lunedì 5 maggio 2014

Amos Oz, "Non dire notte"

                                                       Voci da Mondi diversi. Medio Oriente
                                                        il libro ritrovato


Amos Oz, “Non dire notte”
Ed. Feltrinelli, trad. Elena Loewenthal, pagg. 200, Euro 15,00

Theo ha 60 anni, è un progettista alla fine della carriera. Noa ha quindici anni di meno, insegna letteratura. Non sono sposati, vivono in una cittadina ai margini del deserto del Neghev. Uno studente di Noa viene trovato morto, forse un incidente, forse per overdose. Il padre del ragazzo incarica Noa di realizzare un centro per la disintossicazione dei giovani ma il progetto incontra forti opposizioni e mette a rischio l’equilibrio della coppia che, tuttavia, ritrova la serenità alla fine.


INTERVISTA AD AMOS OZ, autore di “Non dire notte”

   Il silenzio del deserto è una voce forte nel romanzo di Amos Oz “Non dire notte” (appena pubblicato in Italia da Feltrinelli ma uscito in Israele nel 1994). Punteggiato dal canto dei grilli. Interrotto dall’ululare dei cani pastore dei beduini, un latrato che risponde ad un altro. “Questo è il deserto nelle notti d’estate: antico. Indifferente. Vitreo. Né morto né vivo. Presente.”- Theo ha seguito Noa a Tel Kedar, sul limitare del deserto, ma, stranamente, questa vita immobile e pressoché immutabile lontano dai grandi centri abitati si addice di più a lui che a lei, effervescente, vivace, disordinata, pronta ad afferrare ogni brandello di vita.
A Theo Noa rimprovera proprio questa condizione di non essere né morto né vivo, come il deserto. Di sembrare sempre immerso in un sonno profondo, lui che paradossalmente soffre di insonnia. E’ vero, come la accusa uno dei membri del comitato preposto alla realizzazione del centro per la riabilitazione dei tossicodipendenti, che Noa si è gettata in questa impresa per noia? Perché non ne può più di parlare di Agnon a questi studenti che sbuffano, a queste ragazzine che si chiamano tutte con lo stesso nome e lei non ne distingue una dall’altra. Ad esseri sinceri Noa non si era accorta né che Immanuel si drogasse né che avesse una particolare passione per la sua materia né che fosse innamorato di lei, la sua insegnante. E la matita, che non ricorda di avergli dato ma che per lui aveva avuto un’importanza tale da accennarne al padre, diventa il rovello della memoria per Noa, finché- ecco, gliela aveva data quando lo avevo sorpreso in infermeria: che cosa ci faceva, che cosa cercava Immanuel in infermeria? E nasce il rimpianto di non aver capito, di averlo sferzato con la sua ironia.
    La realizzazione del centro, le discussioni che ne conseguono, i timori e l’opposizione dei cittadini, forniscono una sorta di pretesto per la storia di coppia di Theo e Noa di cui noi sentiamo le voci in capitoli alterni, inframmezzati da qualche capitolo narrato, o osservato, in terza persona. Non sono dialoghi e neppure monologhi, piuttosto una via di mezzo o, come dice lo scrittore stesso, dei “dialoghi solitari”, del tipo che si fa quando si è soli, quando si è al proprio meglio e si pensa di parlare con gli altri. E, come già ne “La scatola nera”, la bravura di Amos Oz nel variare lo stile a seconda di quale personaggio stia parlando è straordinaria: la pacatezza quasi sonnolenta di Theo- viene spesso ripetuto che ha un viso largo, da contadino, quasi a sottolineare la sua positiva ragionevolezza- viene scossa dall’irruenza del linguaggio, dalla velocità e dall’estrosità dei comportamenti di Noa. Dall’uno e dall’altra, con particolari uguali eppure diversi, apprendiamo del loro incontro in Sud America, dei motivi differenti per cui erano lì; lui rammenta il caffè stregato che lei gli aveva offerto per conquistarlo, lei non se ne ricorda quasi; lei si era lasciata dietro anni di cure al padre sulla sedia a rotelle, lui sognava di progettare spazi di bellezza.  Storie loro e di altri, di tenerezza, di perdite, di avventure, di amore- il padre di Immanuel racconta dello scimpanzé addomesticato che si era innamorato della moglie; Noa ricorda il ragazzo irlandese a cui aveva dato un passaggio (è un caso che provenga da un paese che ben conosce gli attentati terroristici?): cercava la ragazza con cui aveva passato una notte, senza avere idea in quale kibbutz fosse, aveva detto delle parole che Noa non dimentica, che se si ha un briciolo di bontà si trova bontà ovunque.
     E’ questo il sentimento che prevale nel romanzo di Amos Oz, questo desiderio di bontà, di amore e di quiete. Si appiana il turbolento legame tra Theo e Noa, si evita lo scontro con la cittadinanza che non vuole rischiare accogliendo dei drogati, si giunge ad un compromesso e in memoria di Immanuel verrà computerizzato il liceo. E se l’ultima frase del libro è “e poi torno da lui nel buio”, questo non è un buio che intimorisce, è il buio in cui si fa l’amore, è il buio attraverso cui riusciva a vedere il beduino che chiamavano “Notte”. Senza farsi sentire da lui, “non dire notte” però, perché notte è femminile in arabo e le differenze tra gli individui o tra i popoli vanno rispettate. Stilos ha intervistato Amos Oz, in Italia per “Dedica”, il festival di Pordenone di cui è ospite d’onore.


