Voci da mondi diversi. Belgio
cento sfumature di giallo
Philippe Boxho, “La parola ai morti. Indagini di un medico legale”
Ed.
Ponte alle Grazie, trad. Rossella Monaco, pagg. 240, Euro 17,10
Chi mai potrebbe pensare che un libro che
racchiude l’esperienza di un medico legale sia non solo interessante ma anche
una lettura piacevole seppur macabra? Il merito è indubbiamente dell’autore che
è capace di farci dimenticare lo spettacolo e gli odori sgradevoli della morte
con la sua prosa lucida, asettica e tuttavia non priva di calore umano e di un
lieve umorismo che alleggerisce l’atmosfera.
Far parlare i morti- è questo l’intento di
Philippe Boxho, come dice lui stesso nell’introduzione. Farli parlare e
ascoltarli- lo dobbiamo ai morti, dobbiamo loro lo stesso rispetto che proviamo
per i vivi e questo significa che è imperativo scoprire la causa della loro
morte, al di là delle apparenze.
Tutti i casi di cui Boxho parla sono veri, forse ha inventato qualche dettaglio, ma nella sostanza sono tutti veri. E prima di tutto mette in chiaro che sono parecchie le cose da sfatare se chi legge ha in mente certi sceneggiati televisivi dove i tecnici della scena del crimine hanno l’aspetto di modelli impeccabili che si muovono su grosse auto scintillanti. Gli obiettivi della moderna Scienza forense sono di identificare il colpevole e stabilire le modalità con cui il reato è stato commesso. La scoperta del DNA ha di certo facilitato individuare con certezza l’autore del crimine e la ricerca delle tracce sulla scena ha portato ad una maggiore specializzazione del personale investigativo.
La giornata del medico legale- precisiamo, per ‘giornata’ non intendiamo quella definita dal sorgere del sole- inizia con una telefonata più o meno del tenore, “Pronto dottore? Vorrei che andasse ad esaminare una persona deceduta…”. Il medico legale deve recarsi a vedere non solo chi è morto di morte violenta- gli omicidi e i suicidi-, ma anche tutti quelli che sono morti in casa. E inizia così la serie dei racconti del dottor Philippe Boxho che sono di una estrema varietà- la figlia che credeva di aver ucciso il padre (che invece era già morto), l’uomo che sembrava morto, ma era solo caduto, non era riuscito a rialzarsi ed era rimasto a terra per almeno un paio di giorni, un marito che si addormentava regolarmente davanti alla televisione in certe sere (la moglie gli propinava delle gocce per poter incontrare l’amante), un altro marito avvelenato dalla moglie, la donna che era stata colpita da una crisi catalettica ed era già nella bara quando si era rialzata per salutare l’amica venuta per darle l’ultimo saluto (l’amica è morta di infarto, impossibile non sorridere), la ragazzina scomparsa che poi era tornata a casa (chi era l’altra che era stata sepolta al suo posto?), e poi altri casi di suicidi, veri o fatti passare per tale. Per ognuno di questi casi lo scrittore abbozza una storia delle vicende della persona che è morta, della sua personalità, dei suoi legami affettivi o della solitudine in cui aveva vissuto, indugia a descriverci l’ambiente in cui il corpo è stato ritrovato, prima di procedere agli esami che gli competono.
Leggere “La parola ai morti” è come
leggere tanti romanzi ‘gialli’ con una differenza sostanziale. Il punto di
vista è quello del medico legale che con precisione, pazienza e puntigliosità,
ci spiega passo per passo come procedere per rendere giustizia ai morti, per
spiegarci che cosa è successo e come si arriva al risultato di fare chiarezza.
È un libro pieno di dettagli interessanti (l’esame delle mosche che si trovano
a nugoli intorno a un cadavere, la necessità di trovare il foro di uscita di un
proiettile), spiegati tutti come se il medico scrittore si trovasse davanti ad
una classe di alunni attenti ma sprovveduti. E poi quello che rende questo
libro una lettura diversa è la capacità di Philippe Boxho nella veste di medico
legale di entrare in empatia con i morti, senza mai dimenticare che, fino al
momento fatale, erano vivi come noi.
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