domenica 5 ottobre 2014

Amitav Ghosh, "Circostanze incendiarie" ed. 2006

                                                            Voci da mondi diversi. Asia
                                                            il libro ritrovato


INTERVISTA AD AMITAV GHOSH, autore di “Circostanze incendiarie”

    Copre un arco di vent’anni la raccolta di saggi dello scrittore indiano Amitav Ghosh, “Circostanze incendiarie” (Ed. Neri Pozza, trad. Anna Nadotti, pagg. 365, Euro 17,00). Vent’anni di circostanze incendiarie, per l’appunto, su cui Amitav Ghosh, straordinario osservatore del nostro tempo, riflette con pacatezza, perché - come dice in un saggio e ripete nella prefazione- in tempi così agitati “le parole possono costare delle vite, è dunque solo giusto che quanti lavorano con le parole prestino scrupolosa attenzione a ciò che dicono.”
    Il libro si apre con uno scritto del 2005, con la visita dello scrittore alle isole Andamane e Nicobare subito dopo lo tsunami- una tragedia stranamente prevista nell’ultimo romanzo di Ghosh, “Il paese delle maree”- e termina con un saggio del 1986 in cui un giovane Ghosh si ritrova a vantarsi con un imam egiziano del fatto che l’India abbia armi, carri armati e bombe, come prova del progresso del suo paese. La voce dello scrittore è indubbiamente cambiata nel corso del tempo, resta uguale lo sguardo attento che non è quello del giornalista di cronaca, ma dell’osservatore che si fissa sul particolare e riporta gli effetti che la crisi del momento ha sulla gente normale. Così l’11 settembre 2001 è visto attraverso le reazioni dei suoi figli bambini, come il 31 ottobre 1984- giorno dell’assassinio di Indira Gandhi- è rivissuto nei momenti di paura che la folla inferocita possa scoprire l’ospitalità offerta dagli amici di Ghosh agli anziani vicini Sikh, e le conseguenze dei test nucleari sono riportate dalle voci dolenti degli abitanti di Pokhran, nel Rajasthan occidentale.
    Amitav Ghosh è un viaggiatore colto che, in una visita in Kashmir, parla con i soldati impegnati nella difesa senza senso della zona inabitata al confine tra India e Pakistan, intervista in Birmania il premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi e in Cambogia la cognata di Pol Pot, scopre, tornando in Egitto un decennio dopo un suo soggiorno di ricerca, quanto sia cambiata la vita dopo la guerra con l’Iraq- paradossalmente in meglio, perché i giovani egiziani trovano lavoro a Baghdad.

    Alcuni dei saggi sono delle escursioni nel campo della letteratura- uno è un omaggio al poeta Agha Shahid Ali, un altro esamina le motivazioni per cui il commercio del petrolio non abbia dato origine ad un genere narrativo che Ghosh denomina “petrofiction”, così come è successo, invece, per il commercio delle spezie e della seta, e uno, infine, osserva la reazioni della gente in strada al Cairo quando giunge la notizia che Mahfouz ha vinto il premio Nobel.
    C’è un filo unificatore che scorre in tutto il libro e dà una certa unità ai saggi di Ghosh, ed è la domanda di ordine etico che si pone lo scrittore: come parlare di “circostanze incendiarie”, come scrivere delle turbolenze del nostro tempo, degli orrori che si susseguono e si incalzano, senza trasformarli in spettacolo, diventando complici di quanto accade? La risposta è che chi scrive deve rendere conto non solo della violenza ma anche dell’opposizione consapevole e civile a questa violenza, di modo che che accanto alla disperazione ci sia una luce di ottimismo e di speranza. Stilos ha intervistato Amitav Ghosh a Torino, durante la Fiera del Libro.



Il primo saggio è stato scritto poco dopo lo tsunami: è stato nuovamente, di recente, sul posto? È tornata alla normalità la vita?
    Non sono stato di recente nelle Andamane, ma ho degli amici che sono andati là e mi hanno detto che la vita è normale e anormale nello stesso tempo. Gli aiuti sono arrivati sulle isole e la vita delle persone è cambiata. Un esempio: il governo ha ricostruito le case, ma non sono secondo il modello che si è sempre visto in quel luogo e quindi le isole stesse hanno acquistato un aspetto diverso.

Possiamo fare un paragone tra la reazione dei due governi di fronte a due catastrofi naturali, in India e a New Orleans, dopo l’uragano Katrina?
     C’è stata una grande differenza, sia nella maniera in cui i governi hanno risposto all’emergenza, sia nella reazione della popolazione. La risposta in India è stata di gran lunga migliore, anche se si tratta di un paese sottosviluppato, le cose vanno a rilento e il luogo era un posto isolato. Il governo in India ha agito immediatamente. Negli Stati Uniti si sapeva che sarebbe arrivato l’uragano Katrina ed è stupefacente che non abbiano fatto niente, che non si siano prese delle misure preventive. In India, inoltre, non c’è stata l’ondata di saccheggi e i disordini che si sono visti a New Orleans e i primi soccorsi sono venuti proprio dalla gente, prima ancora di quelli inviati dal governo. C’è stata maggiore umanità. Quando sono andato io, c’erano almeno una decina di campi di rifugio organizzati da gruppi locali che distribuivano cibo, in attesa che arrivassero gli aiuti ufficiali. In America è successo che il governo ha proibito le iniziative di aiuto personali.


