martedì 17 dicembre 2024

Irina Turcanu, “Manca il sole ma si sta bene lo stesso” ed. 2024

                                                           Voci da mondi diversi. Romania

     romanzo di formazione

Irina Turcanu, “Manca il sole ma si sta bene lo stesso”

Ed. Marsilio, pagg.240, Euro 16,15

 

     Tre personaggi, tre voci diverse, tre punti vista diversi. Sono i Romanencu, il padre, la madre e la figlia. Nella prima parte del romanzo i tre punti vista si alternano, poi resta solo quello di Ina e nel nome, un diminutivo di Irina, riconosciamo la scrittrice stessa.

    La storia della famiglia inizia dopo la caduta di Ceaučescu, quando, nell’ebbrezza della fine della dittatura, tutto sembra possibile- arricchirsi, avere gli agognati beni di consumo che si invidiavano ai paesi occidentali. I Romanencu si improvvisano imprenditori. Falliscono. Lui è professore universitario, la moglie è ignorante ma è bella e lui ne è innamoratissimo. Devono adattarsi a vivere insieme alla madre di lei, poi decidono di emigrare in Italia. È soprattutto lei che ambisce a cambiare paese. L’Italia è quella che appare negli spettacoli televisivi, tutto sembra facile laggiù.

    La realtà è ben diversa. La vita per lui è di certo peggiore che in patria. Anche se ci mette la buona volontà, i lavori manuali (gli unici che può trovare) non fanno per lui e viene regolarmente licenziato. Le donne hanno maggiori possibilità di lavoro, come domestiche, come badanti. Infatti lei viene assunta da una famiglia ricca e, in seguito, quando il padrone di casa si separa dalla moglie, le chiede di andare con lui a vivere nella casa di sua madre, in un paese sugli Appennini. Il seguito ci pare ovvio.


    Ina è stata lasciata in Romania, dalla nonna. Come vive una bambina la lontananza dai genitori? È il padre che le manca, più della madre. È brava a scuola, fin troppo brava se una volta viene punita dall’insegnante per aver scritto una poesia così bella che la professoressa pensa l’abbia copiata. Attraverso le reazioni di Ina, quando riceve i pacchi regalo di sua madre, quando si rifiuta di rispondere al telefono quando lei la chiama, noi capiamo la sua sofferenza, il suo sentirsi abbandonata, non voluta. Capisce tutto, anche quello che sarebbe meglio non capisse- il tradimento della madre, l’alcolismo del padre, la loro ‘caduta’.

    Poi cambia tutto. La madre invita Ina in Italia per una vacanza. È un inganno. Ina si fermerà e abiterà con lei, la madre l’ha già iscritta al liceo a Piacenza.


    “Manca il sole ma si sta bene lo stesso” (il titolo è preso da un verso di una poesia di George Cos,buc) è un romanzo di formazione bello e diverso, direi che è più ricco di altri che abbiamo letto. Gli anni di ‘formazione’ della protagonista sono visti accanto all’evoluzione dei due personaggi adulti, a come il padre e la madre reagiscono e crescono o cadono come conseguenza dei cambiamenti politici e dell’espatrio. E Ina vive prima l’abbandono e, nonostante la giovane età, scopre che l’affetto non si può comprare, che i jeans che la madre le spedisce non sostituiscono la sua assenza, e poi il trapianto forzato in un paese di cui non sa la lingua e in cui non conosce nessuno, lasciando dietro di sé il suo primo amore e la nonna che l’aveva colmata d’affetto. Di Ina ammiriamo la resilienza e l’ambizione. Ha la fortuna di incontrare professori che l’aiutano e la incoraggiano, ma la forza interiore e la caparbia volontà di riuscire là dove padre e madre hanno fallito è tutta sua.

     Un romanzo da leggere perché è una lezione di vita.

     Irina Turcanu è nata in Romania, vive in Italia dal 2001 e, dopo aver frequentato il liceo a Piacenza, ha conseguito la laurea in Filosofia a Milano con una tesi sul filosofo rumeno Emil Cioran. Attualmente collabora come giornalista a diversi giornali e riviste nazionali e locali.





     

 

venerdì 13 dicembre 2024

Ann-Helén Laestadius, “La ragazza delle renne” ed. 2024

                                                                      vento del Nord



Ann-Helén Laestadius, “La ragazza delle renne”

Ed. Marsilio, trad. Sara Culeddu e Alessandra Scali, pagg.

 

   Noi la conosciamo come Lapponia, ma per gli abitanti indigeni si chiama Sapmi e loro stessi non sono lapponi ma sami. È una regione all’estremo Nord dell’Europa e il suo territorio è diviso fra Norvegia, Svezia, Finlandia e Russia. Sappiamo tutti del clima freddissimo, dei canti caratteristici, gli joik, delle tre ore scarse di luce nel mese di dicembre, dello spettacolo delle aurore boreali. Delle renne abbiamo un idea romantica e folkloristica e invece l’allevamento delle renne, animale insensibile al freddo e capace di sopravvivere in situazioni estreme, è essenziale per la popolazione sami.

