venerdì 29 novembre 2024

Anya Niewierra, “Il cammino” ed. 2024

                                      Voci da mondi diversi. Paesi Bassi

cento sfumature di giallo

Anya Niewierra, “Il cammino”

Ed. Neri Pozza, trad. D. Santoro, pagg. 416, Euro 20,00

     Vijilen,Olanda. Una famiglia felice (in apparenza). Lei, Lotte Bonnet, 44 anni, ha una pasticceria specializzata in cioccolato, due figli grandi. Lui, Emil Jukić, non parla mai del passato che si è lasciato alle spalle, non ha mai detto che cosa gli abbia causato quelle tremende cicatrici sulla schiena, è arrivato come profugo dalla Bosnia in Olanda insieme ad un amico che ha sposato la cugina di Lotte. Era stato un incontro casuale, ad un caffè. Per l’amico di Emil e la cugina di Lotte era stato amore a prima vista, per Lotte era stato diverso- aveva sposato Emil perché era rimasta incinta.

    Sei anni prima Emil era stato operato per un tumore all’intestino e, dopo essersi miracolosamente ripreso, aveva deciso di intraprendere il Cammino di Santiago come per ringraziamento. Lungo il Cammino aveva continuato a mandare fotografie e messaggi sereni e pieni di amore alla moglie- che cosa era successo perché si suicidasse, accanto ad una croce in una regione isolata del Massiccio Centrale? Aveva incontrato qualcuno che conosceva? Si trattava veramente di suicidio?


    Quando Lotte e i figli si recano in Bosnia per disperdere le ceneri di Emil, Lotte scopre che suo marito non è affatto Emil Jukić, il vero Emil Jukić è morto nel 1995, ucciso in una delle stragi compiute dalle milizie serbo bosniache. E allora, chi era? Suo marito, l’uomo così affettuoso, l’ottimo padre, è diventato uno sconosciuto.

Un anno dopo la morte Lotte decide di partire, ripercorrendo i suoi passi, seguendo il suo itinerario e prenotando nelle stesse strutture dove lui aveva pernottato, nelle stese date e facendosi assegnare la stessa stanza. Vuole capire, vuole cercare di sapere di più.

    Il Cammino di Santiago ha qualcosa di diverso, qualcosa di più del solito viaggio che -da sempre- porta a una nuova conoscenza di sé e degli altri. È un percorso faticoso anche fisicamente, un itinerario a stretto contatto con la natura che invita alla riflessione e aiuta a liberarsi dai fardelli della quotidianità che ci si è lasciati indietro, proprio come insegna a liberarsi del bagaglio superfluo. Lotte cambia lungo il Cammino, come è giusto che sia, fa nuove amicizie, si innamora e non si accorge di nulla. È troppo fiduciosa (ma perché dovrebbe avere sospetti?), attribuisce al caso gli incidenti che le capitano…


   Definirlo un thriller non è giusto e sminuisce il valore del romanzo. Perché “Il cammino” non è un semplice thriller anche se c’è una forte suspense nelle sue pagine, ci sono molti elementi del mystery soprattutto riguardo all’identità di Emil, ci sono molti colpi di scena.

La profondità, l’attrattiva e il fascino del romanzo sono nel suo sfondo storico, nella ricostruzione della travagliata Storia della Jugoslavia, nell’esame- attraverso la vicenda di tre amici- dell’insorgere della discriminazione etnica laddove un tempo neppure si sapeva chi fosse musulmano o cattolico o ortodosso, chi fosse serbo e chi bosniaco e chi croato, del formarsi delle milizie, di come si sia potuti arrivare alla crudeltà più efferata.

La narrazione scorre su binari diversi- uno segue il tempo presente, con il procedere di Lotte sul Cammino, le sue domande a coloro che forse si ricordano di Emil, l’incontro con un fotografo un po’ troppo affascinante, le sue ‘disavventure’ (chiamiamole così), il carteggio che riceve dalla Bosnia senza mai riuscire a leggerlo, un altro è fatto del passato di Lotte, della sua arte cioccolatiera, dell’armonia del suo matrimonio con un uomo che la adorava, un altro ancora esce del tutto dagli schemi e finirà con il sorprenderci. È una lunga lettera che noi leggiamo ad intervalli, che racconta l’amicizia di tre ragazzi e poi gli anni del conflitto in Bosnia che hanno ucciso l’amicizia insieme a quella che dovrebbe essere l’essenza dell’umanità, finendo per risolvere tutti gli interrogativi.

massacro di Srebrenica

    Se la conchiglia dei pellegrini è un simbolo di rinascita (oltre ad essere collegata alla leggenda del santo), percorrere il Cammino di Santiago ha portato ad una rinascita, di Emil, dell’amico che non ha fatto il Cammino ma è rimasto in Olanda, e sì, anche di Lotte. E allora il thriller che non è un vero thriller è un romanzo sulla colpa, sulla legittimità di passare ai figli il fardello della colpa dei padri, sull’espiazione come unica possibile salvezza, come la vera rinascita.

