mercoledì 12 marzo 2025

Aleksandr Solzenicyn, “Reparto C”

                                                                                       Off the main road

Consigli per letture e riletture
Premio Nobel

Aleksandr Solzenicyn, “Reparto C”

Ed. Einaudi, trad. Giulio Dacosta, pagg. 580

    Quando siamo delusi da tutte le novità impilate sui banchi delle librerie, quando non sembra più esserci nessun romanzo che non ci dia l’impressione di perdere tempo, prendiamo in mano un romanzo russo e sarà tutta un’altra storia. Forse è la storia travagliata e tragica della Russia, forse è il loro clima impietoso che costringe ad una vita che si chiude nell’interno della casa e nell’interno dell’anima portando alla riflessione- ci deve essere qualcosa che fa sì che i romanzi russi siano diversi, abbiano una pienezza che non ci stanca e non ci annoia, che regge anche ad una rilettura a distanza di anni.

     Avevo letto “Reparto C” di Aleksandr Solzenicyn nel 1969. L’ho riletto adesso: è sempre uno splendido romanzo. Scritto tra il 1963 e il 1967, il segretario dell’Unione degli Scrittori dell’URSS ne vietò la pubblicazione sulla rivista Novyi Mir anche se il libro era già circolato clandestinamente. All’insaputa dell’autore il romanzo fu pubblicato in Europa e la stampa russa iniziò una campagna denigratoria contro l’autore che nel 1969 fu espulso dall’Unione degli Scrittori. In Italia apparve dapprima, nel 1968, con il titolo di “Divisione Cancro” di ‘autore anonimo’ presso Il Saggiatore e dopo, con il titolo “Reparto C”, presso Einaudi e con il nome dell’autore.


    1955, due anni dopo la morte di Stalin. Una città mai nominata, presumibilmente Tashkent. Un ospedale per gli ammalati di cancro- Solzenicyn stesso fu ricoverato nell’ospedale oncologico della capitale uzbeca e molto di quello che leggiamo è la sua propria esperienza. Il  padiglione 13 (nella numerazione avrebbero dovuto saltare questo numero sfortunato) è un microcosmo, la controparte di quello rappresentato ne “L’arcipelago Gulag” che l’autore scrisse contemporaneamente. La morte è in attesa, sia per gli uomini del reparto C sia per i prigionieri nel Gulag, ma nell’ospedale si combatte per allontanare la morte curando gli ammalati, mentre nel Gulag si cerca di affrettarne la fine.

     Due gruppi di personaggi- gli ammalati- e sono uomini, i medici- e sono per lo più donne. Ad un certo punto compare, unica, una ragazzina spavalda, con i capelli gialli, che è ammalata ma si rifiuta anche solo di pensarlo e che fa amicizia con il giovane Demka. Lo compatisce, come farà a vivere, Demka, se gli amputano una gamba? Più tardi, lei che doveva fermarsi pochi giorni, piangerà sconsolata accanto al letto dell’amico- come potrà indossare un costume da bagno?

Tashkent

     I degenti vengono alla ribalta uno per volta, a poco a poco li conosciamo tutti e sappiamo tutto di loro. Uno, però, diventa il protagonista- l’alter ego dello scrittore. È Kostoglotov, ex topografo, ex combattente, ex deportato ed ora condannato al confino perpetuo. È colto, sa discutere con i medici sulle terapie a cui lo sottopongono, è un lottatore impavido che non si arrende. Ed è anche protagonista di una delle più belle storie d’amore della letteratura. Perché nel grigiore dell’ospedale, nell’ansia quotidiana dei controlli medici per vedere a che punto è il tumore dell’uno o dell’altro, fiorisce anche l’amore insieme alla speranza di poter godere ancora di un frammento di vita.

Di contro a Kostoglotov un altro personaggio deve essere citato. Rusanov è la controparte di Kostoglotov. Rusanov arriva altezzoso, pretenderebbe maggiore attenzione, non vorrebbe mescolarsi a questa gentaglia. E invece deve. Se Kostoglotov ha conosciuto il Gulag, in teoria Rusanov sarebbe potuto essere il suo delatore. È terrorizzato, Rusanov, quando la moglie gli dice che ‘stanno tornando’. Tornano i sopravvissuti alla deportazione- e se volessero vendicarsi?


    Eleggiamo anche tra i medici due protagoniste, due donne eccezionali- la Doncova, che si è prodigata oltre ogni limite, che ha fatto scuola a tutti gli altri medici, e che ora è ammalata anche lei. E Vera Gangart, anzi Vega, con il nomignolo che confida a Kostoglotov. Vega dall’iniziale del nome e cognome, Vega come la quinta stella più luminosa del cielo notturno. La dolcissima Vega, così paziente, così umana, che ha tempo per tutti gli ammalati, che ha una parola di conforto per ognuno. E’ di lei che Kostoglotov si innamora, ricambiato. Ma può avere un futuro questo amore?

    Come in quell’altro bellissimo romanzo che si svolge tra ammalati, “La montagna incantata” di Thomas Mann, anche qui ci sono discussioni politiche ed etiche tra i personaggi. E’ lo spettro della morte che invita a riflessioni su quale sia il senso della vita, è la fine di un’epoca (nel romanzo di Mann incombe la prima guerra mondiale e in quello di Solzenycin il rivolgimento del dopo-Stalin) che spinge a farsi domande sulle idee del passato e sul futuro.

     Aleksandr Solzenicyn vinse il premio Nobel nel 1970. Non andò a ritirarlo per timore che non gli venisse concesso di rientrare in patria. Testimone e vittima del regime comunista, questo scrittore- grande quanto Tolstoj e Dostojevskji- sembra essere stato dimenticato, messo da parte. C’è da chiedersi il perché.

    Leggete, o rileggete Solzenicyn. C’è un solo rischio: quello di non essere soddisfatti da qualunque altra lettura si inizi dopo di lui.



 

 

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