mercoledì 26 agosto 2015

Jovan Divjak, “Sarajevo, mon amour” ed. 2007

                                     Voci da mondi diversi. Penisola balcanica
                                                   guerra dei Balcani
     FRESCO DI LETTURA

Jovan Divjak, “Sarajevo, mon amour”
Intervistato da Florence La Bruyère
Ed. Infinito, trad. Gianluca Paciucci, prefazione di Paolo Rumiz, pagg.226, Euro 18,00


    Jovan Divjak è un mito. Lo è in tutta la Bosnia. Lo è in particolar modo a Sarajevo, la sua città che subì l’assedio più lungo della storia moderna, più lungo ancora di quello di Leningrado- dal 5 aprile 1992 al 29 febbraio 1996. Alla fine dell’assedio la popolazione della città era il 64% di quella che era prima della guerra. 12.000 i morti, 50.000 i feriti, l’85% tra i civili: a volte i numeri sono necessari per rendere chiara l’immagine di una tragedia. La popolarità di Jovan Divjak è dovuta in primo luogo alla sua scelta di combattere- lui, appartenente ad una famiglia serba ortodossa- nelle file dell’esercito della Bosnia. Si è trovato quindi nella posizione difficile- come tutti coloro che condivisero questa scelta e non passarono al versante della Repubblica Srpska- di essere accusato di tradimento dai serbi e di poter essere sospettato dai bosniaci. E pagò caro la sua scelta anche sul piano strettamente personale- un mese di carcere per motivi non chiari, il ricatto dell’arresto di un figlio, minacce da più parti, un attentato rivolto a lui. Il suo amore per la Bosnia Erzegovina non può essere messo in discussione, e neppure il suo comportamento e la sua partecipazione in prima persona alla guerra. Si vedono ancora le sue fotografie nei luoghi pubblici a Sarajevo. La gente lo ammira e lo rispetta, per il suo passato e per il suo presente- un aiuto costruttivo agli orfani di guerra.

   Quando ho preso tra le mani “Sarajevo, mon amour”, ho provato una punta di delusione, perché mi aspettavo tutt’altro. Non avevo badato alla scritta in alto sulla copertina in cui, sotto il nome di Jovan Divjak, c’era ‘intervistato da Florence La Bruyère’. Temevo qualcosa di frammentario che non avrebbe soddisfatto il mio desiderio di sapere. E invece “Sarajevo, mon amour” è il libro più illuminante che abbia letto- finora- sulla storia dei Balcani. Una storia complicata che è iniziata da un solo Stato, la Jugoslavia, che si è frantumato dopo la morte di Tito (per inciso, l’immagine di Tito nelle parole di Divjak- ma anche di chi ne parla tuttora in Bosnia- è ben diversa da quella che ci veniva presentata in Italia all’epoca). Ma la giornalista Florence La Bruyère impone un ordine alla Storia organizzando le domande in uno schema ammirevole che troviamo nell’indice: sembrano quasi i dati di un problema matematico che debba essere risolto alla fine.
Incomincia con la premessa, “Nell’ombra di Tito”, segue con “La guerra”, la messa a punto sulle condizioni dell’esercito (ben misero), “L’Armija”, l’assedio interminabile e le sofferenze dei civili nel mirino degli sniper a Sarajevo (“I civili nella guerra”), per mettere a fuoco infine “I protagonisti” (Milošević, Karadžić, Mladić, Tudman, Izetbegović e i Caschi Blu), e concludere con “La pace imperfetta”. Se l’uniformità delle pagine di un testo di Storia può scoraggiare e a volte annoiare i non specialisti, il ritmo delle domande della La Bruyère e delle risposte di Divjak mantiene sempre desta l’attenzione. La Storia è viva (pur con il rischio di essere di parte), appassionante. Ci sembra persino di riuscire ad orizzontarci tra bosgnacchi e bosniaci (attenzione, non sono la stessa cosa), tra serbi di Serbia e serbi bosniaci, tra croati, cetnici e ustascia, tra eserciti regolari e le Tigri di Arkan. Di Jovan Divjak ammiriamo lo sforzo di equità e chiarezza, il tentativo di essere super partes e di soffocare odi e risentimenti, la sua generosità, il suo amore per Sarajevo.
La Rosa di Sarajevo: così sono indicati, per terra, i luoghi dove più di otto persone sono morte sotto il fuoco dei cecchini

     “Sarajevo, mon amour”: il titolo è un omaggio ad un altro grande uomo innamorato di questa città che non abbandonò neppure durante l’assedio, Kemal Monteno, il cantante figlio di un italiano di Monfalcone che aveva combattuto in Jugoslavia durante la seconda guerra mondiale e non era più tornato in Italia dopo aver sposato una donna di Sarajevo (lasciando peraltro una moglie e una figlia a Monfalcone). Kemal Monteno, voce romantica dal timbro italiano, è morto nel gennaio del 2015 (“è come se fosse caduto un grande albero”, hanno detto di lui). Ricordiamolo con la canzone che amo molto, “Sarajevo, ljubavi moja”. Cliccando su youtube scorrono le immagini della città amata, martoriata, risorta.

Jovan Divjak





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