venerdì 3 ottobre 2014

Amitav Ghosh, "Il paese delle maree" - Intervista del 2005

                                             Voci da mondi diversi. Asia
                                              Intervista ad Amitav Ghosh
       

Amitav Ghosh è un maestro nell’arte del raccontare, aggiungendo dettagli scientifici, ecologici, storici e culturali alle vicende dei personaggi, senza mai appesantire il racconto. E' questo che rende affascinante la lettura de "Il paese delle maree". Stilos ha incontrato lo scrittore indiano, che attualmente vive a New York, in occasione del Festival Internazionale delle Letterature della basilica di Massenzio, a Roma.


 Il suo romanzo precedente, “Il palazzo degli specchi”, era un romanzo di ampio respiro, che copriva un arco di tempo di oltre un secolo, spaziando in più paesi asiatici. “Il paese delle maree” è più limitato nel tempo e nello spazio- prima di tutto, da dove nasce il suo interesse per il Sundarban?
      Non penso che ne “Il paese delle maree” ci sia un’ambientazione più limitata. Infatti credo che, se si guarda qualunque posto in profondità, si può vedere ovunque un microcosmo. E questo è vero anche se si prende in osservazione un luogo fuori mano. Anche se si guarda un luogo remoto si può scoprire il modo in cui questo luogo è costruito, è formato da tutto quanto proviene dal resto del mondo, e contiene una lezione e un insegnamento su come le diverse parti del mondo possano imparare le une dalle altre, e questo lo rende un paesaggio più vasto di quanto lo sia geograficamente.
    In un certo senso è vero che “Il palazzo degli specchi” copre spazi più grandi, però il personaggio scopre infine un universo in un luogo piccolo. Perché l’arcipelago del Sundarban? E’ stato un caso. Avevo uno zio che aveva vissuto là come maestro e tramite lui si è instaurato il mio legame con quel posto, ogni volta che ci vado trovo qualcosa di diverso. Ho iniziato a pensarlo come ambientazione per un libro nel 2000, la prima idea è stata: che cosa succederebbe se qualcuno venisse qui dal mondo esterno e scoprisse un rapporto personale con questo luogo? Questo è stato il punto di inizio e poi il romanzo è cresciuto a poco a poco.

Già nel romanzo precedente era evidente il suo interesse per la natura e gli animali, là erano gli elefanti. Perché i delfini dell’Irrawaddy in questo libro?

     Una volta mi trovavo proprio nel Sundarban, ero in una piccola barca per pescatori e abbiamo trovato nel fango un delfino morto. Era una specie che non conoscevo, il delfino dell’Irrawaddy. Sono rimasto affascinato da quella creatura e ho iniziato a fare ricerche. Tramite Internet ho contattato una ragazza della Nuova Zelanda che faceva degli studi sul posto, in Cambogia, e sono andato là per conoscerla e per uscire in barca con lei ad osservare i delfini. Una coincidenza strana: ieri, mentre venivo in auto dall’aeroporto a Roma, siamo passati davanti alla villa di Plinio, uno dei primi a scrivere dei delfini.

Uno degli argomenti del libro è le specie di animali protette, tigri e delfini, ma il libro è anche sugli uomini la cui vita è minacciata: perché è successo quello che è successo nell’isola di Morichjhapi?
      Era il 1979 quando dei rifugiati del Bangladesh si sono stabiliti sull’isola e il governo li ha fatti sloggiare con violenza, è una vicenda che ha lasciato un segno profondo tra la gente. La motivazione del governo era che quella è una zona di foresta protetta- in nome dell’ecologia, insomma. E le implicazioni morali ed etiche sono state molto forti per me- il fatto che vi siano delle specie protette, come le tigri, e non si tenga conto, non si sappia affatto il numero dei morti causati giornalmente dall’assalto delle tigri.



Quello che è successo a Morichjhapi è stata la fine di un’utopia?
     Sì, in un certo senso sì, anche se forse la parola utopia è un poco forte. Ma questa gente cercava di creare una società ecologicamente responsabile, una società socialista, uguale per tutti.

E’ solo un caso che Piya abbia scelto di studiare i delfini dell’Irrawaddy, o è anche una maniera di cercare le sue radici?
    In realtà a Piya non interessano le sue radici, non sente alcun legame con l’India. Il suo interesse è rivolto ai delfini di acqua dolce ed è un caso che lei sia in India. Anche se può darsi che questo sia un motivo del suo subconscio.