   


  

 

martedì 26 novembre 2024

Erika Fatland, “La città degli angeli” ed. 2024

 

                                                  Vento del Nord

         reportage

Erika Fatland, “La città degli angeli”

Ed. Marsilio, trad. F. Peri, Pagg. 245, Euro 18,00

 

     Una città che nessuno di noi conosceva, prima, Beslan. Adesso Beslan è diventato un nome che evoca morte, che significa orrore, crudeltà infinita.

    Una data, 1 settembre 2004. C’è un altro primo di settembre che è rimasto impresso nella nostra memoria, ed è quello del 1939 quando l’esercito tedesco invase la Polonia dando inizio alla guerra che avrebbe coinvolto tutta l’Europa. Nel 2004, il primo di settembre, un commando di terroristi ceceni occupò la scuola elementare e media numero 1 di Beslan, nell’Ossezia del Nord, una repubblica autonoma nella regione del Caucaso della Federazione Russa, prendendo in ostaggio 1200 persone fra adulti e bambini.

    Era un giorno speciale quel primo di settembre per i bambini di Beslan. ll primo giorno di scuola, quello in cui ci si metteva l’abitino nuovo e si portavano i fiori agli insegnanti e si era accompagnati dalla mamma o dal papà o da tutti e due e dai fratellini minori. È per questo che c’era tanta gente nel cortile della scuola, tanti bambini anche molto piccoli. Era stato scelto il giorno terribilmente giusto, tragicamente giusto.


    Che i terroristi facciano sul serio, è chiaro subito. Che si impongano col terrore, pure. Sono infastiditi dal pianto e dalle urla dei bambini e chiedono che venga fatto fare silenzio. Un padre di 46 anni si fa coraggio e dice che, se magari loro, i terroristi, smettessero di sparare e spaventare i bambini, questi si calmerebbero. Un colpo di pistola lo mette a tacere.

   Per tre giorni gli ostaggi saranno tenuti chiusi nella palestra, senza mangiare né bere. Quindici dei ventidue uomini adulti furono uccisi subito. Il secondo giorno undici donne con i bambini piccoli ebbero il permesso di uscire. Il caldo era insopportabile. Disidratati, alcuni bambini incominciarono a perdere conoscenza. Alcuni bevvero la loro urina.

Quando le forze speciali russe fecero irruzione, fu un massacro. Morirono più di trecento persone, di cui 186 bambini, più di 700 furono ferite.


    Erika Fatland, scrittrice e antropologa specializzata nello studio della ricerca sul campo degli ex stati sovietici (il suo primo libro, “Sovietistan”, mi aveva letteralmente affascinato), ha fatto due lunghi soggiorni, non privi di difficoltà, a Beslan. Erika non ha solo esaminato i rapporti di inchiesta, non si è solo posta delle domande sulla meccanica degli eventi, su come abbiano fatto i terroristi a passare facilmente il confine- e più di una volta, perché la loro azione doveva essere stata preparata-, su chi fosse il vero capo dell’operazione, sull’inspiegabile mancanza di coordinamento tra le forze di polizia, sul loro immobilismo, sulla loro apparente incapacità di contrattare. Che cosa chiedevano i terroristi?  Il ritiro delle truppe russe dalla Cecenia? Indipendenza della Cecenia? E Putin? Perché Putin era rimasto silente e nell’ombra? Erika ha parlato con superstiti e testimoni, con le madri che sono incapaci di rassegnarsi, che mostrano camerette rimaste intatte come erano quel primo di settembre in cui i loro bambini non sono tornati  da scuola, che ricordano l’incubo di quelle ore e- per quelle che avevano accompagnato un figlio più grande con un neonato in braccio- lo strazio della scelta: avevano avuto il permesso di uscire, il secondo giorno, ma solo con il bambino piccolo. Uscire lasciando un bambino o una bambina in lacrime. È qualcosa di simile al dramma della protagonista de “La scelta di Sophie” di William Styron che, all’ingresso del campo di concentramento, era stata costretta a scegliere quale salvare dei suoi due bambini e quale mandare subito nella camera a gas. Una mamma di Beslan non ce l’aveva fatta- era tornata indietro nella palestra.


    Beslan è una città a lutto, ancora adesso che sono passati vent’anni. E’  una città in cui il dolore ha reso la gente sospettosa e invidiosa e Erika raccoglie anche queste chiacchiere, sulle indennità che sono state pagate, su chi ha speculato sulla morte, sulle malignità diffuse.

