giovedì 3 febbraio 2022

Miri Yu, “Tokyo. Stazione Ueno” ed. 2021

                                          Voci da mondi diversi. Giappone

Miri Yu, “Tokyo. Stazione Ueno”

Ed. 21lettere, pagg. 176, Euro 16,00

 

Un libro bellissimo.

Un libro tristissimo.

Bellissimo per la nudità della sua prosa che è quasi poesia. Per la mancanza di fronzoli e sentimentalismi nel descrivere la condizione umana di un piccolo uomo a cui la madre dice, più di una volta, “Non hai mai avuto fortuna.” C’è un merito nell’avere fortuna? Un demerito nel non averla?

Tristissimo per la sorte di Kazu (solo una volta qualcuno lo chiama per nome, potrebbe essere una specie di ‘Chiunque’). Perché, nonostante tutto, Kazu è capace di un ultimo atto di grande generosità- andarsene da casa, dopo essere rimasto vedovo e ormai anziano, per non essere un peso per la nipote, figlia di sua figlia. Ed è così che diventa un senza tetto, uno dei tanti che vivono in condizione di fortuna nel Parco Ueno di Tokyo. Chiunque sia stato a Tokyo è stato al Parco Ueno e, se era nella stagione giusta, ha ammirato la fioritura dei ciliegi, ha visto il parco avvolto in una nuvola di petali rosa, la gente che faceva hanami sui teli distesi sotto gli alberi per festeggiare il rinnovarsi del miracolo della fioritura. Di certo non ha visto, o meglio, non ha prestato attenzione a quelli che da noi si chiamano genericamente ‘barboni’. Forse non c’erano neppure, perché, come Kazu ci dice, con un tono piatto di accettazione, erano stati fatti sgomberare per l’occasione speciale in vista dei molti visitatori, e diffidati dal tornare prima di una certa ora.


    E pensare che le premesse erano di buon auspicio. Kazu era nato nel 1933, lo stesso anno dell’Imperatore. Potevano due vite essere così diverse? Ma mai una parola uscirà dalla bocca di Kazu per rimarcare l’ingiustizia.

Di più. Suo figlio era nato lo stesso giorno del figlio dell’Imperatore. E loro erano così poveri che non potevano neppure permettersi di pagare una levatrice. Neppure una parola di autocommiserazione da parte di Kazu. E poi, questo figlio che prometteva tanto, era morto per arresto cardiaco. La notizia lo aveva raggiunto per telefono perché Kazu, da sempre, lavorava lontano da casa. Pioveva quando aveva saputo della sua morte. E quel ‘pioveva’, la ripetizione sconsolata di quel verbo ‘pioveva’ per cinque volte, affida alla pioggia tutte le lacrime che lui, il padre, non riesce a versare.


    A sessant’anni aveva smesso di lavorare ed era tornato a casa. Era un estraneo, ormai. Facendo i calcoli, in 37 anni di matrimonio, era rimasto per un anno insieme a sua moglie. Non conosceva i suoi figli. Non aveva fotografie di loro, perché non avevano una macchina fotografica. Ma Kazu non ha bisogno di fotografie, il suo passato è punteggiato dagli avvenimenti del Giappone, guerre passate, terremoti, soprattutto le Olimpiadi del 1964 che gli avevano dato la possibilità di lavorare a Tokyo, le stagioni si alternano con lo stridio delle cicale, l’oro delle foglie degli alberi gingko. Sono solo le splendide rose del pittore Redouté che non perdono mai le foglie- leggere le definizioni delle varie specie di rose ci trasporta fuori dal tempo, lontano dalle gang che danno fuoco ai senza tetto. E poi la tragedia nucleare di Fukushima che si è annunciata all’inizio del libro, con il rumore che lui sente e non sa identificare. E lo tsunami. Dopo di quello, dopo le altre sue perdite, ha ancora motivo di vivere? Diceva, nella prima pagina, la vita non è come la storia in un libro. Ci possono essere le parole, le pagine possono essere numerate, ma non c’è una trama. Ci può essere un finale, ma non c’è una fine.


A Kazu che, lo abbiamo capito da tempo, è solo uno spirito che si aggira per il parco Ueno con altri spiriti di uomini che ha conosciuto, resta un senso di stanchezza, la stanchezza di vivere che ha provato tutta la sua vita. Non ho vissuto con un intenzione, ho soltanto vissuto. Ma adesso è tutto finito.

    Il ricordo di questo piccolo uomo resta a lungo con noi. Un uomo senza qualità e senza difetti le cui riflessioni profonde ci spingono a porci i suoi stessi interrogativi. Con quali risposte?

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