dell’amicizia, della fiducia, di una basilare umanità.

     Dieter Schlesak, lui stesso appartenente alla minoranza tedesca di Romania, i cosiddetti Volksdeutche (cittadini di etnia tedesca ma senza la nazionalità tedesca) reclutati forzatamente nell’esercito nazista, adotta un espediente narrativo che aggiunge qualcosa alla singolarità del libro, trasformandolo da romanzo inchiesta o saggio storico su un personaggio da lui conosciuto in un’opera di alto valore letterario, un capolavoro del genere.
Ci sono due io narranti ne Il farmacista di Auschwitz, un testimone interno ai campi che ha scritto su minuscoli fogli di carta quello che ha visto, e un testimone esterno che raccoglie prove, si documenta, interroga. Il fittizio Adam, l’ultimo ebreo di Schäßburg (oggi Sighişoara), e lo scrittore stesso, nato nel 1934 in quella città.
E a volte, non fosse per quello che viene raccontato, per le scene d’orrore quotidiane nei campi che vengono descritte, pare quasi che le due voci si sovrappongano, divengano una nella compassione, nello sdegno che si sforza di trovare parole. E di trovarle in tedesco, salvando la lingua che è la loro, di Adam e di Schlesak, e non quella dei carnefici che l’hanno trasformata nella lingua dell’odio, un ringhio, ogni ordine come uno sparo.
Stilos ha chiesto a Dieter Schlesak di dirci di più su questo libro e su Victor Capesius, l’uomo dalla mascella larga e i capelli ravviati all’indietro che abbiamo visto nelle numerose fotografie che illustrano il libro domandandoci se qualcosa in quei tratti lasci intendere che è un assassino.
Dieter Schlesak
 La prima domanda che mi sono posta, quando ho preso in mano il Suo libro, è stata: ‘Perché questo libro adesso? Perché solo adesso, a oltre sessant’anni dalla fine della guerra?’ . Perché?
      Ho pubblicato il libro solo dopo la morte di mia madre, perché non volevo arrecarle dolore. In qualche modo, poi, mi sembrava che questo fosse il momento giusto, che il tema del libro fosse ‘maturo’. La sua domanda è importante perché c’è veramente, adesso, un grande pericolo: il fascismo è di moda. Il presidente della camera in Italia, Fini, è fascista. C’è anche il pericolo che Mussolini, o il rumeno Antonescu, vengano riabilitati. Ma era il momento giusto anche per me, il tema era arrivato a maturazione anche dentro di me. Ho incontrato a Monaco il mio amico ebreo-rumeno Norman Manea,
Manea
che ha passato cinque anni in un lager, e insieme a lui, quella sera, c’era il poeta tedesco Hans Magnus Enzensberger. Entrambi mi hanno incoraggiato, mi hanno detto: “Ora devi pubblicare il libro. E’ il momento!”. Ed era veramente il momento, visto l’interesse che ha suscitato: in Italia si è arrivati alla terza edizione e ne sono state vendute diecimila copie, ed inoltre il libro è stato tradotto in polacco, rumeno, ungherese, e verrà pubblicato in America, Spagna, Brasile, Israele, Olanda.

La seconda domanda è stata: ‘Se il titolo originale è Capesius, vuol dire che c’è un luogo, ci sono delle persone a cui questo nome è noto. Perché non se ne è sentito parlare?’
  Capesius è un personaggio storico, aveva il rango più alto nel processo di Auschwitz, a Francoforte. E’ stato il farmacista della mia città natale, era molto conosciuto tra la mia gente, i sassoni della Transilvania. 

Leggendo il libro, mi sono resa conto che Lei aveva conosciuto di persona Capesius e non solo di recente, ma proprio al tempo in cui lui era ‘il farmacista di Auschwitz’. Che ricordi ha di lui a quei tempi? Era una personalità alla Dr.Jekyll e Mr. Hyde?

