mercoledì 17 febbraio 2016

Kevin Powers, “Yellow birds” ed. 2013

                                                  Voci da mondi diversi. Stati Uniti d'America
          guerra in Iraq
          il libro ritrovato


Kevin Powers, “Yellow birds”
Ed. Einaudi, trad. Matteo Colombo, pagg. 192, Euro 17,00
Titolo originale: The Yellow Birds


E quindi certo, Murph voleva vedere un po’ di gentilezza, voleva guardare una bella ragazza, voleva trovare un posto in cui la compassione esistesse ancora, ma il punto non era quello. Lui voleva scegliere. Voleva volere. Voleva rimpiazzare l’ottundimento che gli stava crescendo dentro con qualsiasi altra cosa. Voleva decidere cosa avere intorno, rifiutare ciò che gli piombava addosso per errore o per caso, rimanendo poi in orbita come l’anello di un pianeta. Voleva un ricordo creato di sua volontà, per compensare i resti frantumati di tutto ciò che non aveva chiesto.

       “Yellow birds”, che strano titolo, Uccelli gialli, per un libro che parla di guerra. Poi, alla prima pagina, la spiegazione, nei versi di una filastrocca militare americana che parla di un uccellino giallo con il becco giallo appollaiato sul davanzale: “l’ho fatto avvicinare/ con un pezzo di pane/ e poi gli ho sfondato/ quella testa di cazzo”. In un lampo comprendiamo che i soldati sono come l’uccellino giallo, allettati da un sogno di virilità e di gloria, mandati in guerra e falciati da un nemico contro cui combattono perché glielo hanno ordinato. E il luminoso colore giallo, così stonato accanto alla morte, appare ancora, più avanti nel libro, quando Bartle, il protagonista narrante, ritorna in America dopo aver combattuto in Iraq e rifiuta la gentilezza del barista che non vuole essere pagato per la birra, indicando il nastro giallo che ha appeso dietro il bancone: simboleggia la solidarietà per i combattenti o l’attesa del rimpatrio di chi è al fronte. Giallo come augurio di vita, in questo caso, ma Bartle non può accettare: il suo amico Murph rimarrà per sempre là, ad Al Tafar in Iraq.

    Il romanzo di Kevin Powers, che ha combattuto come mitragliere in Iraq nel 2004 e nel 2005, inizia nel settembre del 2004, con la morte incombente ad Al Tafar, per spostarsi indietro nel tempo al 2003, quando i due ragazzi si erano arruolati, proseguendo poi in un’alternanza di tempi, fino al 2009. Nel 2003, quando il sergente Sterling aveva ‘affidato’ Murph a Bartle, non avevano neppure quarant’anni in due. Murph aveva appena compiuto diciotto anni e Bartle ne aveva ventuno: “Yellow birds” è un breve e tremendamente doloroso romanzo di formazione, un romanzo di crescita in cui uno dei due amici non ha il tempo di crescere e l’altro diventa grande scoprendo di essere stato ingannato.
C’è ben poco di eroico nella guerra, c’è paura e sangue, c’è quel senso di sollievo che ti pare ignobile quando muore qualcuno e per questa volta tu l’hai scampata se un altro è morto al posto tuo, ci sono viscere che fuoriescono da una ferita e c’è merda, c’è l’impressione di essere un vigliacco e di fare qualcosa di profondamente sbagliato quando spari a un vecchio. O quando non sei tu ma qualcun altro a sparare e le vittime sono donne o bambini. Qual è il senso di combattere in un paese che neppure si sapeva dove fosse, sulla carta geografica, prima di esservi inviati? E il contrasto tra le crude scene di morte e gli squarci di una natura bellissima- sia il verde della Virginia sia i tramonti di fuoco dell’Iraq- è più che mai lacerante.

     “Yellow birds” non è un romanzo solo sul momento della guerra, sulla dimensione del tempo che conflagra nell’attimo delle esplosioni, sullo sdoppiamento di personalità necessario per poter uccidere. E’ anche un romanzo sul ritorno dalla guerra, sull’importanza del ritornare, vivi o morti, dalla guerra. E mai come in questo caso appare chiaro che nessuno ritorna uguale a quello che era prima. Non Bartle che conosce un tormento senza fine (perché non aveva risposto ‘preferisco di no’, come il personaggio di Bartleby lo scrivano di Melville?), non Murph che neppure ritorna. Ma allora, come si doveva intendere la promessa che Bartle aveva fatto alla mamma di Murph, “Le prometto che glielo riporterò a casa”? come aveva potuto Bartle arrogarsi il diritto di essere lui a scegliere, al posto della donna che aveva messo al mondo il suo amico, a decidere che cosa lei avrebbe voluto? “Ho fatto un errore”, dice Bartle al sacerdote che gli si avvicina in una chiesa in Germania, in una sosta durante il volo di rientro negli stati Uniti. E la coscienza e la memoria fanno pagare caro gli errori.

     Non si esce indenni dalla lettura di “Yellow birds”. E’ uno di quei libri che ti si conficcano dentro, un’altra scheggia di granata ad unirsi a quelle di altri romanzi bellissimi di guerra, come “I tredici soldati” di Ron Leshem e “A long, long way” di Sebastian Barry.

la recensione è stata pubblicata su www.wuz.it


   

  

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