In “Tentazioni imperiali” lei sottolinea la differenza fra il nuovo imperialismo americano e il vecchio imperialismo britannico, e parla della mancanza di “persuasione” da parte degli americani. A che cosa è dovuta questa mancanza di persuasione, l’incapacità di ricostruire o di lasciare qualcosa di duraturo? Sono i tempi che sono cambiati? O si tratta di una cultura diversa? C’era qualcosa di positivo in quello che Kipling chiamava “il fardello dell’uomo bianco?”
    No, perché l’imperialismo fu una catastrofe specialmente per chi lo ha vissuto, e non solamente per gli abitanti dei paesi colonizzati ma anche per i paesi che lo hanno imposto. E’ stata una catastrofe in forma di auto-inganno: i paesi imperialisti hanno cercato di persuadersi di essere necessari per il benessere degli altri. E questo era proprio l’opposto della verità. Nel saggio che ho scritto volevo evidenziare non solo che l’America è incapace di persuadere ma che ci sono altri strumenti di persuasione altrettanto potenti, Al-Jazeera, per esempio. In passato la Gran Bretagna controllava i media, ora un controllo simile non è più possibile. Un tempo era facile controllare l’informazione, oggi è escluso che si possa fare. Ogni volta che l’America fa una certa propaganda, questa è subito seguita da una contro-propaganda. L’effetto finale è che la reinvenzione dell’imperialismo impara la lezione: non può funzionare. Ho scritto il saggio prima della guerra in Iraq ed è strano verificare che quello che ho detto si è realizzato: stiamo assistendo alla follia del potere.

Quando lei parla delle “mappe perdute della nostalgia”, vuole dire che non abbiamo strumenti per capire che cosa succederà perché è troppo lontano da qualunque nostra esperienza? Saranno capaci i nostri figli di tracciare delle nuove mappe per se stessi?
    Il ‘900 è basato sull’idea della creazione dello stato perfetto, l’idealismo si fonda sul creare un mondo utopico. I nostri figli impareranno che l’idealismo deve essere basato su dei mezzi e non su dei fini, piuttosto che tracciare delle mappe, tracceranno dei percorsi. Le mappe suggeriscono una direzionalità, un intento di andare da qualche parte, i nostri figli invece disegneranno delle cartine del loro itinerario.

La questione del nucleare, l’argomento del saggio “Conto alla rovescia”, è sempre attuale, come abbiamo visto di recente con l’Iran. Nel saggio lei è chiaramente contro le armi nucleari: a nessuno Stato, quindi, dovrebbe essere permesso di avere armi nucleari, neppure agli Stati Uniti ?
    Proprio così, anche se penso si debba distinguere tra energia nucleare e armi nucleari: ogni paese deve assolutamente eliminare le armi nucleari, mentre penso si debba mantenere un atteggiamento pragmatico nei confronti dell’energia nucleare. Uno dei primi vantaggi che viene in mente è che l’energia nucleare può essere certamente meno inquinante.

Si è parlato molto di fondamentalismo dopo l’11 di settembre e tuttavia il suo saggio ci ricorda che ci sono sempre state esplosioni di fondamentalismo, la storia dell’India ne è piena, ma anche quella dell’Europa. Sembra paradossale che tutta questa esplosione di violenza abbia a che fare con la religione, ma forse, invece, non ha proprio nulla a che fare con la religione.
    E’ proprio così, il fondamentalismo non ha niente a che fare con la religione, è fondamentalmente un problema politico. Sono i problemi politici che vengono trattati in un linguaggio religioso. Se si presta attenzione a quello che dicono, ci si accorge che i fondamentalisti non hanno niente a che fare con i problemi spirituali.

Leggendo i saggi sul premio Nobel Aung San Suu Kyi e quello su Indira Gandhi, ho pensato che, per essere un continente con una forte discriminazione nei confronti delle donne, c’è un numero piuttosto alto di donne di rilievo che hanno o hanno avuto un ruolo importante in politica. La loro forza o il loro carisma è in qualche modo inversamente connesso a questa discriminazione?

    Diciamo subito che quello che il mondo occidentale pensa sia discriminazione non è proprio così: le donne hanno un ruolo importante nella famiglia e hanno un ruolo importante anche nella politica. E’ vero che la nascita di una bambina è accolta meno bene di quella di un maschietto, ed è vero che bisogna dare tempo alla bambina di diventare adulta, ma poi le madri sono molto importanti e vengono tenute da conto nella cultura indiana. Ed è comunque vera l’osservazione che “abbiamo” un alto numero di personalità femminili di rilievo.


la recensione e l'intervista sono state pubblicate sulla rivista Stilos                                                                                                     

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