domenica 2 febbraio 2014

Nadeem Aslam, "Mappe per amanti smarriti"

                                                                  
                                                           Voci da mondi diversi. Asia            
          il libro ritrovato




INTERVISTA A NADEEM ASLAM, autore di “Mappe per amanti smarriti”
Ed. Feltrinelli, pagg. 382, Euro 18,50

Inizia e finisce con un uomo che guarda scendere i fiocchi di neve, il romanzo “Mappe per amanti smarriti” di Nadeem Aslam, nato in Pakistan nel 1966 e abitante in Inghilterra. Inizia sul far dell’inverno con una coppia di amanti, Jugnu e Chanda, che ormai sono scomparsi da mesi e finisce un anno dopo, con il processo che condanna gli assassini. E nella fine violenta di questa coppia è contenuto il significato del libro- sono le vittime del fanatismo musulmano, perché un uomo e una donna non possono convivere se non sono sposati, Chanda è una vergogna per la sua famiglia e Jugnu va punito. Non c’è nessuna mappa che possa ricondurre a casa questi due amanti smarriti, ma tutti gli altri personaggi hanno bisogno di una mappa- come tutti gli stranieri che arrivano in un paese che non conoscono- per orizzontarsi, per non perdersi. Al centro del romanzo di Aslam c’è una famiglia di pakistani immigrati in Inghilterra, in una città non precisata a cui è stato dato il nome di Dasht-e-Tanhaii, il Deserto della Solitudine, perché si sentono tutti soli, sradicati dalla loro terra, e ad ogni strada è stato dato un nuovo nome pakistano, per disegnare una mappa conosciuta. C’è chi cerca di uscire da questi stretti confini, come l’idealista Shamas, o suo fratello Jugnu. E c’è chi, come Kaubab, la moglie di Shamas, o la maggior parte degli abitanti di Dasht-e-Tanhaii, pensa che l’Inghilterra sia un gran bordello e vive come fosse in Pakistan, in stretta osservanza delle leggi religiose. Lo sguardo di Aslam è critico, attento soprattutto alla condizione delle donne, e leggiamo storie bisbigliate da una donna all’altra, di ragazze mandate in Pakistan per sposare dei cugini primi, di donne ripudiate da mariti ubriachi a cui basta la triplice ripetizione della parola talaaq per sbarazzarsi di loro, di una ragazza percossa a morte da un santone per far uscire dal suo corpo uno djinn malvagio. Sono due mondi, due culture, due generazioni a confronto, e quello che era iniziato come la storia di un amore tragico “segnato dalle stelle” diventa un romanzo sulla mancanza di amore e di tolleranza, sull’amore per Allah e la mancanza di amore per le sue creature. E le coppie di amanti felici possono solo apparire come spiriti luminosi, volteggianti nell’aria come le farfalle studiate da Jugnu, che ha finito per bruciarsi come una falena, perché si è avvicinato troppo al fuoco. Stilos ha intervistato lo scrittore pakistano.                               

“Mappe per amanti smarriti” esce a 11 anni di distanza dal suo primo romanzo: come mai ha impiegato tanto tempo a scrivere questo secondo romanzo?
     Inizialmente questo romanzo doveva essere una novella di 150 pagine. Il personaggio principale era Shamas, ma era vedovo. Doveva essere un vecchio che tira le somme della sua vita, pensa agli amori e alle delusioni. Vicino a casa sua c’è una casa vuota: ci viveva una coppia che è stata assassinata dai fratelli della donna che non potevano tollerare che i due convivessero senza essere sposati. Doveva essere un’immagine di vuoto in contrasto con l’abitazione del vecchio Shamas che era invece piena di amore. E a un certo punto, dopo più di un anno che avevo iniziato, ho scritto un episodio sulla morte della moglie di Shamas e, più esploravo il personaggio della moglie, più mi rendevo conto che dovevo farla rivivere e legarla alla storia del marito. E allora è cambiato tutto nel racconto e il libro è diventato un romanzo. Perché Shamas faceva una vita ritirata, non frequentava molte persone, i suoi figli tornavano a casa raramente. Ma se c’era una donna, tutto era diverso e dovevo conoscere meglio i personaggi, perché, se è presente una madre, la figlia torna a casa e si mette a chiacchierare con lei, ricordano insieme, parlano di altre persone. E l’uomo della porta accanto doveva diventare più importante, magari un parente, per acquistare una posizione di antagonismo nei confronti della donna. Mi ci sono voluti quattro anni per esplorare i nuovi personaggi, ho scritto biografie di un centinaio di pagine di ognuno di loro, ho scritto “biografie” anche delle stagioni e della città. Volevo conoscere il mondo in cui vivevano i miei personaggi. L’altro motivo per cui ho impiegato tanto tempo è che non avevo soldi per lavorare solo sul libro e dovevo accettare impieghi vari, da usciere a cameriere, per guadagnare qualcosa e poter andare avanti con la scrittura.