    Il romanzo di Ann-Helén Laestadius, “La ragazza delle renne”, ci porta dentro il mondo dei sami ed inizia con una scena che ci dà subito la misura di questo mondo.

Elsa ha nove anni quando trova morto il suo cucciolo di renna- sì, il suo, era stata lei a marchiarlo sull’orecchio che adesso era nella neve. Avrebbe riconosciuto la piccola renna tra mille altre, perché aveva una macchia bianca sul muso. Elsa aveva visto chi era stato ad uccidere la renna. Era un uomo di cui aveva paura. L’uomo l’aveva guardata e aveva fatto il gesto di tagliarsi la gola con un dito. Il messaggio era chiaro- se parli sei morta.

Elsa ritornerà sconvolta a casa, l’immagine dell’uomo e del suo cucciolo di renna morto nella neve si imprimerà per sempre nella sua mente, sarà un ricordo costante. Ma lei non dirà mai il nome di Robert Isakson.


     Elsa, suo fratello, il padre e la madre, insieme alla famiglia dei vicini di casa, sono i protagonisti principali del romanzo. Loro sono ‘i buoni’, i sami che vivono, letteralmente, per le renne, che dipendono dalle stagioni dell’anno secondo cui le nuove renne devono essere aiutate a figliare e poi marchiate per mostrare la famiglia di appartenenza, portate ai pascoli. I sami vivono a contatto con la natura, non saprebbero vivere altrove- chi si allontana finisce sempre per tornare. E si preoccupano moltissimo per il cambiamento climatico (uno dei due grandi temi del libro insieme a quello della discriminazione)- non va bene che piova a febbraio, non vanno bene gli sbalzi di temperatura, ne soffrono tutti, le renne per prime che sentono cambiare la presa degli zoccoli sul terreno.

scena dal film

Dei sami, per lo più attraverso Elsa, veniamo a sapere tutto, dagli abiti colorati che indossano, a quei canti che sembrano un lamento, gli joik, alla predominanza della figura maschile nella società. Sono i figli maschi ad ereditare il patrimonio in renne, le donne non sono fatte per occuparsi di loro. Fa eccezione Elsa, che più di una volta mostra la sua abilità a gestire le renne, sembra quasi abbia una capacità particolare di intesa con loro. C’è un’altra cosa ancora da aggiungere, parlando della vita dei sami- la tendenza alla depressione. Forse è il clima, forse quel buio in gran parte dell’anno, forse anche la sensazione di combattere per un mondo che scompare senza speranza. Il suicidio del ragazzo a cui Elsa vuole bene ne è un esempio.


    A fronte dei sami, ci sono gli altri, ‘i cattivi’ fra cui c’è Robert Isakson. Sono quelli che chiamano i sami ‘lapponi di merda’, che uccidono le renne per venderne la carne e lo fanno impunemente, perché la polizia finisce sempre per archiviare i casi. Lo sanno tutti che cosa fa Robert Isakson, perfino le prove sembrano essere evidenti, eppure se la cava sempre, anche quando arriva a minacciare pesantemente Elsa.

    I personaggi del romanzo sembrano figurine di un presepe innevato, perché in realtà quello che giganteggia è proprio il paesaggio- distese bianche, alberi che grondano neve, le sagome delle renne con gli splendidi palchi di corna. “La ragazza delle renne” si legge con grande interesse anche se ci lascia con una sensazione di freddo, senza appassionarci veramente.



   

   

lunedì 9 dicembre 2024

Antonio Manzini, “Il passato è un morto senza cadavere” ed. 2024

                                                                     Casa Nostra. Qui Italia

cento sfumature di giallo

Antonio Manzini, “Il passato è un morto senza cadavere”

Ed. Sellerio, pagg. 564, Euro 17,00

 

   Lo avevamo definito ‘antipatico’, il vicequestore Rocco Schiavone, quando lo avevamo conosciuto per la prima volta nel romanzo “Pista nera”, il primo della serie che lo vede protagonista. Antipatico e scorretto. Scorretto lo è ancora, sembra che per lui non valgano le regole a cui dovrebbe attenersi, non si fa problemi ad entrare in casa altrui senza un mandato o a trattare qualcuno in maniera violenta per costringerlo a parlare. Antipatico no, non lo è più. Forse perché abbiamo imparato a conoscerlo, forse perché ha smussato alcuni lati del suo carattere, forse perché sappiamo quale dolore e quale senso di colpa gli hanno fatto perdere il gusto della vita. E comunque siamo contenti di ritrovarlo nel libro appena pubblicato, “Il passato è un morto senza cadavere”, titolo sibillino che comprendiamo leggendo.