Lei vive in un paese da cui arrivano continuamente notizie di guerra, eppure non si sentono i rumori della guerra in questo romanzo. Come mai?
     Perché volevo scrivere una storia che non fosse relazionata all’Israele della CNN, volevo che non fosse una storia di guerra ma una storia della vita reale, perché c’è differenza tra l’Israele della CNN e l’Israele della realtà quotidiana. Ero affascinato dall’idea di creare il microcosmo di una piccola città del deserto in cui tutti si conoscono e sanno tutto di tutti. Mi affascinava questa commedia umana che ho cercato di dipingere come meglio ho potuto. E’ anche un romanzo sulle famiglie: la famiglia è l’istituzione più paradossale, più misteriosa, più buffa del mondo, l’istituzione più tragica del mondo. Se dovessi dire in una parola su che cosa è la mia opera letteraria, direi che è sulle famiglie; se avessi due parole a disposizione, direi che è sulle famiglie infelici. Questo romanzo è un pezzo di musica da camera, un romanzo domestico.

Mi è parso che fosse anche un romanzo sulla necessità del compromesso…
    Certo, è un libro sul compromesso e sulla necessità di scendere a dei compromessi per restare vivi. I giovani pensano che un compromesso sia opportunistico e disonesto. Ma nel mio vocabolario il compromesso è sinonimo di vita, dove c’è vita c’è compromesso. L’opposto del compromesso non è integrità e onestà, ma è fanatismo e morte. Il compromesso per me è una filosofia, un modo di vita. Credo nel compromesso a tutti i livelli, sociale e famigliare, e per ‘compromesso’ non intendo offrire l’altra guancia, intendo cercare di incontrare l’altro a metà strada. Visto che ho alle spalle 47 di matrimonio, so bene che cosa sia il compromesso. Questo è un libro sul compromesso e sulle concessioni, oltre ad essere un romanzo sull’amore e sulla morte, sulla solitudine e sulla desolazione.

Nel romanzo “Una storia di amore e di tenebra” diceva che ogni storia è un’autobiografia e nessuna è una confessione: c’è qualcosa di autobiografico anche in questo romanzo?
    Sì, c’è, perché è un romanzo su una città nel deserto e io abito nel deserto, perché è una storia con dei protagonisti di mezza età e io sono di mezza età, sul cercare di fare delle cose buone senza riuscirci sempre e io cerco sempre di farle e non sempre ci riesco. Questa è la mia parte di autobiografia nel romanzo.