Lei è nato in Pakistan ed è arrivato in Inghilterra quando aveva 14 anni. E’ stato difficile ambientarsi?
     E’ stato uno shock arrivare dal Pakistan in Inghilterra a 14 anni, scoprire che, a causa della mia razza, del colore della mia pelle, della mia provenienza, venivo considerato un essere inferiore, che dare del “Paki” a qualcuno era un insulto: fino ad allora ero stato un essere umano, adesso non lo ero più. All’improvviso mi trovavo in un posto in cui la maggioranza disprezzava quelli come me. E’ stato uno shock profondo, ma l’ho superato velocemente. Avevo vissuto 14 anni in Pakistan e sapevo che la mia gente non era inferiore a nessuno, che grandi poeti, musicisti, scrittori e cantanti venivano dalla mia parte del mondo, e pensando a loro sono riuscito a superare il trauma.

E’ cresciuto in una famiglia religiosa osservante?
    No, la mia era una famiglia di bohémien: mio padre era un poeta, la nostra casa era piena di libri, da noi si viveva una vita della mente. Non eravamo ricchi, però avevamo quadri sulle pareti, certo non erano originali, anzi erano riproduzioni  ritagliate dai giornali e messe in cornice, ma era importante che fossero lì, sul muro, per mostrare che una maniera di capire il mondo è conoscere come gli altri lo hanno visto, che cosa ne hanno fatto. Mio padre era un poeta, aveva scritto poesie in urdu con lo pseudonimo di Wamaq Saleem. Poi si è sposato, ha avuto dei figli e ha rinunciato a scrivere per mantenere la famiglia. Io crescevo e avvertivo come una ferita in mio padre, percepivo che lui aveva la sensazione che la sua vera vita non avrebbe dovuto essere quella. E in entrambi i miei libri c’è un poeta pakistano con il nome di Wamaq Saleem e ci sarà in tutti i miei romanzi: quello che mio padre non ha potuto fare perché c’ero io, lo farà nei miei libri, io lo farò essere per sempre un poeta nei miei libri.

Nel libro lei ha un atteggiamento molto critico non tanto verso la religione quanto verso il fanatismo.
    Se qualcuno mi avesse chiesto, prima dell’11 settembre, se sono musulmano, la mia risposta sarebbe stata negativa: sono un laico, ho una mente scientifica, quando penso alle origini del mondo non vado a cercarle nella Bibbia o nel Corano, ma in Darwin, in Hawkins. Dopo l’11 settembre, però, quando mi fanno la domanda se sono musulmano, rispondo di sì, perché adesso è importante, perché ci sia qualcuno della comunità musulmana che dica, “non siamo tutti terroristi, c’è gente musulmana che è come noi, anche questo è essere musulmani”. Ed è un messaggio sia per i non musulmani sia per i fondamentalisti della comunità musulmana. E’ una maniera per opporci al loro volersi imporre come gli unici veri musulmani. E’ questo quello che io critico.

La sua attenzione sembra essere rivolta particolarmente verso la condizione delle donne. Mi ha colpito una cifra: nel libro si dice che nel mondo musulmano viene uccisa una donna ogni 38 minuti.
    Come essere umano, la mia attenzione va sempre verso i più deboli e, nella mia comunità, sono le donne ad essere più deboli. E’ una situazione complicata perché le donne si trovano dentro un sistema che condiziona talmente le sue vittime da trasformarle in carnefici di altre vittime: sono loro stesse che si fanno garanti di quelle leggi che hanno fatto di loro delle vittime, e non se ne rendono conto e si oppongono a qualunque cambiamento. Le donne hanno un potere solo nella casa, se il sistema cambiasse non avrebbero più neppure quello. Dovrebbero avere più cultura, avere un lavoro, per esercitare il potere in altre sfere. Invece sono loro a perpetuare una situazione in cui è il maschio ad essere educato da padrone.