   Nella classifica tutta personale di ‘rotture’ (Rocco continua ad aggiungerne di nuove, perché, alla fin fine, tutta la vita è una grande rottura per lui), il ciclista morto su una strada di montagna è al decimo livello. È stato investito ed è caduto giù per un burrone. Nessuna traccia dell’investitore. Viene poi fuori che in realtà l’incidente mortale è stato provocato da un’automobile che lo seguiva- un assassinio, quindi. Il ciclista morto si chiamava Paolo Sanna ed era un tipo a dir poco misterioso. Originario di Ancona, nessun lavoro,una famiglia ricca alle spalle, aveva cambiato dimora innumerevoli volte prima di finire ad Aosta. Sembrava quasi che fosse perennemente in fuga e che volesse nascondersi. Quel qualcuno di cui aveva paura lo aveva finalmente raggiunto?


    La trama non è semplice perché affonda in un passato che è difficile ricostruire. Difficile non solo perché sono passati tanti anni da quando chiaramente è successo qualcosa che però deve essere insabbiato. Che cosa? Il morto aveva dei tatuaggi sul corpo e altri suoi amici- ricercati con pazienza certosina in base a dei numeri telefonici trovati su un suo taccuino- ne avevano almeno uno uguale. C’era poi la stranezza della morte di quasi tutti questi amici, ancora giovani, in incidenti che, a ben vedere, sembravano costruiti ad arte. Ci sono delle tracce da seguire in questo ‘mystery’, come in una caccia al tesoro- i tatuaggi, un fiore velenoso su una tomba o accanto ad un morto, bare che non contengono nessun cadavere, lettere in una lingua che non è l’italiano…


    Una seconda trama affianca questa prima- la giornalista Sandra Buccellato è scomparsa. Rocco l’aveva vista al ristorante in compagnia di un brutto ceffo e si era chiesto che cosa mai facesse insieme a lui. Non è partita per una vacanza, al giornale non ne sanno nulla, i genitori dicono che è in Francia ma Rocco è certo che stiano mentendo. Perché?

    Se, nella prima indagine della trama, Rocco era il solito Rocco, cinico, scorretto e distaccato, è ben diverso in questa seconda. Rocco ha paura per la vita di Sandra e, nonostante quello che dice, anzi, senza volerlo neppure riconoscere con se stesso, è innamorato di lei. Ecco, allora, i suoi dialoghi con la moglie morta che lasciano presagire una nuova rassegnazione, ecco la riflessione, abbandonata e poi ripresa, sul vivere nel presente o nel passato. È l’inizio di un cambiamento, forse è arrivato il momento di lasciar andare il passato, di far sì che anche quello di cui si può godere nel presente non diventi passato.

   Questa seconda trama ci distrae, forse, dalla prima, ma ci obbliga a valutare il modus operandi di chi ha orchestrato i delitti paragonandolo con il comportamento di Rocco- si può accettare una giustizia riparatrice? E poi non sappiamo la sorte di Sandra, resteremo con il fiato in sospeso fino al prossimo romanzo.




venerdì 6 dicembre 2024

Jenny Erpenbeck, “Kairos” ed. 2024

                                             Voci da mondi diversi. Germania

         love story

Jenny Erpenbeck, “Kairos”

Ed. Sellerio, trad. Ada Vigliani, pagg. 391, Euro 18,00

   Dicono che Kairos, il dio dell’attimo fortunato, ha un ricciolo che gli ricade sulla fronte, e da quello soltanto lo si può trattenere. Ma il dio Kairos passa in un attimo accanto a noi e la parte posteriore della sua testa è calva e non offre nessun appiglio. Aveva davvero colto l’attimo fortunato, Katharina, quando aveva incontrato Hans?

    Berlino Est 1986. Lei, Katharina, ha diciannove anni. Lui, Hans, ne ha trentaquattro, sì, trentaquattro, più di lei. Significa che ne ha cinquantatre. Dieci anni più di suo padre. Ma l’amore è cieco, si dice.

Era l’11 luglio. È la data che festeggeranno ogni mese, il giorno di cui ricorderanno ogni minimo dettaglio del loro incontro- l’autobus che lei aveva preso per un soffio, gli sguardi che si erano incrociati, la pioggia, il caffè, la serata insieme. Lui è sposato (la moglie sopporta i suoi tradimenti, Katharina non sa ancora che lui è un amante seriale), ha un figlio. Lei studia composizione tipografica, lui scrive romanzi. Lui era cresciuto negli anni del nazismo (ricorda quando suo padre, negli ultimi giorni della guerra, aveva gettato la sua divisa della Hitler Jugend al di là del muro del giardino), lei conosceva soltanto il socialismo della DDR.


   La storia d’amore di Katharina e Hans ci viene raccontata in un continuo di punto e contrappunto, il punto di vista di lei e quello di lui, come ognuno dei due vive l’esaltazione dell’innamoramento, quando anche solo pochi minuti lontano dalla persona amata sembrano un’eternità, quando si ama tutto dell’altro, quando si dicono parole e si fanno piccole cose, come attaccare una rosa alla porta dell’amata, che mostrano l’esaltazione del sentimento, quando si è ciechi (avevamo detto, no?,che l’amore è cieco) e non si vogliono vedere i segnali di pericolo. Così Katharina non vuole vedere come l’uomo che ama si riveli a poco a poco in un sadico, egoista, possessivo, geloso, manipolatore. Il tempo passa, quando lui scopre che Katharina- è così giovane, dopotutto- è andata a letto con un collega di lavoro, il suo modo di punirla ricorda da vicino le punizioni esemplari dei regimi totalitari, esigendo confessioni forzate e reiterate, umiliandola, costringendola ad autopunirsi.

