Voci da mondi diversi. Francia
Hoda Barakat, “Corriere di notte”
Ed. La nave di Teseo, trad. S.
Pagani, pagg. 147, Euro17,00
Sono come le tessere di un domino, le lettere che formano il libro della
scrittrice libanese Hoda Barakat, “Corriere di notte”, che ha vinto l’Arab
Booker Prize, prima donna a vincere questo premio- nel 2011 era stato assegnato
alla saudita Raja Alem, ma in condivisione con il marocchino Mohammed Achaari.
Ed è un impianto narrativo interessante- sono lettere scritte da uomini e donne
di cui non sappiamo il nome e indirizzate a qualcuno, una madre, un padre, un
fratello, di cui neppure sappiamo il nome. Lettere che non arriveranno mai a
destinazione perché a volte non finite e soprattutto perché senza un recapito.
Lettere abbandonate o smarrite o nascoste e trovate per caso da qualcun altro,
che le legge e scrive a sua volta un’altra lettera, quasi si senta incoraggiato
a raccontare la sua propria storia, a dire la sua verità, come ha fatto
l’ignoto scrittore della lettera precedente.
C’è qualcosa che accomuna i personaggi che si confessano nelle lettere-
sono dei migranti della vita, spesso in fuga dal loro paese in guerra, oppure
in fuga dalla miseria, o da un matrimonio forzato. Si nascondono, trovano
alloggi di fortuna, evitano i controlli della polizia perché sono senza
documenti, si sentono in diritto di sfruttare chi ha più di loro. E confessano
le loro colpe, svelano segreti del loro passato- la donna che adesso si
prostituisce (gli uomini anziani sono molto più gentili dell’uomo a cui sua
madre l’aveva ‘venduta’) scrive al fratello di aver lasciato morire la loro
madre; il giovane che accetta l’ospitalità della cinquantenne che gli aveva
portato un giaccone per coprirsi, finisce per ucciderla; un siriano rivela al
padre la sua incerta sessualità e gli chiede di mandargli un biglietto aereo...Ci
sono squarci di vita passata, sempre travagliata, per motivi famigliari o politici. Descrizioni
di violenze e di torture, di forme malate d’amore, come quello della libanese
che odia la sua patria e che aspetta in una stanza d’albergo un canadese con
cui aveva avuto una storia vent’anni prima...
Quella che appare nelle pagine di
Hoda Barakat è un’umanità triste. Sono persone che non hanno mai conosciuto la
gioia e che non conoscono il pentimento per quello che hanno fatto. Fuggono da
un mondo arabo dilaniato da guerre e tuttavia sono tutti respinti dal nuovo
mondo in cui sono approdati e in cui non riescono ad inserirsi. Sono personaggi
freddi e lasciano il lettore freddo e perplesso, incapace di prendere parte
alla loro vita perché sono loro, i protagonisti, a tenerci lontani. E’ come se
Hoda Barakat volesse farci capire che c’è una profonda frattura fra noi (noi
che ci spostiamo dalle nostre case per viaggi di piacere o di lavoro) e loro
che devono riinventarsi un’esistenza nuova, seppellendo quella vecchia perché il ricordo impedisce di
progredire.
A ben vedere, anche le lettere sono come i personaggi- non arrivano da
nessuna parte, cadono nel vuoto. Perché in fin dei conti forse, dopo tutto, chi
le scrive le rivolge a se stesso, non ha nessuna speranza di far arrivare la
sua voce a qualcun altro, di infrangere la barriera di estraneità. E se le
lettere vanno perse, scompare anche chi le ha scritte. Come non fosse mai
esistito.
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