In mezzo a tutti questi testimoni della sofferenza, un uomo ci rimane nella mente e nel cuore- il direttore del cimitero. La gente mormora che sia uscito di senno. Chi non uscirebbe di senno quando perde in quella maniera una figlia adorata? Prima della catastrofe era un uomo di successo, aveva un lavoro prestigioso, casa e auto di proprietà, una moglie e tre figli. Due erano sopravvissuti, una no. Era stato lui a dare il nome al cimitero, a mettere il cartello con la scritta, Città degli angeli. Conosceva il nome di ognuno dei piccoli morti. Puliva le loro tombe, dormiva lì nel cimitero.

   La bravura di Erika Flatland è innegabile. Riesce a mescolare la freddezza dell’analisi storica e politica con la profonda umanità con cui si avvicina alle persone, restituendoci la loro storia e il loro dolore, uguale e diverso per ognuno di loro.



 

domenica 24 novembre 2024

Eve J. Chung, “Le figlie di Shandong” ed. 2024

                                                          Voci da mondi diversi. Cina

 Storia di famiglia

Eve J. Chung, “Le figlie di Shandong”

Ed. Corbaccio, trad. M. Elisabetta De Medio, pagg. 396, Euro 18,62

    1948. Cina. Dopo anni di lunga guerra civile tra nazionalisti e comunisti, nel 1946 la Cina continentale è passata sotto il controllo del partito comunista e Chiang-Kai-shek, con tutti i membri del Kuomintang, si è rifugiato nell’isola di Taiwan.

     Nello Shandong, una zona rurale nella Cina orientale, la ricca famiglia Ang non sembra essere consapevole del pericolo che incombe. L’unico problema sembra essere quello dell’assenza di un erede maschio perché la moglie del figlio primogenito continua a mettere al mondo figlie femmine, suscitando l’ira della tremenda Nai-Nai, la suocera che continua a ripetere che le bambine sono un peso, sono bocche da sfamare, non servono a niente perché solo un figlio maschio può rendere onore agli antenati.

Quando la protesta dei contadini minaccia la famiglia, la mamma e le tre bambine vengono abbandonate mentre il loro stesso marito e padre fugge con i genitori a Qingdao, la città costiera dove il Kuomingtang ha permesso l’ancoraggio della flotta americana. Il pretesto per l’abbandono è patetico nella sua aperta menzogna: custodiranno la casa, intanto di certo i comunisti non infieriranno su una donna e delle bambine.


   Non è vero. L’esperienza di Hai, la bambina più grande, considerata responsabile per il comportamento da ‘padrone’ del padre e del nonno e torturata, la segnerà per tutta la vita. Se mamma e figlie si salvano, se vengono nascoste da un contadino e poi aiutate a fuggire, è grazie al benvolere di cui ha saputo circondarsi la madre, sempre generosa nei confronti dei lavoranti.

    La voce narrante è quella di Hai, dapprima ragazzina giudiziosa che è un sostegno per la mamma, poi fanciulla che ha l’ambizione di studiare per uscire dal condizionamento femminile e non avere una vita come quella della madre, poi giovane sposa con un marito ben diverso dal padre-padrone e infine madre a sua volta. Di una bambina. Lei, però, non è sua madre che ha finalmente dato alla luce un maschietto, dopo il ricongiungimento con il marito a Taipei e dopo aver messo al mondo un’altra figlia femmina. Per questo tanto atteso erede la madre sottrae il latte che dovrebbe essere per la bambina nata solo un anno prima, dandole da bere acqua di riso e facendo infuriare Hai. No, Hai non è come sua madre. Sua figlia studierà, sarà indipendente, spezzerà la catena della supremazia maschile in famiglia, non si dovrà mai inginocchiare davanti ad una suocera.

    Il racconto di Hai segue la strada della fuga verso Qingdao, a piedi, affrontando i pericoli degli incontri con i comunisti a cui presentano dei lasciapassare falsificati, la fame, le intemperie. Per poi scoprire che, ancora una volta, la famiglia Ang ha lasciato Qingdao senza curarsi di loro- ormai sono a Taipei e madre e figlie finiranno in un campo per rifugiati dove le condizione di vita sono proibitive.

Qingdao

    Quella de “Le figlie di Shandong” è una storia privata sullo sfondo di un’epoca di transizione in Cina. I grandi avvenimenti, il sorgere della stella di Mao e le rivendicazioni comuniste sono visti attraverso le sofferenze patite dal piccolo nucleo famigliare. Sono sofferenze imputabili, però, più ancora che a quello che sta accadendo in Cina, al comportamento dei famigliari e alla concezione tradizionale della donna come importante solo in quanto procreatrice di figli maschi. Solo lo zio delle ragazze, un ufficiale dell’esercito nazionalista, si salva tra le figure maschili. È lui che rintraccia la cognata e le nipoti nel campo profughi, è lui che gli procura i biglietti e il lasciapassare per raggiungerli nell’isola di Taiwan, è lui che si mostra compassionevole verso di loro, vedendo le condizioni fisiche in cui si trovano.