    Il romanzo inizia quando l’amore è finito da un pezzo e Katharina riceve la notizia della morte di Hans e uno scatolone pieno di carte- scontrini, biglietti e anche pagine che saranno una totale sorpresa per lei e per noi, che le riveleranno un’altra faccia di Hans.


    Insieme all’amore anche la DDR è finita da un pezzo, il muro di Berlino è stato smantellato, i tedeschi dell’Est si sono gettati famelici sui beni di consumo che avevano desiderato (anche Katharina era tornata da una visita alla nonna a Colonia, quando questa era ancora nella Repubblica Federale, con la valigia strapiena di cose introvabili all’Est), era sopraggiunta anche la delusione del rincaro dei prezzi, della difficoltà di trovare lavoro in questa nuova Germania unita. E poi era stato possibile accedere agli archivi della Stasi.


    La leggerezza della prima parte del romanzo, quella che è un canto d’amore, finisce per stancarci, perché diventa ripetitiva e noiosa, perfino banale. Lui mostra di essere un uomo orribile e solo motivazioni psicologiche neppure tanto difficili da comprendere possono giustificare l’innamoramento di Katharina. Così come è facile capire l’inebriamento della conquista da parte di un uomo più anziano. La seconda parte, quella in cui la fine dell’amore coincide con la fine della DDR, è molto più interessante e avrebbe meritato uno spazio maggiore nella narrativa.

   “Kairos” ha vinto l’International Booker Prize 2024.



 

lunedì 2 dicembre 2024

Valérie Perrin, “Tatà” ed. 2024

                                                             Voci da mondi diversi. Francia



Valérie Perrin, “Tatà”

Ed. e/o, trad. A. Bracci Testasecca, pagg 608, Euro 21,00

 

       2010. La zia Colette è morta. Capita a tutti di morire, non ci sarebbe niente di strano, se non fosse che la zia Colette è già morta tre anni prima, è sepolta nel cimitero di Gueugnon dove ha sempre vissuto. Lei, Agnès, la nipote, non era andata al funerale perché si trovava in America e non avrebbe fatto a tempo ad arrivare. E adesso è morta di nuovo e Agnès deve andare a riconoscere il cadavere? Come è possibile?

   Il nuovo romanzo di Valérie Perrin, “Tatà” (nomignolo affettuoso per ‘zia’), inizia con un elemento di suspense, ma non sarà questo l’unico interrogativo per una vicenda che parte dal presente e si riavvolge sul passato, intrecciando le storie della famiglia di Colette con quelle di altre persone che entreranno a far parte della famiglia o che toccheranno da vicino la loro vita.

   Colette non aveva avuto un’infanzia felice. Era la primogenita di una famiglia povera, il padre era morto presto lasciando una vedova e tre bambini. Colette aveva fatto da mamma al fratellino Jean che avrebbe rivelato presto uno straordinario orecchio musicale- sarebbe diventato un pianista di fama mondiale e come avesse fatto, con quali sacrifici anche di Colette, è tutta una storia che coinvolgerà altri personaggi fino all’incontro di Jean con Hannah, una violinista eccezionale quanto lo è Jean come pianista. Agnès è la loro unica figlia, non assomiglia a nessuno dei due e ha scelto tutt’altra carriera- è sceneggiatrice e regista, i suoi film hanno vinto dei premi, lei ha sposato un attore, ne ha avuto una figlia, si è separata da lui e ne soffre ancora.


    Un fratello e una cognata musicisti, una nipote regista e lei, Colette? Colette, per permettere al fratello di studiare musica, ha fatto l’apprendista da un calzolaio, è diventata la sua figlia adottiva e poi ne ha rilevato l’attività, vivendo sempre nello stesso posto, senza perdere una delle partite della squadra di calcio di Gueugnon.

    Valérie Perrin adotta un espediente narrativo singolare per narrarci i retroscena delle vite dei suoi personaggi. Colette ha lasciato ad Agnès una valigia piena di cassette su cui ha inciso tutto quello che deve dirle- la sua amicizia con Blanche, la ragazzina del circo che le assomigliava come una sorella gemella, l’amore per un calciatore più giovane, la paura costante di essere raggiunte dal padre di Blanche che già aveva cercato di uccidere la moglie, segreti, segreti, segreti, fino a quello della doppia morte.


C’è qualcosa di stregante nell’ascoltare le cassette. Il metodo stesso- il vecchio registratore che Agnès bambina aveva ricevuto in regalo, le cassette che ormai sono scomparse dalla circolazione- ci parla di un altro tempo, come la voce che viene dal passato e si proietta nel futuro. Perché che cosa più di una voce può rimanere per sempre nell’animo di chi ascolta? Una voce è ‘più viva’ delle parole e delle immagini.

