domenica 11 maggio 2014

Marsha Mehran, "Caffé Babilonia" ed. 2005

                                                      Voci da mondi diversi. Asia
                                                       il libro ritrovato


INTERVISTA A MARSHA MEHRAN, autrice di “Caffè Babilonia”

“Caffè Babilonia” della scrittrice iraniana Marsha Mehran (Ed. Neri Pozza, pagg. 244, Euro 15,50) può essere letto come un libro di ricette persiane oppure come una storia sullo sradicamento dalla propria terra e lo sforzo di ricominciare una vita altrove. Ogni capitolo è introdotto da una ricetta e i profumi che escono dalla cucina del Caffè Babilonia ci trascinano nelle strade del villaggio di Ballinacroagh nell’Irlanda settentrionale dove la gente annusa, arriccia il naso, spettegola e maligna su quelle tre ragazze definite sbrigativamente “arabe”, “di colore”. Nessuno entra nel caffè il giorno di apertura, ma Marjan, Bahar e Layla non si scoraggiano e saranno ricompensate- prima si affaccia il parroco che resta deliziato, e poi seguiranno tutti gli altri, anche perché nessun palato potrebbe resistere a quelle saporite delizie così diverse dallo scipito prosciutto con cavolo irlandese. Non è stata facile la vita delle tre sorelle e, a tratti, affiorano i ricordi,
o meglio gli incubi- Marjan era stata arrestata, cacciata in prigione e sottoposta a duri interrogatori dalla polizia dello Shah; Bahar aveva subito violenza da parte del marito fondamentalista- solo la piccola Layla non aveva subito traumi ed è quella che si inserisce con più naturalezza nella nuova vita, innamorandosi del bel Malachy McGuire.  
     Non è nuovo il tema del cibo come espressione di vita, di amore per la vita, del piacere della tavola che prelude ad un benessere che dispone ad un’apertura verso gli altri e ad un appagamento dei sensi. Ricordiamo quel capolavoro che è “Il pranzo di Babette” e i romanzi di facile lettura e di altrettanto facile versione cinematografica “Chocolat” e “Come acqua per il cioccolato”, o anche l’italianissimo e delizioso “Casalinghitudine” di Clara Sereni. Quello che caratterizza il libro di Marsha Mehran è la singolarità dell’ambientazione, il contrasto tra il luogo geografico dove le sorelle aprono il loro caffè e quello da cui provengono e che profuma i piatti che preparano. Se Marjan, Bahar e Layla volevano fuggire lontano da Teheran, Ballinacroagh era il luogo ideale, nella contea di Mayo in Irlanda, il limite estremo di Europa affacciato sull’Atlantico. Un paese dimenticato da tutti per tutto l’anno tranne che l’ultima domenica di luglio, quando migliaia di pellegrini arrivano da ogni dove per salire sul Craigh Patrick, la montagna che domina il paesaggio e su cui San Patrizio digiunò per 41 giorni nel 441 A.D. “Caffè Babilonia” è un libro di contrasti, tra questa religiosità folkloristica e la grettezza degli abitanti, tra l’apparenza pacifica e la violenza nascosta, tra usanze diverse che si esprimono in sapori diversi e, in maniera più colorita, tra il tipico pub irlandese grossolanamente odorante di birra e la raffinatezza del caffè persiano in cui troneggia un panciuto samovar. Stilos ha intervistato la scrittrice, la cui vita è in parte simile a quella delle tre sorelle. 


Lei ha avuto una vita insolita che, in un certo senso, è simile a quella delle ragazze protagoniste del suo romanzo: quando ha lasciato l’Iran?
      Avevo solo due anni, era il 1979 quando i miei genitori fuggirono dalla rivoluzione. Avrebbero voluto andare a studiare negli Stati Uniti, ma il giorno in cui mio padre era in coda per ottenere il visto, hanno preso degli ostaggi tra le persone che erano presenti e lui è riuscito a tornare a casa, ma a questo punto non si poteva più aspettare di avere il visto. Per quello hanno scelto di emigrare in Argentina, dove era facile entrare. Mi hanno raccontato che era un periodo tremendo in Iran: la mia famiglia non era musulmana, era bahai, la religione di una minoranza che viene considerata “infedele”. I miei non erano praticanti ma, ugualmente, erano soggetti alla discriminazione, per esempio non gli era permesso frequentare l’università. E chiunque era autorizzato a uccidere un bahai, e tutti giravano con le armi. Uno zio di mia madre è stato assassinato solo perché era uno dei capi della religione bahai.