    Se la narrazione scorre un poco piatta e monotona, piace, però, il quadro al femminile di quei tempi- il ruolo ben delineato della primogenita e della secondogenita, lo stretto legame tra madre e figlie e lo sminuimento della figura paterna.  




mercoledì 20 novembre 2024

Laura Imai Messina, “Tutti gli indirizzi perduti” ed. 2024

                                                      Voci da mondi diversi. Giappone



Laura Imai Messina, “Tutti gli indirizzi perduti”

Ed. Einaudi, pagg. 240, Euro 19,50

 

     È vero. C’è un Ufficio Postale alla deriva sull’isola di Awashima nel mare interno di Seto, in Giappone. Deve il suo nome al fatto che lì vengono recapitate tutte le lettere senza un destinatario, come messaggi gettati in mare chiusi in una bottiglia, lasciati in balia delle onde, alla deriva.

Se non fosse vero, definiremmo subito il nuovo libro di Laura Imai Messina come un romanzo tra il sentimentale e il favolistico, un po’ sdolcinato, uno di quei romanzi che ti fanno pensare solo a cose belle, a parole che non si perdono nell’aria, a legami profondi anche se si sono esauriti in un attimo. E, leggendolo, penseremmo che sarebbe bello se la vita fosse così, che ci piacerebbe.

    La vita è così e il romanzo è un inno alla scrittura, alle lettere che una volta era così comune scrivere per mantenere i contatti, al rito di chiudere un foglio in una busta e andare a spedirlo dopo averlo affrancato. Perché  i sentimenti e i pensieri affidati a parole sulla carta sono preziosi e durano per sempre.


I destinatari delle lettere che finiscono all’Ufficio Postale alla deriva sono i più vari, i più fantasiosi. C’è chi scrive ricordando quando, da bambino, aveva tagliato la coda a una lucertola e le chiede perdono. Chi rimpiange un fuggevole incontro su un autobus di Roma con una ragazza che leggeva un libro di Kawabata. Chi ringrazia la vecchia vicina di casa che gli leggeva a voce alta prima che lui si addormentasse. Chi mantiene in vita, scrivendole, la moglie tanto amata. Chi scrive a se stesso una lettera per quando sarà adulto. Ci commuoviamo a leggere queste lettere alla deriva, si commuove Risa che sbarca sull’isola con un incarico a tempo per catalogare le lettere.

    Risa è perfetta per questo lavoro. La conosciamo nelle prime pagine quando- è così piccola che non sa neppure il suo nome- arriva sulla porta di persone sconosciute con una lettera in mano da consegnare (nell’isola di Awashima troverà una lettera proprio per lei, scritta da quello che allora era un bambino e, insieme alla sua mamma, aveva asciugato e rivestito la bimbetta che sedeva sul gradino della loro casa). Ma il padre di Risa fa il postino e lei ha appreso da lui l’amore per le vite segrete nascoste nelle buste.


   Tre filoni si alternano nella trama di “Tutti gli indirizzi perduti”- il motivo nascosto per cui Risa è venuta nell’isola: trovare le lettere che sua madre spediva regolarmente all’Ufficio Postale alla deriva e scoprire così che cosa affliggeva sua madre, che cosa faceva di lei una madre poetica e stravagante oppure una madre assente e incapace di fare qualunque cosa; una storia d’amore che può aiutare Risa ad uscire dalla gabbia di paura che le impedisce di avere un bambino perché teme di assomigliare a sua madre; il coro che si leva dalle lettere, tenere, tristi, dolci, amare, riflessive, ognuna con un frammento di vita da raccontare- un tesoro di ricchezza. E, sullo sfondo, un altro coro, quello degli abitanti dell’isola, ognuno con il suo passato e la sua storia, dapprima diffidenti verso la sconosciuta, poi stretti intorno a lei quando Risa ha un crollo.


    Laura Imai Messina ha un dono speciale, quello di scrivere in uno stile che non è realismo magico, è pura e semplice magia, è poesia in prosa, è la capacità di leggere i sentimenti, di trovare la bellezza che si nasconde ovunque. Vorrei scrivere anche io una lettera, o più di una, all’Ufficio Postale alla deriva.




domenica 17 novembre 2024

Han Kang, “Non dico addio” ed. 2024

                                                      Voci da mondi diversi. Corea

                                                  Guerra

premio Nobel

Han Kang, “Non dico addio”

Ed. Adelphi, trad. Lia Iovenitti, pagg. 265, Euro 20,00

 

     C’è un altro frammento di storia della Corea nel libro “Non dico addio” della scrittrice Han Kang, vincitrice del premio Nobel 2024. Un frammento che fa luce su un episodio forse ancora più doloroso della rivolta popolare di Gwangju soffocata nel sangue nel 1980 e rievocata in “Atti umani”- i massacri di Jeju in cui un numero imprecisato di persone, forse trentamila, forse di più, fu trucidato per eliminare qualunque supposto simpatizzante comunista. Lo sterminio iniziò il 3 aprile 1948- infatti viene ricordato semplicemente come ‘Jeju 4.3’- e proseguì nel 1949. Si era alla vigilia della guerra di Corea, tra il Nord, sostenuto dall’Unione Sovietica e dalla Cina, e il Sud, sostenuto dagli Stati Uniti. Nella paranoica paura del Comunismo furono proprio gli Stati Uniti a fomentare i massacri.