    Il romanzo di Valérie Perrin sembra raccogliere l’eredità dei grandi scrittori francesi che hanno raggiunto la fama con storie piene di avventure, amori, coincidenze, figli persi e ritrovati, assassinii e fughe, vicende al limite dell’incredibile. Ci fa pensare a Dumas e a Victor Hugo. È il genere del feuilleton che veniva pubblicato a puntate e mirava a tenere legata l’attenzione del lettore.

Così è per “Tatà” in cui c’è veramente di tutto (un po’ troppo, a dire il vero), con la storia del circo e il suo direttore malvagio e quella della morte dei genitori di Hannah nei campi di concentramento, un foglietto sotto il tasto di uno Steinway che ne rivela i proprietari, le due ragazze e poi donne che si assomigliano stranamente, una fotografia che rivela un’altra straordinaria somiglianza e altro ancora di cui ovviamente non parlo per non guastare la lettura.

    Valérie Perrin sa raccontare bene, sa tenere avvinti i lettori, anche se un centinaio di pagine in meno avrebbero alleggerito la narrazione.



   

venerdì 29 novembre 2024

Anya Niewierra, “Il cammino” ed. 2024

                                      Voci da mondi diversi. Paesi Bassi

cento sfumature di giallo

Anya Niewierra, “Il cammino”

Ed. Neri Pozza, trad. D. Santoro, pagg. 416, Euro 20,00

     Vijilen,Olanda. Una famiglia felice (in apparenza). Lei, Lotte Bonnet, 44 anni, ha una pasticceria specializzata in cioccolato, due figli grandi. Lui, Emil Jukić, non parla mai del passato che si è lasciato alle spalle, non ha mai detto che cosa gli abbia causato quelle tremende cicatrici sulla schiena, è arrivato come profugo dalla Bosnia in Olanda insieme ad un amico che ha sposato la cugina di Lotte. Era stato un incontro casuale, ad un caffè. Per l’amico di Emil e la cugina di Lotte era stato amore a prima vista, per Lotte era stato diverso- aveva sposato Emil perché era rimasta incinta.

    Sei anni prima Emil era stato operato per un tumore all’intestino e, dopo essersi miracolosamente ripreso, aveva deciso di intraprendere il Cammino di Santiago come per ringraziamento. Lungo il Cammino aveva continuato a mandare fotografie e messaggi sereni e pieni di amore alla moglie- che cosa era successo perché si suicidasse, accanto ad una croce in una regione isolata del Massiccio Centrale? Aveva incontrato qualcuno che conosceva? Si trattava veramente di suicidio?


    Quando Lotte e i figli si recano in Bosnia per disperdere le ceneri di Emil, Lotte scopre che suo marito non è affatto Emil Jukić, il vero Emil Jukić è morto nel 1995, ucciso in una delle stragi compiute dalle milizie serbo bosniache. E allora, chi era? Suo marito, l’uomo così affettuoso, l’ottimo padre, è diventato uno sconosciuto.

Un anno dopo la morte Lotte decide di partire, ripercorrendo i suoi passi, seguendo il suo itinerario e prenotando nelle stesse strutture dove lui aveva pernottato, nelle stese date e facendosi assegnare la stessa stanza. Vuole capire, vuole cercare di sapere di più.

    Il Cammino di Santiago ha qualcosa di diverso, qualcosa di più del solito viaggio che -da sempre- porta a una nuova conoscenza di sé e degli altri. È un percorso faticoso anche fisicamente, un itinerario a stretto contatto con la natura che invita alla riflessione e aiuta a liberarsi dai fardelli della quotidianità che ci si è lasciati indietro, proprio come insegna a liberarsi del bagaglio superfluo. Lotte cambia lungo il Cammino, come è giusto che sia, fa nuove amicizie, si innamora e non si accorge di nulla. È troppo fiduciosa (ma perché dovrebbe avere sospetti?), attribuisce al caso gli incidenti che le capitano…


   Definirlo un thriller non è giusto e sminuisce il valore del romanzo. Perché “Il cammino” non è un semplice thriller anche se c’è una forte suspense nelle sue pagine, ci sono molti elementi del mystery soprattutto riguardo all’identità di Emil, ci sono molti colpi di scena.

La profondità, l’attrattiva e il fascino del romanzo sono nel suo sfondo storico, nella ricostruzione della travagliata Storia della Jugoslavia, nell’esame- attraverso la vicenda di tre amici- dell’insorgere della discriminazione etnica laddove un tempo neppure si sapeva chi fosse musulmano o cattolico o ortodosso, chi fosse serbo e chi bosniaco e chi croato, del formarsi delle milizie, di come si sia potuti arrivare alla crudeltà più efferata.