      Capesius era un personaggio molto vicino a me, appartiene al mondo dei miei ricordi. Sono state questa vicinanza e questa emozione che mi hanno permesso di scrivere un’opera di letteratura, che fosse nello stesso tempo romanzo e documentario. E tuttavia questo particolare ricordo della mia bella infanzia in Transilvania in quel tempo del massimo orrore ha anche rovinato i miei ricordi d’infanzia. Ho scritto anche di questo…una liberazione! E’ stato come levarsi un gran peso dalla memoria, perché c’è anche, in me, un complesso senso di colpa. Capesius era un uomo normale, un buon padre e un buon nonno. Eppure ad Auschwitz fu un carnefice e un criminale. Una doppia personalità, sì.
Ma io non posso e non devo solo accusare: faccio parte di una famiglia di una minoranza tedesca, con la stessa educazione di Capesius o di Roland Albert, altro personaggio del libro. Capesius è venuto dal mio nido, quasi dalla mia stessa famiglia, come anche Roland Albert. Altri quattro miei zii sono stati ufficiali delle SS nei lager di Buchenwald, Auschwitz, Neuengamme, Dachau e Flossenburg. Ma ho anche ricordi di bambini ebrei nel nostro cortile, la famiglia Baruch, della sinagoga, del rabbino. Anche loro conoscevano Capesius che poi li mandò nelle camere a gas. Fanno parte della mia infanzia. E dopo, quando ho saputo quello che era successo tra il 1940 e il 1945, i miei ricordi sono cambiati e si sono rovinati. Così con questi ricordi, che sono il materiale più vero per uno scrittore, ho scritto non solo Il farmacista di Auschwitz, ma tutta la mia opera.


E che cosa ha significato per Lei, in termini di sofferenza interiore e di emozioni, indagare sulla persona di Victor Capesius?
     Ho scritto il libro con un pensiero che mi assillava: se io fossi stato di otto anni più vecchio, che cosa ne sarebbe stato di me? Sarei finito anche io in questo mulino della morte? Come mi sarei comportato? Avrei eseguito anche io gli ordini, come loro, anche se andavano contro la mia coscienza? Perché io ho avuto la stessa educazione tedesca, dell’obbedire, del sottomettersi, e ho lottato tutta la vita contro me stesso, o contro questa educazione. E così è nata la mia trilogia transilvanica, Transylvanische Trilogie, dopo che, nel 1969, emigrai dallo Stato rosso, dalla Securitate, con tutte le paure e le persecuzioni- e anche questa esperienza si trova nei miei romanzi, nelle mie poesie e nella trilogia. Il primo volume è stato pubblicato a Zurigo nel 1986, sedici anni dopo l’emigrazione, e già lì c’erano Capesius, Roland e tutti i colpevoli della mia famiglia. Esistevano già le discussioni con la mia famiglia, le interviste registrate come documenti, giorni e giorni di interviste a Capesius e a sua moglie, a Roland e a mio zio. C’erano anche le lettere del tempo di guerra dell’archivio di famiglia, scritte dai lager a casa, in Transilvania. Questo materiale si trova nel primo volume che ha un titolo che viene in parte da Hölderlin, I giorni della patria e l’arte della sparizione. Il secondo volume è Il farmacista di Auschwitz e il terzo ha ancora un titolo provvisorio in italiano, Transilmania- sarà pubblicato sempre da Garzanti. No, non posso dire di sentirmi liberato, dopo questo libro, anche perché, dopo la pubblicazione, c’è sempre un grande bisogno di sapere da parte dei lettori. Sono arrivati inviti di presentazioni, interviste come questa, articoli e discussioni. Devo dire, però, che questo è uno stress positivo, è un genere di felicità ‘pesante’: il mio peso della memoria, l’abisso e i dolori che ho portato in me sono diventati produttivi e ora servono…


Quando, cioè in quale momento della sua ‘creazione’ del romanzo, e perché ha deciso che ci sarebbero stato un altro ‘io’ narrante, oltre a Lei stesso, il fittizio Adam?
     Prima ho cercato, come autore, di fare un libro raccontando i fatti con una lingua da autore. Era impossibile, assolutamente impossibile fare un romanzo normale con questa tremenda tematica. Io, come autore, non avevo nessun mandato. Così ho creato un personaggio che radunasse in sé tutti i testimoni che hanno raccontato del loro vissuto ad Auschwitz, tutte voci non Transilvaniche con le testimonianze più dense e drammatiche, sia sentite ai processi o lette nella memorialistica. Così non c’è niente di inventato neppure nella voce di Adam.