Ad un certo punto del romanzo Avraham Orvieto, il padre del ragazzo morto, racconta una storia dello scimpanzé innamorato che deve poi essere riportato nella foresta e abbandonato, una storia molto bella: è un regalo per i lettori o c’è da leggere altro tra le righe di questa storia? 

    La storia della scimmia innamorata è una metafora per lo stato di solitudine che pervade il romanzo, l’unica maniera per sfuggire alla solitudine è l’amore, anche quando essere innamorato significa disperazione. La scimmia non aveva scelta per realizzare il suo amore, ma con metafore e contrasti questa struggente storia della scimmia innamorata rappresenta la necessità dell’amore, come tutto perda significato senza l’amore.

Noa dice una frase, “Dimenticare per perdonare è un insopportabile cliché”: è d’accordo con lei?
    Sì, non penso che per fare pace tra nemici si debba dimenticare e perdonare. Si deve semplicemente fare la pace. Nel vocabolario pacifista le parole pace-amore-compassione sono sinonimi. No, la pace è pace e non necessariamente amore. Non sono d’accordo con lo slogan ‘Fate l’amore, non fate la guerra’. Se mi trovo davanti a un palestinese, io direi, ‘fate la pace e non l’amore’. Non c’è bisogno di amare per essere in pace, non è necessario che dei nemici si amino, che dimentichino e che perdonino. E’ necessario smettere di uccidere e di morire per vivere, anche se a denti stretti. Quando parlo di compromesso, non parlo di nemici che si abbracciano. Tra israeliani e palestinesi, ma anche tra uomini e donne, io mi aspetto una coesistenza a denti stretti. Sfido un mio vecchio conterraneo, Gesù Cristo, dicendo questo, ma è noto che in Israele non ci sono mai due israeliani d’accordo.

Lo studente Immanuel dice che le parole sono trappole: è vero che le parole sono trappole?
    Possono esserlo, Immanuel dice qualcosa che tutti sanno: le parole, non tutte e non sempre, possono essere trappole.

Un nodo fondamentale del romanzo è il tema della famiglia, argomento di cui si discute molto in Italia in questo momento. Pensa anche lei, come molti, che nel mondo occidentale si stia andando verso la disgregazione della famiglia?

     No, penso che dobbiamo allargare il significato del termine famiglia, che vi si debbano fare entrare anche delle convivenze che una volta non rientravano nella concezione di famiglia. Sapevamo che ‘famiglia’ era genitori e figli oppure anche fratelli e sorelle, pur senza che ci fosse un legame erotico. Ma penso che anche due uomini o due donne insieme possano formare una famiglia. Sì, credo veramente che si debba allargare il termine per includere altri rapporti di due persone che stanno insieme. Conosco una famiglia formata da una persona sola e da un gatto: non voglio dire che lo Stato debba riconoscerli come famiglia, ma io non ho problemi a riconoscere questo legame.

Il nome che lei ha scelto per sé, Oz, significa “forza”. Quanta forza ci vuole per parlare apertamente, per dire ai governi quello che non vogliono sentire?
     Per carità, non vorrei essere trasformato in un eroe come Solzhenicyn: non sono mai stato arrestato, né perseguitato. Ricevo lettere folli, e-mail di minaccia di morte, ma non ho mai dovuto fare sacrifici. La cosa più spiacevole era quando i miei figli erano bambini e a scuola li chiamavano “i figli del traditore”. I miei vicini di casa sono arrabbiati con me per le mie opinioni politiche ma Israele ha una società tollerante e aperta, non merito certo una medaglia per eroismo.