La narrazione scorre su binari diversi- uno segue il tempo presente, con il procedere di Lotte sul Cammino, le sue domande a coloro che forse si ricordano di Emil, l’incontro con un fotografo un po’ troppo affascinante, le sue ‘disavventure’ (chiamiamole così), il carteggio che riceve dalla Bosnia senza mai riuscire a leggerlo, un altro è fatto del passato di Lotte, della sua arte cioccolatiera, dell’armonia del suo matrimonio con un uomo che la adorava, un altro ancora esce del tutto dagli schemi e finirà con il sorprenderci. È una lunga lettera che noi leggiamo ad intervalli, che racconta l’amicizia di tre ragazzi e poi gli anni del conflitto in Bosnia che hanno ucciso l’amicizia insieme a quella che dovrebbe essere l’essenza dell’umanità, finendo per risolvere tutti gli interrogativi.

massacro di Srebrenica

    Se la conchiglia dei pellegrini è un simbolo di rinascita (oltre ad essere collegata alla leggenda del santo), percorrere il Cammino di Santiago ha portato ad una rinascita, di Emil, dell’amico che non ha fatto il Cammino ma è rimasto in Olanda, e sì, anche di Lotte. E allora il thriller che non è un vero thriller è un romanzo sulla colpa, sulla legittimità di passare ai figli il fardello della colpa dei padri, sull’espiazione come unica possibile salvezza, come la vera rinascita.

   


  

 

martedì 26 novembre 2024

Erika Fatland, “La città degli angeli” ed. 2024

 

                                                  Vento del Nord

         reportage

Erika Fatland, “La città degli angeli”

Ed. Marsilio, trad. F. Peri, Pagg. 245, Euro 18,00

 

     Una città che nessuno di noi conosceva, prima, Beslan. Adesso Beslan è diventato un nome che evoca morte, che significa orrore, crudeltà infinita.

    Una data, 1 settembre 2004. C’è un altro primo di settembre che è rimasto impresso nella nostra memoria, ed è quello del 1939 quando l’esercito tedesco invase la Polonia dando inizio alla guerra che avrebbe coinvolto tutta l’Europa. Nel 2004, il primo di settembre, un commando di terroristi ceceni occupò la scuola elementare e media numero 1 di Beslan, nell’Ossezia del Nord, una repubblica autonoma nella regione del Caucaso della Federazione Russa, prendendo in ostaggio 1200 persone fra adulti e bambini.

    Era un giorno speciale quel primo di settembre per i bambini di Beslan. ll primo giorno di scuola, quello in cui ci si metteva l’abitino nuovo e si portavano i fiori agli insegnanti e si era accompagnati dalla mamma o dal papà o da tutti e due e dai fratellini minori. È per questo che c’era tanta gente nel cortile della scuola, tanti bambini anche molto piccoli. Era stato scelto il giorno terribilmente giusto, tragicamente giusto.


    Che i terroristi facciano sul serio, è chiaro subito. Che si impongano col terrore, pure. Sono infastiditi dal pianto e dalle urla dei bambini e chiedono che venga fatto fare silenzio. Un padre di 46 anni si fa coraggio e dice che, se magari loro, i terroristi, smettessero di sparare e spaventare i bambini, questi si calmerebbero. Un colpo di pistola lo mette a tacere.

   Per tre giorni gli ostaggi saranno tenuti chiusi nella palestra, senza mangiare né bere. Quindici dei ventidue uomini adulti furono uccisi subito. Il secondo giorno undici donne con i bambini piccoli ebbero il permesso di uscire. Il caldo era insopportabile. Disidratati, alcuni bambini incominciarono a perdere conoscenza. Alcuni bevvero la loro urina.

Quando le forze speciali russe fecero irruzione, fu un massacro. Morirono più di trecento persone, di cui 186 bambini, più di 700 furono ferite.


    Erika Fatland, scrittrice e antropologa specializzata nello studio della ricerca sul campo degli ex stati sovietici (il suo primo libro, “Sovietistan”, mi aveva letteralmente affascinato), ha fatto due lunghi soggiorni, non privi di difficoltà, a Beslan. Erika non ha solo esaminato i rapporti di inchiesta, non si è solo posta delle domande sulla meccanica degli eventi, su come abbiano fatto i terroristi a passare facilmente il confine- e più di una volta, perché la loro azione doveva essere stata preparata-, su chi fosse il vero capo dell’operazione, sull’inspiegabile mancanza di coordinamento tra le forze di polizia, sul loro immobilismo, sulla loro apparente incapacità di contrattare. Che cosa chiedevano i terroristi?  Il ritiro delle truppe russe dalla Cecenia? Indipendenza della Cecenia? E Putin? Perché Putin era rimasto silente e nell’ombra? Erika ha parlato con superstiti e testimoni, con le madri che sono incapaci di rassegnarsi, che mostrano camerette rimaste intatte come erano quel primo di settembre in cui i loro bambini non sono tornati  da scuola, che ricordano l’incubo di quelle ore e- per quelle che avevano accompagnato un figlio più grande con un neonato in braccio- lo strazio della scelta: avevano avuto il permesso di uscire, il secondo giorno, ma solo con il bambino piccolo. Uscire lasciando un bambino o una bambina in lacrime. È qualcosa di simile al dramma della protagonista de “La scelta di Sophie” di William Styron che, all’ingresso del campo di concentramento, era stata costretta a scegliere quale salvare dei suoi due bambini e quale mandare subito nella camera a gas. Una mamma di Beslan non ce l’aveva fatta- era tornata indietro nella palestra.


