venerdì 3 novembre 2017

György Dragomán, “Il re bianco” ed. 2009



Voci da mondi diversi. Europa dell'Est
        la Storia nel romanzo
        il libro ritrovato

György Dragomán, “Il re bianco”
Ed. Einaudi, trad. Bruno Ventavoli, pagg. 256, Euro 19,00  


     Ci sono due romanzi ne “Il re bianco” dell’ungherese-romeno György Dragomán perché, anche se la voce narrante è sempre la stessa- del ragazzino Dzsátá-, quello che racconta nei due filoni è diverso, quasi che uno serva da contrappunto all’altro, per alleggerirlo. Perché Dzsátá vive in Romania, sono gli anni ‘80 e Ceauşescu è al potere. Il paese, gli anni e un nome sono sufficienti per far balenare nella mente del lettore i possibili avvenimenti della vita di Dzsátá; e tuttavia Dzsátá ha undici anni e i giochi, le scorribande con gli amici, i suoi pensieri sono quelli della sua età, in ogni tempo e in ogni luogo. Anche se non capita a tutti i giovani calciatori di venir avvisati di non toccare il pallone perché c’è appena stata l’esplosione nucleare di Chernobyl e però la partita si deve giocare (non importa come), perché non ci sia un’ondata di allarmismo. Non tutti hanno un nonno che ti regala una Luger e ti fa allenare sparando ai gatti. E non sempre i compagni di giochi sono violenti e aggressivi come gli amici di Dzsátá.
immagine dal film tratto dal libro
    Il primo capitolo è intitolato “Tulipani” e potremmo anche illuderci che quello che ci aspetta sia una lettura romantica: l’undicenne Dzsátá ha puntato la sveglia sulle cinque meno un quarto del mattino e l’ha messa sotto il cuscino, per non svegliare la mamma. Vuole farle una sorpresa: uscirà di casa e taglierà per lei i tulipani dell’aiuola del parco. Glieli metterà in un vaso sul tavolo. Ma, appena sappiamo che è il giorno dell’anniversario del matrimonio dei suoi genitori e che Dzsátá si sostituisce al padre nel tradizionale regalo dei tulipani, abbandoniamo ogni illusione poetica quando apprendiamo anche il motivo per cui è il bambino che raccoglie i fiori. Dzsátá sa solo quello che i suoi genitori vogliono fargli sapere, quello che può sapere un bambino: dei ‘colleghi’ del papà sono venuti a prenderlo con un furgone grigio; c’è bisogno di lui per una questione urgente in un paese vicino al mare; che peccato che il papà non possa portarlo con sé, ma starà via una sola settimana. Invece sono passati sei mesi, e la verità si infiltra a poco a poco nella consapevolezza del bambino: non è nella sua qualità di scienziato che il papà è necessario, il papà lavora alla costruzione del Canale Danubio-Mar Nero, il papà è un lavoratore forzato, potrebbe anche non riconoscerlo quando ritornerà. Perché di questo Dzsátá è certo- che il papà ritornerà.
E allora i capitoli che si inseriscono a spezzare questa narrazione più dolorosa servono per far ritornare ragazzino Dzsátá, per farlo fantasticare sul sesso, per lasciargli prendere parte ad avventure che ci ricordano Huck Finn, per allontanarlo dalla realtà degli uomini grigi della famigerata Securitate del regime di Ceauşescu. I ‘due’ romanzi proseguono parallelamente, ma quello della vicenda famigliare si fa sempre più cupo, con la visita del bambino alla casa dei nonni (ma lui deve rivolgersi al nonno chiamandolo ‘compagno segretario’ e non deve assolutamente accettare nessun regalo da lui, perché il nonno non ha più voluto rivedere suo padre da quando ha sposato ‘quella troia’ ebrea che è sua madre), la strana gita fatta con il nonno in un furgone, la vendita al mercatino delle pulci di tutto quello che mamma e bambino possono racimolare. E infine il funerale del nonno che si è suicidato- spettacolo organizzato dal partito che si colora di grottesco prima di precipitare in puro dramma con l’apparizione del tanto atteso papà. Irriconoscibile, in catene, con lo sguardo spento.
    Ci sono delle realtà che solo lo sguardo di un bambino riesce a rendere più leggere e nello stesso tempo più nudamente drammatiche: quelle della Romania di Ceauşescu è una di queste.

la recensione è stata pubblicata su www.stradanove.net


    

     

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