    La prima parte del libro era stata scritta precedentemente e solo in un secondo tempo Han Kang la rimaneggiò dandole un seguito. È uno stacco che si avverte, tra la prima e la seconda parte, e la prima parte occupa uno spazio troppo lungo, è come un’introduzione personale, tra il sogno e la realtà, ricca di immagini metaforiche, alla seconda parte che è in brutale contrasto con la prima.


La protagonista, Gyeong-ha, sta passando un periodo difficile- è sola, soffre di invalidanti emicranie, ha degli incubi ricorrenti a cui non sa dare spiegazioni. Quello che vede in sogno sembra un cimitero, invece delle lapidi ci sono dei tronchi neri su cui fiocca la neve, finché una marea avanza e lei si sveglia. La richiesta dell’amica Inseon, in ospedale perché si è tranciata due falangi lavorando il legno per il progetto del cimitero di tronchi che avrebbero dovuto realizzare insieme, la porta a Jeju, l’isola nello stretto di Corea. Inseon le ha chiesto qualcosa di strano a cui però Gyeong-ha non può sottrarsi: deve andare a dare da bere al pappagallino che altrimenti morirà.

    Inizia così il viaggio della protagonista, tra realtà, metafora, sogno, in una natura che è in apparenza pura e incontaminata, con la neve che cade in grossi fiocchi in un silenzio di ovatta. Che cosa si nasconde dietro questa apparenza? Il viaggio di Gyeong-ha per arrivare alla casa dell’amica è difficoltoso, dopo un percorso in autobus deve proseguire a piedi, perde la strada, cade lungo un pendio. Quando arriva alla casa trova il pappagallino morto, l’elettricità salta e lei rimane al buio e al freddo. Sono tutti segnali premonitori di quello che verrà a sapere, in parte raccontato da Inseon (come mai riappare accanto a lei? non era in ospedale? È un sogno? È morta e la visita sotto forma di spirito? Anche l’uccellino, che lei è sicura di avere sepolto, sembra tornare in vita) e in parte dalla madre di questa che aveva rivelato alla figlia il suo tremendo passato negli ultimi anni prima di morire e prima che la sua memoria fosse inghiottita dall’Alzheimer.


La madre e la zia erano sopravvissute al massacro in cui i loro genitori e un’altra sorella erano morti. E non avevano mai smesso di credere che anche il fratello potesse essere scampato, ne avevano seguito le tracce nelle varie prigioni da cui era passato, avevano ascoltato la testimonianza dell’uomo che lo aveva incontrato e che poi sarebbe diventato il padre di Inseon.

    Queste testimonianze spezzate, questi ricordi frammentari, gli esami delle fotografie a bassa risoluzione, i racconti a volte ripetuti- sono la parte più bella del libro, come se si scrollassero di dosso tutta la neve che è caduta su Jeju per rivelarsi, come se le cataste impressionanti di ossa bianche trovate in una grotta volessero prendere la parola e vincere lo smemoramento dell’Alzheimer, come se tutti quei bambini uccisi- quanti bambini, anche neonati-, implumi come il pappagallino morto, esigessero di avere nel ricordo la vita che non gli era stato concesso di avere.

    Non c’è fine agli orrori, nel passato e nel presente.



martedì 12 novembre 2024

Claire Jéhanno, “La giurata” ed. 2024

                                                           Voci da mondi diversi. Francia

   cento sfumature di giallo

Claire Jéhanno, “La giurata”

Ed. Astoria, trad. Cinzia Bigliosi, pagg. 352, Euro 20,00

 

    Francia. Chartres. Anna Zeller è stata chiamata a far parte della giuria popolare per il processo a Fréderic e Lucile, accusati di aver avvelenato e poi strangolato la zia di Fréderic. Il motivo dell’omicidio: avevano bisogno di soldi.

Anna, insegnante sulla trentina, è orgogliosa di essere stata chiamata. Sente il peso della responsabilità, ma non ne è spaventata.

