Off the main road
Consigli per letture e riletture
Premio Nobel
Aleksandr Solzenicyn, “Reparto C”
Ed.
Einaudi, trad. Giulio Dacosta, pagg. 580
Quando siamo delusi da tutte le novità
impilate sui banchi delle librerie, quando non sembra più esserci nessun
romanzo che non ci dia l’impressione di perdere tempo, prendiamo in mano un
romanzo russo e sarà tutta un’altra storia. Forse è la storia travagliata e
tragica della Russia, forse è il loro clima impietoso che costringe ad una vita
che si chiude nell’interno della casa e nell’interno dell’anima portando alla
riflessione- ci deve essere qualcosa che fa sì che i romanzi russi siano
diversi, abbiano una pienezza che non ci stanca e non ci annoia, che regge
anche ad una rilettura a distanza di anni.
Avevo letto “Reparto C” di Aleksandr Solzenicyn nel 1969. L’ho riletto adesso: è sempre uno splendido romanzo. Scritto tra il 1963 e il 1967, il segretario dell’Unione degli Scrittori dell’URSS ne vietò la pubblicazione sulla rivista Novyi Mir anche se il libro era già circolato clandestinamente. All’insaputa dell’autore il romanzo fu pubblicato in Europa e la stampa russa iniziò una campagna denigratoria contro l’autore che nel 1969 fu espulso dall’Unione degli Scrittori. In Italia apparve dapprima, nel 1968, con il titolo di “Divisione Cancro” di ‘autore anonimo’ presso Il Saggiatore e dopo, con il titolo “Reparto C”, presso Einaudi e con il nome dell’autore.
1955, due anni dopo la morte di Stalin. Una
città mai nominata, presumibilmente Tashkent. Un ospedale per gli ammalati di
cancro- Solzenicyn stesso fu ricoverato nell’ospedale oncologico della capitale
uzbeca e molto di quello che leggiamo è la sua propria esperienza. Il padiglione 13 (nella numerazione avrebbero
dovuto saltare questo numero sfortunato) è un microcosmo, la controparte di
quello rappresentato ne “L’arcipelago Gulag” che l’autore scrisse
contemporaneamente. La morte è in attesa, sia per gli uomini del reparto C sia
per i prigionieri nel Gulag, ma nell’ospedale si combatte per allontanare la
morte curando gli ammalati, mentre nel Gulag si cerca di affrettarne la fine.
Due gruppi di personaggi- gli ammalati- e sono uomini, i medici- e sono per lo più donne. Ad un certo punto compare, unica, una ragazzina spavalda, con i capelli gialli, che è ammalata ma si rifiuta anche solo di pensarlo e che fa amicizia con il giovane Demka. Lo compatisce, come farà a vivere, Demka, se gli amputano una gamba? Più tardi, lei che doveva fermarsi pochi giorni, piangerà sconsolata accanto al letto dell’amico- come potrà indossare un costume da bagno?
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Tashkent |
I degenti vengono alla ribalta uno per
volta, a poco a poco li conosciamo tutti e sappiamo tutto di loro. Uno, però,
diventa il protagonista- l’alter ego dello scrittore. È Kostoglotov, ex
topografo, ex combattente, ex deportato ed ora condannato al confino perpetuo.
È colto, sa discutere con i medici sulle terapie a cui lo sottopongono, è un lottatore
impavido che non si arrende. Ed è anche protagonista di una delle più belle
storie d’amore della letteratura. Perché nel grigiore dell’ospedale, nell’ansia
quotidiana dei controlli medici per vedere a che punto è il tumore dell’uno o
dell’altro, fiorisce anche l’amore insieme alla speranza di poter godere ancora
di un frammento di vita.
Di contro a Kostoglotov un altro personaggio deve essere citato. Rusanov è la controparte di Kostoglotov. Rusanov arriva altezzoso, pretenderebbe maggiore attenzione, non vorrebbe mescolarsi a questa gentaglia. E invece deve. Se Kostoglotov ha conosciuto il Gulag, in teoria Rusanov sarebbe potuto essere il suo delatore. È terrorizzato, Rusanov, quando la moglie gli dice che ‘stanno tornando’. Tornano i sopravvissuti alla deportazione- e se volessero vendicarsi?
Eleggiamo anche tra i medici due
protagoniste, due donne eccezionali- la Doncova, che si è prodigata oltre ogni
limite, che ha fatto scuola a tutti gli altri medici, e che ora è ammalata
anche lei. E Vera Gangart, anzi Vega, con il nomignolo che confida a
Kostoglotov. Vega dall’iniziale del nome e cognome, Vega come la quinta stella
più luminosa del cielo notturno. La dolcissima Vega, così paziente, così umana,
che ha tempo per tutti gli ammalati, che ha una parola di conforto per ognuno.
E’ di lei che Kostoglotov si innamora, ricambiato. Ma può avere un futuro
questo amore?
Come in quell’altro bellissimo romanzo che
si svolge tra ammalati, “La montagna incantata” di Thomas Mann, anche qui ci
sono discussioni politiche ed etiche tra i personaggi. E’ lo spettro della
morte che invita a riflessioni su quale sia il senso della vita, è la fine di
un’epoca (nel romanzo di Mann incombe la prima guerra mondiale e in quello di
Solzenycin il rivolgimento del dopo-Stalin) che spinge a farsi domande sulle
idee del passato e sul futuro.
Aleksandr Solzenicyn vinse il premio Nobel
nel 1970. Non andò a ritirarlo per timore che non gli venisse concesso di
rientrare in patria. Testimone e vittima del regime comunista, questo
scrittore- grande quanto Tolstoj e Dostojevskji- sembra essere stato
dimenticato, messo da parte. C’è da chiedersi il perché.
Leggete, o rileggete Solzenicyn. C’è un
solo rischio: quello di non essere soddisfatti da qualunque altra lettura si
inizi dopo di lui.
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