domenica 11 agosto 2019

Edward St Aubyn, “La follia di Dunbar” ed. 2019


                                           Voci da mondi diversi. Gran Bretagna e Irlanda
                                                                  dramma


Edward St Aubyn, “La follia di Dunbar”
Ed. Neri Pozza, trad. Ada Arduini, pagg. 236, Euro 17,00

    Quattro pagine di un dialogo che sembra appartenere ad un testo del teatro dell’assurdo, all’inizio del nuovo romanzo di Edward St Aubyn, che già conosciamo per aver scritto “I Melrose”. E’ un uomo anziano, Dunbar, che racconta a frasi smozzicate quello che gli è successo. L’altro, Peter, ribatte, commenta in maniera scherzosa, si fa beffe di lui. “Io un impero ce l’avevo davvero, sai”, dice Dunbar. Peter non lo prende sul serio. Sono ricoverati entrambi in un ospizio di lusso- quanti sono i matti che credono di essere Napoleone? Dunbar spiega che aveva voluto rinunciare al peso della gestione quotidiana del Trust, che avrebbe tenuto l’aereo, l’entourage, i privilegi, che così si potevano evitare le tasse di successione affidando direttamente la società alle sue figlie. Ed ora, lui che voleva fare del mondo il suo parco giochi e il suo hospice privato, è stato rinchiuso in un vero ospizio dalle sue stesse figlie
“Oh Dio, fa che non impazzisca”. A questo punto della lettura, sobbalziamo, colleghiamo le fila, ricordiamo. “Let me not be mad, not mad, sweet heaven…I would not be mad!”, era il grido angosciato di Re Lear al suo giullare. Henry Dunbar, il magnate canadese dei media- Lear; l’ex comico alcolizzato Peter- il Fool di Lear, che lo aiuta a vedere chiaro dentro di sé; Abigail e Megan, le due figlie ‘cattive’ di Dunbar- Goneril e Regan (ottima scelta dei nomi che in qualche modo, con il suono duro della g riecheggiano quelli di Shakespeare); Florence, con il suo bel nome fiorito, la figlia che ha rifiutato l’eredità, quella buona e perciò invisa alle sorelle- la dolce Cordelia. E così anche gli altri personaggi avranno la loro corrispondenza con i personaggi della tragedia scespiriana. “La follia di Dunbar” è una trasposizione moderna di “Re Lear”, l’opera più bella in assoluto- a mio parere- di Shakespeare, quella che contiene tutto, ma proprio tutto il significato della vita, tutti i sentimenti dell’animo umano, tutto il Bene e tutto il Male.

   La storia dell’uomo che cede la gestione del Trust, oppure tutte le sue proprietà, alle figlie, diventa poi la vittima dell’ingratitudine e della crudeltà di queste, rendendosi conto troppo tardi di non aver saputo riconoscere l’amore disinteressato dell’altra figlia, non è soltanto- né ieri né oggi- la storia di un rapporto tra padre e figli, ma anche lo studio di come la ricchezza e il potere trasformino un uomo, lo allontanino dalla compassione (il cum patior latino, soffro con) verso chi è meno fortunato, lo rendano cieco alla realtà interiore di se stesso e di chi lo circonda. È triste dover fare un percorso ‘di formazione’ in età così avanzata ed è per questo che è ancora più penoso seguire Dunbar che avanza a fatica nella neve sulle colline del Lake District, così come Lear nella brughiera desolata, Dunbar guidato dal prete barbone e Lear dal mendicante- la solitudine del paesaggio è quella dell’anima, la sofferenza fisica è quella che devono patire per arrivare alla redenzione, la punizione finale insopportabilmente dura.

      Non amo i rimaneggiamenti letterari, mi sembra che uno scrittore scelga la via più facile lavorando su una trama e dei personaggi che gli si offrono già pronti, ma Edward St Aubyn ha fatto un lavoro egregio trasferendo la tragedia di re Lear nei nostri tempi, provando così l’eternità di questo topos letterario, sempre valido. La parte più facile era quella di trasporre il re in qualcuno che, oggigiorno, avesse il massimo potere. Facile era anche dipingere le figlie aride di cuore e lascive, il genero debole e succube, l’ambiguo servitore di due padroni. Era più difficile- e, però, St Aubyn ci è riuscito benissimo- ricreare i due personaggi che lo accompagnano nella follia, una follia in cui Henry Dunbar ritrova la saggezza. E la dolce eppur ferma Cordelia che diventa Florence il cui “Non ci lasceremo mai più” è un tempo che dura troppo poco.

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