    Beslan è una città a lutto, ancora adesso che sono passati vent’anni. E’  una città in cui il dolore ha reso la gente sospettosa e invidiosa e Erika raccoglie anche queste chiacchiere, sulle indennità che sono state pagate, su chi ha speculato sulla morte, sulle malignità diffuse.

In mezzo a tutti questi testimoni della sofferenza, un uomo ci rimane nella mente e nel cuore- il direttore del cimitero. La gente mormora che sia uscito di senno. Chi non uscirebbe di senno quando perde in quella maniera una figlia adorata? Prima della catastrofe era un uomo di successo, aveva un lavoro prestigioso, casa e auto di proprietà, una moglie e tre figli. Due erano sopravvissuti, una no. Era stato lui a dare il nome al cimitero, a mettere il cartello con la scritta, Città degli angeli. Conosceva il nome di ognuno dei piccoli morti. Puliva le loro tombe, dormiva lì nel cimitero.

   La bravura di Erika Flatland è innegabile. Riesce a mescolare la freddezza dell’analisi storica e politica con la profonda umanità con cui si avvicina alle persone, restituendoci la loro storia e il loro dolore, uguale e diverso per ognuno di loro.



 

domenica 24 novembre 2024

Eve J. Chung, “Le figlie di Shandong” ed. 2024

                                                          Voci da mondi diversi. Cina

 Storia di famiglia

Eve J. Chung, “Le figlie di Shandong”

Ed. Corbaccio, trad. M. Elisabetta De Medio, pagg. 396, Euro 18,62

    1948. Cina. Dopo anni di lunga guerra civile tra nazionalisti e comunisti, nel 1946 la Cina continentale è passata sotto il controllo del partito comunista e Chiang-Kai-shek, con tutti i membri del Kuomintang, si è rifugiato nell’isola di Taiwan.

     Nello Shandong, una zona rurale nella Cina orientale, la ricca famiglia Ang non sembra essere consapevole del pericolo che incombe. L’unico problema sembra essere quello dell’assenza di un erede maschio perché la moglie del figlio primogenito continua a mettere al mondo figlie femmine, suscitando l’ira della tremenda Nai-Nai, la suocera che continua a ripetere che le bambine sono un peso, sono bocche da sfamare, non servono a niente perché solo un figlio maschio può rendere onore agli antenati.

Quando la protesta dei contadini minaccia la famiglia, la mamma e le tre bambine vengono abbandonate mentre il loro stesso marito e padre fugge con i genitori a Qingdao, la città costiera dove il Kuomingtang ha permesso l’ancoraggio della flotta americana. Il pretesto per l’abbandono è patetico nella sua aperta menzogna: custodiranno la casa, intanto di certo i comunisti non infieriranno su una donna e delle bambine.


   Non è vero. L’esperienza di Hai, la bambina più grande, considerata responsabile per il comportamento da ‘padrone’ del padre e del nonno e torturata, la segnerà per tutta la vita. Se mamma e figlie si salvano, se vengono nascoste da un contadino e poi aiutate a fuggire, è grazie al benvolere di cui ha saputo circondarsi la madre, sempre generosa nei confronti dei lavoranti.

    La voce narrante è quella di Hai, dapprima ragazzina giudiziosa che è un sostegno per la mamma, poi fanciulla che ha l’ambizione di studiare per uscire dal condizionamento femminile e non avere una vita come quella della madre, poi giovane sposa con un marito ben diverso dal padre-padrone e infine madre a sua volta. Di una bambina. Lei, però, non è sua madre che ha finalmente dato alla luce un maschietto, dopo il ricongiungimento con il marito a Taipei e dopo aver messo al mondo un’altra figlia femmina. Per questo tanto atteso erede la madre sottrae il latte che dovrebbe essere per la bambina nata solo un anno prima, dandole da bere acqua di riso e facendo infuriare Hai. No, Hai non è come sua madre. Sua figlia studierà, sarà indipendente, spezzerà la catena della supremazia maschile in famiglia, non si dovrà mai inginocchiare davanti ad una suocera.

    Il racconto di Hai segue la strada della fuga verso Qingdao, a piedi, affrontando i pericoli degli incontri con i comunisti a cui presentano dei lasciapassare falsificati, la fame, le intemperie. Per poi scoprire che, ancora una volta, la famiglia Ang ha lasciato Qingdao senza curarsi di loro- ormai sono a Taipei e madre e figlie finiranno in un campo per rifugiati dove le condizione di vita sono proibitive.