Lo ha chiamato Adam come il primo uomo, nome che significa, appunto ‘uomo’, per indicare che al posto di Adam potrebbe esserci chiunque? Adam che è l’umanità, dunque?
    Sì: a prima vista Adam è l’ultimo ebreo di Schässburg, la voce delle vittime di Sighişoara e della Transilvania. Ma alla fine è una voce e una coscienza collettiva, la voce dell’umanità stessa che ha sofferto questa tremenda interruzione della civiltà.


Ricorrono spesso, nel libro, parole in difesa del tedesco. Adam rivendica il tedesco come la sua madrelingua e il suo tedesco non è lo stesso di quello che i carnefici hanno trasformato nella lingua dell’odio. Dietro questa rivendicazione della lingua tedesca c’è anche- se la lingua è la patria di un uomo- la rivendicazione della Germania come la propria Vaterland, la Germania della filosofia e della musica in opposizione alla Germania dei macellai criminali?
     Sì, è proprio così. Ci sono due lingue: il tedesco di Adam, che è la lingua della cultura tedesca- Adam è uno scrittore ebreo tedesco, alla pari di tanti grandi poeti, romanzieri e scienziati ebrei, Kafka, Celan, Freud, Einstein, - in opposizione alla lingua abbaiata dagli SS. Oppure anche alla lingua di Hitler e della ideologia nazista. Victor Kemperer ha scritto un libro su questa lingua, LTI, ‘lingua tertii imperii’.

A proposito di differenze linguistiche: come era il tedesco di Capesius? C’è solo qualche cenno che non sia un bel tedesco, ma noi leggiamo la traduzione e non siamo in grado di capire la portata della differenza.
     La lingua di Capesius non corrisponde neppure del tutto alla LTI, tranne che per qualche termine, come KL, Konzentrationslager, o Entwesung per disinfettare…La sua lingua, anche quella scritta è burocratica e fredda. Sono però importanti gli errori che faceva Capesius nell’uso della lingua, e purtroppo non si possono tradurre: parlava un tedesco scorretto, illogico, scarno. Credo che la sua psiche sia stata traumatizzata, forse distrutta. Era il suo inconscio che parlava. Credo che sia esistita una morte psichica delle SS: anche loro sono state, in un certo senso, delle ‘vittime’. Nessuno è interamente senza coscienza morale, questa coscienza è stata affogata dall’obbedienza e dall’ideologia. Ma la coscienza sommersa ha lavorato dentro di loro.

Ci sono tre strati linguistici nel libro: il primo, di un livello più elevato, è il tedesco di Adam che per lui è anche la lingua in cui si può parlare di Dio; poi c’è la Lagerszpracha, la lingua del campo, e infine al livello più infimo c’è il tedesco dei carnefici. Mi può parlare della Lagerzspracha? Qualcuno ha scritto un dizionario dei termini di questa sorta di esperanto dei campi?
   Il Lagerszpracha è l’esperanto dei prigionieri, formato soprattutto da parole prese dal polacco e dal tedesco, ma anche dalle altre quaranta lingue parlate nei lager. Non esiste un vocabolario del Lagerszpracha, ma c’è un ampio glossario nel lavoro scientifico di Martin Winmann e nel lavoro di Wolf Oschlies. Ci sono forse una decina di testi su questa lingua comune nei campi, ma manca un libro. C’è poi il Dictionar de lagär, dell’ebreo rumeno Oliver Lustig, in cui lo scrittore ha raccontato la sua esperienza del lager utilizzando parole tedesche adeguate, da ‘ab’ fino a ‘Zynismus’.

recensione e intervista sono state pubblicate sulla rivista Stilos



                                                                                  








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