Kanai sembra essere più “spaesato” di Piya, a metà strada tra due mondi.
    Sì, infatti Kanai è un traduttore, è come un cardine tra due mondi. E io intendevo che anche il mio libro fosse come una traduzione, una connessione tra due mondi. Una simile connessione mi sembra molto importante nel mondo moderno.

Invece Fokir- anche se per lo più tace- acquista a poco a poco un significato maggiore. E’ un personaggio che rappresenta la vicinanza alla natura e alle proprie origini?
      In un certo senso sì. Fokir vive vicino all’ambiente, la sua vita è basata sulla natura, la natura è il suo sostegno in senso letterale per vivere. Questo spiega il suo legame con Piya: fanno qualcosa di simile, studiare gli animali dell’acqua anche se con finalità diverse perché lui è un pescatore.

Dopo quello che è successo a Natale del 2004, la sua descrizione dello tsunami assume un valore quasi profetico. Quanto spesso accadono questi eventi, magari con risultati meno catastrofici?

      Ho terminato di scrivere il libro otto mesi prima dello tsunami e il romanzo è stato pubblicato quattro mesi prima. Sono stato via dall’India per tutto il mese di dicembre e sono tornato proprio il giorno di Natale, alla vigilia dello tsunami. Sono andato subito sul posto e anche se mi ero già trovato in situazioni orribili, quella era una delle più devastanti che avessi mai avuto occasione di vedere. Era come l’effetto dell’esplosione di una bomba atomica, c’erano dei paesi che erano stati interamente cancellati, ogni struttura costruita dall’uomo era scomparsa e invece gli alberi erano intatti, anche le sottili palme da cocco. Dopo la pubblicazione del romanzo mi è stato chiesto se avessi avuto una premonizione, anche il governatore del Bengala ha parlato di una “strana intuizione”. Ho sempre avuto un forte senso del pericolo del Bengala, è sempre stato un luogo pericoloso perché ci sono spesso cicloni distruttivi. Nel 1971 sono morte 300.000 persone e altre 200.000 nel 1991.

Il Sundarban è destinato a scomparire nel futuro, come certe specie di animali? Può, deve essere protetto?
      Assolutamente sì, si deve proteggere il Sundarban, perché il Sundarban protegge noi e il Bengala. Se lo tsunami ha avuto poco effetto sul Bengala è perché il Sundarban ha assorbito il colpo, diminuendo la violenza del suo impatto.

Lungo tutto il romanzo c’è come una colonna sonora delle poesie di Rilke: perché Rilke?
     Rilke è il poeta europeo che ha avuto maggiore influenza sulla poesia e sui poeti del Bengala e ci sono molte traduzioni delle opere di Rilke. E io amo moltissimo la sua poesia.

Come nascono le sue storie? Qual è il legame tra la realtà e la storia?
     Le storie costruiscono la realtà. La realtà è ingannevole, quello che pensiamo irreale è costruito sulle storie che narriamo. Mi interessa vedere come la realtà è plasmata dalle storie. Per esempio, se vai nelle isole del Sundarban, vedi l’orma della tigre per terra e sai che la tigre era lì che ti osservava. Ma se chiedi al pescatore di chi è quell’orma, lui ti dice “è tuo zio” perché il nome della tigre non si deve pronunciare da quelle parti. Il mio lavoro è mostrare come la realtà è frutto delle storie che raccontiamo. A volte la realtà è così sorprendente, al di là delle storie che narriamo. Un esempio: mentre scrivevo il romanzo, ho passato del tempo con una specialista di delfini, la ragazza di 26 anni di cui ho detto prima, che veniva dalla Nuova Zelanda e se ne stava da sola con un cane in una zona che si poteva raggiungere solo con una barca. Il primo giorno che ero lì, seduto nella capanna, ho sentito un rumore tremendo: il cane l’aveva azzannata, ferendola piuttosto gravemente. L’ho portata subito all’infermeria più vicina, il medico l’ha ricucita e lei il giorno dopo è voluta partire lo stesso per il giro di osservazione, 15 giorni in barca sotto il sole. Ha detto che non poteva perdere tempo, i soldi del finanziamento che aveva erano limitati. E si rifaceva ogni giorno la medicazione e il bendaggio: ecco, nella vita vera ci sono persone così.

l'intervista è stata pubblicata sulla rivista Stilos



                                                                                                              

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