E una volta arrivati in Argentina, come è stato l’adattamento?
     Naturalmente è finito il sogno dei miei genitori di andare all’università. Prima di tutto hanno dovuto imparare la lingua, i soldi erano pochi e hanno aperto un piccolo ristorante- come le ragazze del mio romanzo. Quando avevo quattro anni mio padre mi ha iscritto in una scuola privata scozzese- era abbastanza buffo frequentare una scuola scozzese in Argentina e trovarsi a parteggiare per gli inglesi nella guerra per le Faulklands. Così ho imparato lo spagnolo, l’inglese e naturalmente il persiano. Quando ero piccola alla sera davo la buonanotte in tre lingue. Dopo cinque anni in Argentina siamo emigrati negli Stati Uniti, a Miami. Mio padre faceva lo chef e dopo ha avuto anche un impiego in banca- ma è per questo che il cibo ha una parte così importante nella mia vita.

Ha dei ricordi dell’Iran?
     Ho solo dei ricordi sensoriali, ricordo odori, i colori dei fiori, mi ricordo il momento della partenza. Mio padre è appena tornato in Iran per la prima volta dopo 25 anni. Io non mi sento ancora pronta per andare, mi sembra che siano ancora tempi incerti, ma prima o poi lo farò.

Come mai adesso vive in Irlanda? Ha sperimentato lei stessa il razzismo di cui sono vittime le tre sorelle del romanzo?    

      Vivo in Irlanda perché ho sposato un irlandese, ma tra poco ritorneremo a stare a New York. Quanto al razzismo, sì, lo avevo già sperimentato anche negli Stati Uniti. Anche se so di non avere un aspetto chiaramente rivelatore della mia origine, il mio vero nome lasciava capire che sono persiana, gli americani trovavano difficile pronunciare Mahsa, ecco perché l’ho modificato. E poi si capiva che non ero americana perché il cibo che mangiavo era diverso, gli abiti erano diversi. Negli anni ‘70 e ’80 mi chiamavano “terrorista” e “hijacker”, dirottatrice di aerei. Era una vergogna venire dall’Iran.

Nel libro è chiaro che il razzismo in Irlanda è dovuto a ignoranza, a paura del diverso.
      Sì, è così. Vivo nella parte occidentale dell’Irlanda, nella contea di Mayo e lì non capiscono neppure da dove io venga, a volte mi chiedono se sono cinese o giapponese, le donne anziane mi guardano in maniera strana. Però, dopo la diffidenza iniziale, gli irlandesi si aprono, cambiano. Mio marito appartiene ad una tradizionale famiglia cattolica, adesso si sono persino abituati ai piatti che preparo, le prime volte restavano lì, ammirati ma diffidenti, sembrava che guardassero qualcosa in un museo.

C’è un motivo per cui uno dei personaggi più simpatici e generosi del libro è Estelle, una signora italiana?
      Molte persone mi hanno detto che l’hanno trovata molto simpatica, io non me ne sono resa interamente conto fino alla fine del libro, la mia è stata una decisione inconscia, di crearla così. Ho incontrato molte persone come Estelle, pronte ad aiutarmi. Volevo un personaggio caldo, una combinazione di qualità dell’area mediterranea. In lei c’è anche questo amore molto forte per il marito che ormai è morto e poi il fatto che non abbia avuto figli e prenda quasi “in adozione” le tre sorelle, tutto in lei è generoso ed estroverso. Estelle ritornerà anche nel seguito del libro che sto scrivendo.

Il libro è una storia di vite ferite, di vite interrotte ma è anche una storia d’amore: l’amore è una forza redentrice?
      Per me lo è stato, ho trovato qualcuno che mi ha aiutato, come avviene nel libro per Leyla che trova Malachy- è l’unione dell’Oriente con l’Occidente.

E’ anche un libro di ricette: qual è la sua ricetta preferita?

    Certamente le Orecchie d’Elefante: le cucinava mia madre per me, è una ricetta dolce e buonissima che mi piace veramente molto.

Il titolo originale è “Pomegranate soup”. Qual è il simbolo del melograno?
    Il melograno in origine era il frutto proibito nel giardino dell’Eden, è un simbolo di fertilità, di rinascita.
A Persefone era stato detto di non mangiare niente e lei invece ha mangiato sei melograni ed è per quello che è dovuta restare per sei mesi nell’Ade, e quando lei ritorna è la rinascita della terra dopo i sei mesi invernali. Inoltre il melograno è il frutto ideale per le donne incinte, perché contiene molto ferro- adesso il succo di melograno è una delle bevande più richieste negli Stati Uniti.   



Marsha Mehran






                                                                                         

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