mercoledì 10 febbraio 2016

Almudena Grandes, “Cuore di ghiaccio” ed. 2008

                                              Voci da mondi diversi. Penisola iberica
       la Storia nel romanzo
      romanzo 'romanzo'
      il libro ritrovato

Almudena Grandes, “Cuore di ghiaccio”
Ed. Guanda, trad. Roberta Bovaia, pagg. 1009, Euro 20,00



Pensai all’ordine e al caos, al passato e al futuro, pensai a Teresa, pensai a Raquel. Che sfortuna, nonna, che sfortuna, Álvaro, che sfortuna, amore mio, che sfortuna abbiamo avuto, che sfortuna continuiamo ad avere, che sfortuna avremo sempre. Come si fa a cominciare una nuova vita in questo modo, come si fa ad accettarlo? Non saremo mai soli, tu e io non potremo mai vivere insieme e soli, perché ci sarà sempre troppa gente attorno, vivi e morti, con te e con me, e verranno a letto con noi, si alzeranno con noi, mangeranno, berranno, cammineranno con noi.

    Quando terminiamo di leggere un romanzo ci viene spontaneo cercare un aggettivo che lo racchiuda. Può essere un generico ‘bello’, o ‘discreto’, o ‘carino’ se è qualcosa di non impegnativo, per restare in un giudizio più o meno positivo. “Cuore di ghiaccio”, l’ultimo romanzo di Almudena Grandes, è appassionante e appassionato. E risveglia le nostre passioni. Non potrebbe essere altrimenti, con un titolo che deriva dal poeta Antonio Machado: “Difenditi dalle domande, dalle risposte e dalle loro ragioni, o una delle due Spagne ti gelerà il cuore. Il mio cuore era di ghiaccio, e bruciava.”
     1936, 1939, 1975: sono queste le date fondamentali della storia di Spagna del secolo trascorso. L’inizio e la fine della più crudele delle guerre, quella fratricida che mette alla prova- più di ogni altra- i valori della dignità e della lealtà umana, e la morte del Generalissimo Franco- evento che rallegrò i perdenti di quarant’anni prima e allarmò i sostenitori della dittatura, i profittatori, i ladri, i delatori, gli assassini, che temevano una resa dei conti.

Il romanzo di Almudena Grandes inizia nel 2005, con il funerale di Julio Carrión González, 83 anni. Nel piccolo cimitero di Torrelodones (il paese originario di don Julio) c’è tutta la bella famiglia del defunto: la moglie, i cinque figli (tutti, tranne uno, sono molto biondi, alti, dall’aspetto poco spagnolo come la loro madre) con i mariti e le mogli e i bambini. Ci sono gli anziani abitanti del paese. E c’è una donna giovane, bruna, molto bella, che fa un’apparizione fugace che nessuno nota tranne Álvaro Carrión Otero, l’unico dei figli che assomigliasse fisicamente al padre. E così, quando Álvaro si reca ad un appuntamento in banca per decidere su dei fondi investiti dal padre, è l’unico in grado di riconoscere la sconosciuta nel consulente finanziario che aveva usato solo il cognome, Fernández Perea, per convocare qualcuno della famiglia. Che cosa vuole l’affascinante Raquel che dice di essere stata l’amante del padre? Sono necessarie mille pagine per saperlo- perché è chiaro, a questo punto, che le due famiglie, dei Carrión e dei Fernández, diventano emblematiche delle due Spagne e dei suoi due colori, il rosso e il nero. E che il presente si spiega solo con il passato. E che, per quanto ci si sforzi di dimenticare, il passato non passa mai. E infine che- come viene spesso ripetuto nel libro- le storie spagnole vanno sempre a finire male.
Francisco Franco
    Prima di finire male, però, sono appassionanti le storie di queste due famiglie e dei loro amici, tanto quanto la rovente storia d’amore che, piuttosto prevedibilmente, divampa tra Álvaro e Raquel. E sarebbe più facile parlare di questa che di quelle- aggrovigliate, grondanti sangue e lacrime, colme di amore e di odio, di atti di generosità estrema e di tradimenti abietti. Storie che parlano di assedi e di fame (splendida la ricetta delle pernici evacuate- uguale a quella delle pernici stufate ma senza pernici), di arresti e fucilazioni, di nascondigli e fughe, della División Azul e del freddo in Russia, di campi d’internamento e di esilio, di brindisi che (proprio come facevano gli ebrei della diaspora) augurano ‘l’anno prossimo in patria’, e poi, soprattutto di tradimenti. Ad ogni livello, da parte delle grandi potenze, degli ideali, degli amici. E non si sa quale raggeli di più il cuore.

    I capitoli si alternano, in “Cuore di ghiaccio”, tra un presente narrato in prima persona da Álvaro e un passato in terza persona che pare quasi una voce corale, ricca com’è di interventi diversi, di narrazioni ripetute, molto spesso con le stesse parole, a trasformarsi in leggenda. Perché niente venga dimenticato, anche se l’Ignacio Fernández nato in esilio, dopo i raduni famigliari, canta in tono blasfemo ‘ne abbiamo piene le palle’- della guerra civile, dei morti, delle eterne vedove, delle tragedie. E allora le parti degli altri capitoli- quelli raccontati da Álvaro che indugiano su dei corpi gloriosamente sani e sfiniti dall’amore- sono un bel controcanto, un breve intervallo in una storia che finirà male.
     Questo non era certo un romanzo che Almudena Grandes potesse scrivere agli inizi della sua carriera letteraria, quando (era il 1989) diventò famosa con “Le età di Lulù”. Per l’ampiezza del materiale trattato, la profondità di sguardo, il duplice registro narrativo, la varietà di voci e la molteplicità di personaggi. Tutti vivissimi. Perché “Cuore di ghiaccio” è uno di quei libri che non finiscono con l’ultima pagina. Che continuano a parlarci con le voci dei protagonisti, che conosciamo come fossero nostri amici di sempre.

la recensione è stata pubblicata su www.wuz.it






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