    Giorno dopo giorno seguiamo Anna in tribunale dove lei ascolta le varie testimonianze e la deposizione dei due fidanzati. Ogni giorno apprendiamo dei dettagli, ogni giorno Anna si pone delle domande. Che persona era la zia di Fréderic? Quando lui era bambino, lei era la favolosa zia di Parigi da cui andava ospite. L’appartamento in cui la coppia abitava era di proprietà della zia ed era proprio accanto al suo. Perché ucciderla, allora, se Fréderic era il suo nipote preferito? Tutti sapevano che l’assassino non può essere l’erede della persona che ha ucciso. E Lucile? Se desiderava tanto un figlio, perché aveva abortito? E che fine aveva fatto il gatto della zia?

   Ad ogni buon conto i fidanzati si dichiarano innocenti, un amico di Fréderic testimonia che avevano passato la sera insieme. E intanto Anna ascolta anche i genitori degli imputati, il fratello di Fréderic, una vicina pettegola che ha Lucile in antipatia. Si rende conto ogni giorno che passa di quanto sia difficile arrivare alla verità- c’è una sola verità? Quella che sembrava ad Anna la verità un giorno, viene messa in dubbio il giorno seguente. Adesso sente il peso della responsabilità, del giudicare colpevole o innocente una persona.


    C’è qualcos’altro ancora, e qui è l’originalità del romanzo opera prima di Claire Jéhanno. La verità- qual è la verità di Anna? Una delle altre giurate la chiama Anna Boulanger- erano anni che non sentiva quel cognome, come ha fatto a scoprirlo? E giorno dopo giorno, a fianco della storia dei fidanzati imputati, affiora quella di Anna Zeller che una volta si chiamava Anna Boulanger, una volta viveva in un piccolo paese, una volta aveva un padre, una volta aveva una cugina bionda che si chiamava Aurore. Poi Aurore era scomparsa, andava sulle altalene con la sorellina di Anna e dopo non c’era più. I genitori, gli zii e la polizia avevano interrogato invano la bambina- non aveva visto nulla, non sapeva. La tragedia si era abbattuta sulla famiglia, il dolore, i sospetti, le chiacchiere del paese. Aurore non era mai stata ritrovata. La madre di Anna aveva ripreso il cognome da nubile, si era trasferita a Chartres con le bambine che non avevano più rivisto il padre.

    Che cosa sta succedendo ad Anna, adesso? Perché questa necessità di trovare la verità di quanto è successo a lei e alla sua famiglia? Che cosa, nel caso dell’anziana signora uccisa, ha riportato il passato nella sua mente?


Il finale è del tutto una sorpresa per entrambe le vicende, è una sorta di catarsi.

    Nessuna delle due storie è banale e l’interesse del lettore è rivolto, su un piano più semplice, allo svolgimento dei fatti nell’una e nell’altra vicenda, e su un piano più complesso alle motivazioni psicologiche dei fidanzati, al loro rapporto con la zia e all’intricato gioco della memoria di Anna. La cornice- il tribunale- è un memento continuo della necessità di abbandonare i sentimenti fuori dall’aula e di essere lucidamente obiettivi. Perché la verità è elusiva, si nasconde, gioca ad avere molte facce.



lunedì 11 novembre 2024

Nino Haratischwili, “La gatta e il generale” 2024

                                                Voci da mondi diversi. Georgia


romanzo storico

Nino Haratischwili, “La gatta e il generale”

Ed. Marsilio, trad. F. Bonomi e F. Cremonesi, pagg. 649, Euro 24,00

      La Gatta. Il suo vero nome è Sesili (all’anagrafe hanno tralasciato la a finale che avrebbe reso il suo nome uguale a quello della nonna). È georgiana, fa l’attrice.

      Il Generale. È stato nel momento cruciale della sua vita che si sono rivolti a lui chiamandolo ‘Generale’, quasi riconoscendo l’autorità nella sua voce. Da ragazzo si chiamava Mališ, poi è diventato Alexander Orlov, un oligarca russo che ha fatto palate di soldi.

    Il Corvo, terzo personaggio con un soprannome- il corvo è latore di brutte notizie. Si chiama Onno Bender, è il giornalista che ha l’incarico di scrivere la vita di Orlov.

     E poi ci sono due importanti personaggi femminili che si rincorrono nelle pagine del romanzo di Nino Haratischwili. Sono due personaggi del regno delle ombre che però appaiono più vivi che mai nei ricordi di chi le ha conosciute. Hanno la forma del rimorso, di una colpa non espiata. Sono Nura e Ada. Nura appare nel capitolo iniziale del libro. E’ il 1994. Le truppe russe hanno invaso la Cecenia. Nura ha diciassette anni, è bellissima, il suo nome significa Luce, sogna di scappare da quel villaggio sulle montagne del Caucaso. Vende pollame e uova ai nemici per raggranellare soldi. Muore. Sapremo molto dopo come, vittima di incredibile violenza.