La coppia smarrita, le vittime nel suo romanzo, diventa un simbolo dell’intolleranza. Il loro assassinio è come un piccolo 11 settembre.
     Il libro è ambientato nel 1997 anche se non viene mai detto: volevo che il lettore si sentisse confuso e spaesato come lo sono i miei personaggi. Mi è stato chiesto come avrei cambiato il libro se lo avessi scritto dopo l’11 settembre 2001: non cambierei niente, in molti modi il mio libro è sull’11 settembre. C’è un gruppo di persone che agiscono con violenza su chi non ha il potere di reagire, dicono che lo fanno per certi motivi e poi, alla fine, si capisce che non sono quelli i veri motivi, ma diversi e vari.

Gli inglesi non appaiono quasi nel romanzo; se non fosse per quello che viene detto contro di loro, e per le stagioni- quattro perché manca quella dei monsoni, come dice Shamas- non ci renderemmo conto che il libro è ambientato in Inghilterra.
    Il tema delle quattro stagioni è legato alla struttura del romanzo. All’inizio è inverno, tutto è gelato e addormentato e questa è la parte che riguarda il passato dei miei personaggi; la primavera è la stagione dello sbocciare e della crescita, e nel libro sono i figli a venire in primo piano; l’estate è inondata di luce, sesso, riproduzione, e Shamas si abbandona all’amore e alle richieste del corpo, e poi l’autunno con le foglie gialle, tutte le cose finiscono. Dov’è l’Inghilterra, dove sono gli inglesi? L’Inghilterra dei bianchi non è descritta perché non è il mio romanzo, l’Inghilterra è anche gente così che non si mescola con gli inglesi. Le ragioni dell’antagonismo sono complicate, risalgono al colonialismo. Questa gente fu colonizzata, ha dei ricordi, anche io ho dei ricordi: la città di Gujranwala, dove sono nato, fu bombardata dalla RAF nel 1919 e mia nonna mi portava al bazar e mi mostrava gli edifici che erano stati bombardati. E poi le prime ondate di immigranti, negli anni ‘50 e ’60, sono state accolte con molta ostilità. Kaukab a un certo punto dice che odia l’Inghilterra perché le ha portato via i figli: l’Inghilterra significa cambiamento, e loro non vogliono cambiamenti.

Si parla spesso di falene, farfalle e pavoni nel libro. Qual è la loro simbologia?
    Volevo usare l’immagine delle falene come una metafora del pericolo dell’amore in una comunità dove il comportamento degli uomini e delle donne deve essere controllato altrimenti può essere pericoloso: chi ha il potere odia l’amore. Ma le falene amano la fiamma- vuol dire che, anche se sai che qualcosa fa male, la fai ugualmente. E’ nella natura umana innamorarsi. Quella delle farfalle è una figura della poesia urdu, fa parte di una sequenza di immagini che simboleggiano l’amante che cerca l’amato: la farfalla e il fiore, il cipresso e la colomba, il fior di loto e l’ape. E’ un tema ripetuto nella poesia islamica, anche a livello religioso: è l’anima dell’uomo che cerca Dio, la salvezza. Quanto al pavone, rappresenta il peccato. Nella cultura islamica è stato il pavone che ha introdotto Satana in Paradiso. Quando Satana ha bussato ai cancelli del Paradiso la prima volta, è stato riconosciuto e respinto. Si è trasformato allora in serpente e ha chiesto aiuto al pavone che è l’uccello del paradiso. E’ il pavone che ha portato il serpente in Paradiso e così ne è stato cacciato insieme ad Adamo ed Eva e al serpente. E così adesso i pavoni sono i nemici dei serpenti.

                                                                                            M. Piccone 

Lo scrittore Nadeem Aslam                                     


Articolo già pubblicato sulla rivista letteraria Stilos nel 2005   

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