sabato 15 agosto 2015

Chan Koonchung, “Il demone della prosperità

                                                            Voci da mondi diversi. Cina
          distopia
          il libro ritrovato


Chan Koonchung, “Il demone della prosperità
Ed. Longanesi, trad. Giovanni Garbellini, pagg. 288, Euro 16,40
Titolo originale inglese: The Fat Years


    Proseguendo la ricerca su internet, in cerca di notizie e non solo di libri, scoprì di non riuscire a trovare niente usando parole chiave come “Scontri Tiananmen” e via dicendo. Persino i risultati di ricerca sulla Rivoluzione culturale erano tremendi: solo un mucchio di fandonie nostalgiche a proposito di un’adolescenza passata sotto il sole brillante del glorioso passato. I pochi risultati che trattavano la storia della Rivoluzione culturale erano versioni ufficiali, semplicistiche ed emendate.

       Perché mai i cinesi sono tutti così felici? E dove è scomparso un mese- ventotto giorni, per essere precisi- del 2011? Com’è che nessuno se ne ricorda nulla? Sono queste le due domande che martellano la nostra mente leggendo il romanzo “Il demone della prosperità” di Chan Koonchung. E sono entrambe in qualche modo connesse con un terzo quesito più squisitamente esistenziale: che cosa sceglieremmo, o che cosa scelgono i più, tra un inferno autentico e un paradiso artificiale?
    Dall’Occidente abbiamo assistito, tra lo sbalordimento e la preoccupazione, all’ascesa della potenza economica cinese. Abbiamo pensato al detto “cavalcare la tigre” e- non importa se non sia adeguatamente inteso- ci è parso che rispecchiasse lo straordinario e inarrestabile balzo in avanti della Cina.
I dati parlano chiaro: mentre tutti i paesi una volta baciati dal benessere sono in recessione, solo la Cina per il terzo anno consecutivo ha registrato una crescita del 15%, perché è stata capace di soppiantare le esportazioni con la domanda interna dei beni di consumo. Non siamo solo noi occidentali, tuttavia, ad essere increduli davanti ad un tale cambiamento, fin troppo memori degli anni dell’utopia maoista e dei suoi strascichi. Ne “Il demone della prosperità” (“The fat years”, gli anni grassi nel titolo inglese) quattro personaggi sono gli osservatori sgomenti e increduli del cambiamento. Fang Caodi, che ha anche vissuto negli Stati Uniti, è quello che per primo pone la domanda: dove è scomparso il mese che in realtà separava il giorno in cui l’economia mondiale è entrata in crisi e quello in cui ha avuto inizio l’Età dell’Oro dell’Ascesa Cinese? Dipende forse dal fatto che lui prende delle medicine per l’asma che è l’unico a ricordare il panico che si era diffuso, la corsa all’accaparramento, l’intervento dell’esercito e della polizia e il vaccino contro l’influenza aviaria somministrato a tutta la popolazione?
Fang Caodi si confida con Vecchio Chen, il giornalista e scrittore che un tempo risedeva a Taiwan e che ora vive a Pechino, che è anche il narratore principale di quanto avviene (bloccato da anni senza ispirazione, finalmente ha qualcosa di cui scrivere). Inserite nel racconto di Vecchio Chen ci sono le autobiografie di un giovane che è stato rapito da bambino e che ha lavorato come schiavo in una fornace illegale di mattoni (pure lui asmatico, soccorso in strada da Fang Caodi che trova in lui un alleato nel ricordare), quella di Piccola Xi (è stata ricoverata in una clinica psichiatrica quando, proprio durante il mese fantasma, si è messa ad andare in giro gridando ‘ricomincia la repressione’), e quella del figlio di Piccola Xi, infine, un giovane di estrema destra. Sono voci diverse che si sovrappongono per abbozzare un ritratto della Cina di oggi costruita sulle macerie di quella di ieri.
Della Cina di quarant’anni fa rimane- nei personaggi non colpiti da amnesia- il rimpianto per l’idealismo che improntava quei giorni, per una lotta per ottenere qualcosa che non erano solo beni di consumo. Ed è scoraggiante per loro essere gli unici a rendersi conto che, pur essendo migliorata la situazione economica, pur essendoci un più diffuso benessere, i diritti del popolo continuano ad essere calpestati, il governo regge sempre il paese con un pugno di ferro, perché è necessario “battere l’erba per spaventare la tigre” e la stabilità è la priorità massima per ottenere grandi cose.


    Il romanzo di Chan Koonchung si riallaccia, per alcuni spunti, al genere distopico orwelliano anche se, nella tecnica narrativa, è impostato come un mystery, o un giallo, con tanto di rapimento finale. Ecco, è proprio alla fine che ci soddisfa di meno: dopo la vivace narrazione precedente, dopo l’alternarsi di voci, la spiegazione del mistero è affidata ad una persona in un lungo monologo che suona troppo didattico. E’ tuttavia una spiegazione sconvolgente a cui si continua a pensare: può sembrare incredibile, fantascientifica, eppure dentro di noi- Orwell ce l’ha insegnato- sappiamo che è possibile. Possibilissima. Perché no?

la recensione è stata pubblicata su www.wuz.it


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