domenica 1 dicembre 2019

William Melvin Kelley, “Un altro tamburo” ed. 2019


                                                Voci da mondi diversi. Stati Uniti d'America
                                                                           distopia


William Melvin Kelley, “Un altro tamburo”
Ed. NN, trad. M. Testa, pagg. 246, Euro 19,00

     1957. Uno stato immaginario del sud degli Stati Uniti, potrebbe essere uno qualunque di quelli che una volta erano gli Stati Confederati che nel 1861 dichiararono la loro secessione dagli Stati Uniti d’America, quelli la cui economia e la cui ricchezza era basata sulle piantagioni e sul lavoro degli schiavi neri. È nel giugno del 1957 che, senza nessun preavviso, Tucker Caliban cosparge la sua terra di sale (l’aveva acquistata dal padrone anni prima), uccide il bestiame, dà fuoco alla fattoria e se ne va con la moglie incinta e un bambino piccolo. 
Caliban: nella “Tempesta” di Shakespeare Caliban è figlio di una strega, metà umano e metà mostro, ridotto in schiavitù da Prospero, quando questi arriva sull’isola con la figlia Miranda. E Prospero giustifica la sua durezza nei confronti di Caliban accusandolo di aver cercato di violentare Miranda. Caliban non smentisce, anzi, dice sfrontatamente che, se non glielo avessero impedito, avrebbe popolato l’isola di piccoli Caliban. Il significato di questo nome per i neri che hanno sempre servito la famiglia del generale Willson è chiaro e si amplia ad inglobare tutti i neri, come sono visti dai bianchi e quali paure scatenino nei bianchi. C’è già tutto nel nome Caliban.

     Tucker Caliban è il primo ad andarsene. Dopo di lui uno sgocciolamento, un fiume di persone di colore lascia Sutton. Per andare dove? Al Nord, presumibilmente. Perché? E qui si scatenano le supposizioni dei bianchi che osservano l’esodo, che parlano del sangue ereditato dall’Africano, il nero gigantesco acquistato per mille dollari dal capostipite dei Willson e in grado di spezzare le catene con le mani, che, pur perplessi, si rallegrano per essersi finalmente sbarazzati dei neri. Senza pensare, però, a chi li sostituirà nei lavori che sono sempre stati i neri a fare.
    Gli attori di questo straordinario e tuttora attualissimo romanzo distopico (pubblicato nel 1962) sono i neri, ma il punto di vista è quello dei bianchi che osservano la scena- in ogni capitolo un punto di vista diverso. 
Si incomincia con quello di un bambino e verrebbe da pensare che sia una scelta appropriata, gli occhi di un bambino sono innocenti. E lo sono, ma è perché i genitori del piccolo Harry Leland sono speciali, suo padre gli dice, “Io e tua madre cerchiamo di fare di te un essere umano decente”. Harry era amico di Tucker Caliban, ha le lacrime agli occhi quando lo vede andare via, vorrebbe seguirlo. È a lui che si rivolge per spiegazioni il reverendo Bradshaw quando arriva a Sutton per capire che cosa sia successo. E il nostro pensiero corre alla piccola Scout e a suo zio ne “Il buio oltre la siepe”, pubblicato due anni prima. Ci sono gli altri, poi- c’è Dewey Willson, accusato di essere ‘amico dei negri’, come a suo tempo suo padre che aveva condiviso la stanza all’università con il nero colto e brillante che sarebbe diventato il reverendo Bradshaw, c’è Camille Willson che prova simpatia per la moglie di Tucker Caliban e però si sente superiore a lei, c’è chi è decisamente xenofobo.

     Il finale del romanzo di William Melvin Kelley è di una tragicità prevedibile. Quando, nell’ultimo punto di vista corale degli uomini bianchi riuniti sulla veranda, sentiamo le parole, “Lo sapete che questo è il nostro ultimo negro? Pensateci un attimo. Il nostro ultimo negro, per sempre”, avvertiamo la minaccia insita in questa domanda, ci scorre un brivido lungo la schiena, negli occhi della mente vediamo immagini di uomini incappucciati e corpi penzolanti.
     I nomi di James Baldwin e di Faulkner sono stati avvicinati a quello di William Melvin Kelley. Direi quello di Baldwin per il messaggio contenuto nel suo romanzo e quello di Faulkner per l’atmosfera da profondo sud. Ma “Un altro tamburo” non ha bisogno di paragoni per imporsi. È un romanzo con una voce potente che non possiamo non sentire, che dobbiamo ascoltare perché non parla solo di bianchi e di neri. Parla di sfruttatori e di sfruttati, di padroni e di schiavi. E gli schiavi non hanno colore, non hanno sesso.

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la recensione sarà pubblicata su www.stradanove.net



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