   Mališ- come era finito, lui, un intellettuale, un idealista che amava i libri, a combattere su quelle montagne, odiando quello che era costretto a fare?- aveva deciso che avrebbe chiamato Ada, come la protagonista del libro di Nabokov che stava leggendo, l’esserino che lo avrebbe reso papà, se fosse stato una bambina. Anche Ada, come Nura, è già morta quando il suo nome appare per la prima volta. Ed è per lei che Alexander Orlov mette in moto tutta la vicenda quando, mentre la sua auto passa per le vie di Berlino, vede un cartellone pubblicitario con un volto che è identico a quello di Nura che lui conserva nella sua memoria. Orlov lo deve a sua figlia, mettere in chiaro quello che è successo nel 1995 in Cecenia. Perché Ada si è uccisa e Orlov è roso dal rimorso.

    Verrà girato un video, con la Gatta nelle vesti di Nura. Verrà recapitato a tre persone che erano con Mališ in Cecenia. Verrà rivissuto tutto quello che era successo. Avevano sperato invano di essersi lasciati il passato alle spalle. Saranno riuniti in un luogo isolato per una resa dei conti. La verità deve venire fuori. Adesso, visto che il processo non era servito a nulla e che Mališ aveva lasciato cadere le accuse. Sia Nura sia Ada devono ottenere giustizia. Ma riusciranno loro, tutti loro, compreso il Corvo, a sopportare il peso della verità e delle sue conseguenze, a non essere schiacciati dalla colpa?


    La drammatica scena finale, orchestrata magistralmente, ci riporta a scene famose di romanzi ‘gialli’, in primis quelli di Agatha Christie, con l’atmosfera claustrofobica in un luogo da cui ogni tentativo di fuga è impossibile, in attesa dell’esito di un gioco mortale alla roulette russa. E il dramma personale dell’oligarca che perde la figlia adorata ricorda quello di Ratko Mladić, il generale e criminale di guerra serbo bosniaco la cui figlia si suicidò dopo aver appreso di che cosa si fosse macchiato il padre che era per lei un idolo. Ana Mladić e Ada Orlov, solo una consonante differenzia i due nomi.


    Anche “La gatta e il Generale”, come gli altri due romanzi di Nino Haratischwili che abbiamo letto, è un grande affresco in cui la Storia è rivisitata attraverso le storie dei personaggi, il disfacimento dell’Unione Sovietica e l’avvento di un capitalismo made in Russia si riflette nella ‘caduta’ dei protagonisti, la tradizione del grande romanzo russo affiora nelle tematiche del delitto e del castigo, di vendetta, di amore e morte, di necessità di espiazione. È un bel romanzo con il difetto di un eccesso di scrittura, di essere ‘overwritten’. Quando la scrittrice ci dice tutto, ma proprio tutto, di alcuni personaggi, finisce per rallentare la narrazione appesantendola.



mercoledì 6 novembre 2024

Graham Greene, “L’americano tranquillo” ed. 2024

                           Voci da mondi diversi. Gran Bretagna e Irlanda

cento sfumature di giallo
thriller politico

Graham Greene, “L’americano tranquillo”

Ed. Sellerio, trad. Alessandro Carrera, pagg. 356, Euro 16,00

    Uno dei più bei libri di Graham Greene, uno dei miei preferiti di sempre- il solo fatto che sia ancora attuale, che si legga ancora con piacere, interesse ed entusiasmo, a settant’anni di distanza, dice già tutto (era il 1963 quando lo lessi per la prima volta e vedere la data che ho scritto in prima pagina mi dà, come sempre, una leggera vertigine).

    Saigon che era ancora Saigon e non Ho-Chi-Min City, agli inizi degli anni ‘50, durante la prima guerra dell’Indocina. Un narratore cinico di mezza età, l’inglese Fowler. Un americano trentenne appena arrivato per una non ben definita missione economica, Pyle. Una giovane e bellissima ragazza vietnamita, Phuong. Questo sarà il triangolo amoroso che offre una delle chiavi di lettura, l’altra è quella che segue una trama da thriller politico. Il quesito è: perché muore Pyle? Chi ha voluto la morte dell’americano tranquillo?


    È questo aggettivo, ‘quiet’, che definisce Pyle da subito e che viene ripetuto più di una volta quando si parla di lui, e c’è un leggero disprezzo in quell’aggettivo, un’ironia che si rivelerà appieno più avanti. Fowler e Pyle sono agli antipodi. Non è solo l’età che li differenzia, è il modo di guardare il mondo, di interpretare la realtà- e forse l’età gioca la sua parte-, è l’esperienza contro una conoscenza acquisita sui libri, il cinismo di chi ha visto tanto e l’ingenuità e l’innocenza di chi ha ancora degli ideali che sono illusioni. ‘L’americano tranquillo’ non è poi tanto tranquillo. È arrivato con l’idea di salvare il Vietnam dal comunismo, con l’intento di portare la democrazia con l’ausilio di una Terza Forza (il ritratto dell’americano è spietato e, leggendo il libro oggi, dopo la tragedia protratta della guerra degli anni ‘70, sembra quasi una profezia), poco importa se questo significa causare danni collaterali. Nella scena centrale del libro, quella che segna una svolta, davanti alla carneficina della bomba fatta esplodere al mercato, gli occhi di Fowler sono sulla madre che siede per terra con il bambino morto in braccio. Pyle è indifferente, sì, gli spiace, ci sarebbe dovuta essere una manifestazione, lui aveva avvisato Phuong di non andare al mercato a quell’ora, come era solita fare. “Prima o poi bisogna scegliere da che parte stare. Se si vuole restare esseri umani”, è la frase che spinge Fowler a prendere una decisione.