A colloquio di recente con l’ex ministro degli Esteri Shlomo Ben-Ami, autore del libro “Palestina”, questi ha parlato della soluzione che prospetta due stati in Israele e un ritorno ai confini del 1967: secondo lei l’opinione pubblica israeliana è pronta per una soluzione di questo tipo? Shlomo Ben-Ami diceva di sì.
     Sono d’accordo con Shlomo Ben-Ami e vi do buone notizie dal Medio Oriente- anche se questo è un ossimoro, perché o ci sono buone notizie o c’è il Medio Oriente. La maggioranza degli ebrei israeliani e degli arabi palestinesi sono pronti per i due stati, pronti e non entusiasti, pronti e non felici, pronti come un paziente è pronto per un’operazione chirurgica. I sondaggi dicono che la maggioranza degli israeliani e dei palestinesi tollereranno la soluzione dei due stati. I leader purtroppo non hanno la visione e la capacità di tradurre questo in realtà. E’ come se il paziente fosse pronto ma i medici non avessero il coraggio. Parliamo di un paese piccolo come la Sicilia- anche se dal rumore che fa parrebbe grande come la Cina- in cui ci sono due nazioni, 5,5 milioni di israeliani che non hanno un altro posto in cui andare e 4 milioni di palestinesi che non hanno un altro posto in cui andare. Non sono una famiglia unica pronta a vivere felice perché non sono una famiglia e non sono felici, e allora la casa deve essere divisa in due appartamenti. Non ci sono alternative, questo è quello che deve essere fatto e prima è meglio è.

Di recente lei ha detto che sarebbe pronto a combattere un’altra guerra se si sentisse minacciato. La società israeliana percepisce la possibilità di una guerra come difesa o ci sono ancora tendenze aggressive?
     E’ impossibile generalizzare, la società israeliana è molto frantumata e varia. Molti vedono la guerra solo per difesa e per niente altro. Poi ci sono dei gruppi pronti alla guerra per altri fini: i luoghi santi, le risorse, altra terra. E ci sono diverse interpretazioni di autodifesa: dove finisce l’autodifesa? Personalmente combatto come il diavolo se cercano di uccidere me e la mia famiglia o se vogliono trasformarmi in uno schiavo. Ma non combatto per nessuna altra ragione.

Letteratura come impegno, letteratura come evasione: la letteratura può essere ancora un rifugio in un paese devastato dalla guerra?
  Penso che in Israele la letteratura sia ancora entrambe le cose: leggi per essere coinvolto e per essere distaccato. Gli israeliani leggono come ossessionati, leggono per dissentire. Mi capita spesso di incontrare dei tassisti che hanno letto un mio libro e iniziano a discutere con un mio personaggio ed io dovrei essere la connessione tra l’uno e l’altro. Leggono un’allegoria politica anche dove non c’è, è così e io non posso farci niente.

Una volta ha parlato delle voci che sente, dei suoi personaggi: come nascono queste voci dentro di lei?
    E’ vero, ogni mio romanzo inizia con delle voci e non so da dove vengano perché i miei personaggi non sono mai creati da modelli reali. Avevo un vicino che diceva che ogni volta che passava davanti alla finestra del mio studio si ravviava i capelli, mettendosi a tiro per entrare nel romanzo. Non so da dove vengano le voci.
Restano voci a lungo, non sapevo nulla di Theo e Noa, però sentivo un uomo stanco del mondo e una donna mercuriale e amante dei cambiamenti. Discutevo con loro, gli dicevo ‘andatevene da un altro scrittore’, ma insistevano a restare lì ed alla fine è arrivata la loro fisicalità, e poi la città con i suoi pettegolezzi, la trama. Un mio romanzo inizia sempre con le voci dei personaggi e la trama arriva molto dopo.

                                                                                                                




1 commento:

  1. grazie. Molto utile per un confronto con i pensieri che mi sono affiorati dopo la lettura del libro. Il più utile contributo trovato dopo una ricerca notturna in rete ...

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