Qingdao

    Quella de “Le figlie di Shandong” è una storia privata sullo sfondo di un’epoca di transizione in Cina. I grandi avvenimenti, il sorgere della stella di Mao e le rivendicazioni comuniste sono visti attraverso le sofferenze patite dal piccolo nucleo famigliare. Sono sofferenze imputabili, però, più ancora che a quello che sta accadendo in Cina, al comportamento dei famigliari e alla concezione tradizionale della donna come importante solo in quanto procreatrice di figli maschi. Solo lo zio delle ragazze, un ufficiale dell’esercito nazionalista, si salva tra le figure maschili. È lui che rintraccia la cognata e le nipoti nel campo profughi, è lui che gli procura i biglietti e il lasciapassare per raggiungerli nell’isola di Taiwan, è lui che si mostra compassionevole verso di loro, vedendo le condizioni fisiche in cui si trovano.

    Se la narrazione scorre un poco piatta e monotona, piace, però, il quadro al femminile di quei tempi- il ruolo ben delineato della primogenita e della secondogenita, lo stretto legame tra madre e figlie e lo sminuimento della figura paterna.  




mercoledì 20 novembre 2024

Laura Imai Messina, “Tutti gli indirizzi perduti” ed. 2024

                                                      Voci da mondi diversi. Giappone



Laura Imai Messina, “Tutti gli indirizzi perduti”

Ed. Einaudi, pagg. 240, Euro 19,50

 

     È vero. C’è un Ufficio Postale alla deriva sull’isola di Awashima nel mare interno di Seto, in Giappone. Deve il suo nome al fatto che lì vengono recapitate tutte le lettere senza un destinatario, come messaggi gettati in mare chiusi in una bottiglia, lasciati in balia delle onde, alla deriva.

Se non fosse vero, definiremmo subito il nuovo libro di Laura Imai Messina come un romanzo tra il sentimentale e il favolistico, un po’ sdolcinato, uno di quei romanzi che ti fanno pensare solo a cose belle, a parole che non si perdono nell’aria, a legami profondi anche se si sono esauriti in un attimo. E, leggendolo, penseremmo che sarebbe bello se la vita fosse così, che ci piacerebbe.

    La vita è così e il romanzo è un inno alla scrittura, alle lettere che una volta era così comune scrivere per mantenere i contatti, al rito di chiudere un foglio in una busta e andare a spedirlo dopo averlo affrancato. Perché  i sentimenti e i pensieri affidati a parole sulla carta sono preziosi e durano per sempre.


I destinatari delle lettere che finiscono all’Ufficio Postale alla deriva sono i più vari, i più fantasiosi. C’è chi scrive ricordando quando, da bambino, aveva tagliato la coda a una lucertola e le chiede perdono. Chi rimpiange un fuggevole incontro su un autobus di Roma con una ragazza che leggeva un libro di Kawabata. Chi ringrazia la vecchia vicina di casa che gli leggeva a voce alta prima che lui si addormentasse. Chi mantiene in vita, scrivendole, la moglie tanto amata. Chi scrive a se stesso una lettera per quando sarà adulto. Ci commuoviamo a leggere queste lettere alla deriva, si commuove Risa che sbarca sull’isola con un incarico a tempo per catalogare le lettere.

    Risa è perfetta per questo lavoro. La conosciamo nelle prime pagine quando- è così piccola che non sa neppure il suo nome- arriva sulla porta di persone sconosciute con una lettera in mano da consegnare (nell’isola di Awashima troverà una lettera proprio per lei, scritta da quello che allora era un bambino e, insieme alla sua mamma, aveva asciugato e rivestito la bimbetta che sedeva sul gradino della loro casa). Ma il padre di Risa fa il postino e lei ha appreso da lui l’amore per le vite segrete nascoste nelle buste.


   Tre filoni si alternano nella trama di “Tutti gli indirizzi perduti”- il motivo nascosto per cui Risa è venuta nell’isola: trovare le lettere che sua madre spediva regolarmente all’Ufficio Postale alla deriva e scoprire così che cosa affliggeva sua madre, che cosa faceva di lei una madre poetica e stravagante oppure una madre assente e incapace di fare qualunque cosa; una storia d’amore che può aiutare Risa ad uscire dalla gabbia di paura che le impedisce di avere un bambino perché teme di assomigliare a sua madre; il coro che si leva dalle lettere, tenere, tristi, dolci, amare, riflessive, ognuna con un frammento di vita da raccontare- un tesoro di ricchezza. E, sullo sfondo, un altro coro, quello degli abitanti dell’isola, ognuno con il suo passato e la sua storia, dapprima diffidenti verso la sconosciuta, poi stretti intorno a lei quando Risa ha un crollo.


    Laura Imai Messina ha un dono speciale, quello di scrivere in uno stile che non è realismo magico, è pura e semplice magia, è poesia in prosa, è la capacità di leggere i sentimenti, di trovare la bellezza che si nasconde ovunque. Vorrei scrivere anche io una lettera, o più di una, all’Ufficio Postale alla deriva.