    Greene gioca con il tempo in questo romanzo, così come gioca sull’affidabilità del narratore. Sappiamo dal primo capitolo che Pyle è morto e lo sappiamo dalla polizia che viene ad interrogare Fowler sui suoi spostamenti la sera precedente. Lo sospettavamo quando, al rientro a casa, Fowler aveva incontrato Phuong sulla porta- aspettava Pyle, come mai non era tornato? Era da un mese che Phuong viveva con Pyle- enigmatica come sono tutti gli orientali, Phuong aveva seguito il miglior offerente. L’americano tranquillo si era innamorato di lei a prima vista, voleva sposarla e portarla in America, avrebbe visto la Statua della Libertà, i grattacieli. Fowler aveva una moglie in Inghilterra che non voleva concedergli il divorzio. Ed era stato richiamato a Londra dal giornale di cui era inviato.


    Il tempo si riavvolge indietro, all’arrivo di Pyle, al suo primo ballo con Phuong, lui goffo e lei leggiadra, alla scoperta di quella strana polvere bianca che sembra latte in polvere, all’attacco dei Vietminh e ai cadaveri che scendono lungo il fiume a Phat Diem, all’irritante ingenuità di Pyle e alle biciclette che esplodono dentro la fontana.

L’amore confonde le carte. Non lo sa Fowler, non lo sappiamo noi- qual è il vero motivo dietro la morte di Pyle? Altruismo? Egoismo?

     Era ovvio che questo romanzo non poteva piacere agli americani- Graham Greene fu dichiarato ‘persona non grata’ dal governo americano.



 

venerdì 1 novembre 2024

Sujata Massey, “La signora di Bhatia House” ed. 2024

                                                             Voci da mondi diversi. India

cento sfumature di giallo

Sujata Massey, “La signora di Bhatia House”

Ed. Neri Pozza, trad. Laura Prandino, pagg. 520, Euro 19,00

 

    Ritorna Perveen Mistry, l’unica donna avvocato di Bombay. È stata invitata ad un tea party di beneficenza a Bhatia House. C’è un’atmosfera di esultanza tra le signore che sfoggiano i loro sari più belli. Ci sono grandi aspettative sul modo in cui verranno usati i soldi raccolti (alcune signore hanno donato gioielli non volendo chiedere soldi ai mariti)- sarà costruito un ospedale per le donne. E ce n’è un bisogno disperato in un paese in cui le donne non rivelano una malattia o altri problemi femminili ad un dottore uomo. In particolare- e questa è l’attrattiva maggiore del libro- si porta alla luce il dramma dell’usanza delle spose bambine il cui utero non è pronto per affrontare una gravidanza per cui l’esito di questa è spesso fatale, sia per la mamma sia per il bambino. L’altro grande problema è connesso con questo- nell’impossibilità di negarsi al marito, le donne hanno una gravidanza all’anno e la mortalità delle donne e soprattutto dei bambini è molto alta.


    Il party verrà interrotto per un incidente che sarebbe potuto finire molto male. Il piccolo e vivacissimo Ishan Bhatia, unico figlio maschio del primogenito di casa, viene avvolto all’improvviso dalle fiamme- sono stati i lumini accesi dappertutto in giardino a causare l’incendio? Si salva grazie alla sua ayah, Sunanda, che rimane seriamente ustionata. Quello che accadrà dopo ci fa dubitare che si sia trattato di un banale incidente. Sunanda viene mandata via con ben poco riguardo per le sue ustioni nonostante le raccomandazioni di Perveen e della sua amica medico e poco dopo Perveen viene a sapere che è stata arrestata. La denuncia, fatta alla polizia da una persona che non ha lasciato un indirizzo, è piuttosto fumosa. La ragazza avrebbe bevuto un infuso per abortire. Tutto è strano in questa denuncia. Sunanda non è sposata, con pudore nega di aver mai avuto rapporti. Eppure, eppure, deve essere stata traumatizzata. È stata stuprata? come? quando? Nella società indiana del 1922 (non sono certa che da noi sarebbe stato diverso) come può una ragazza parlare di mestruazioni davanti ad avvocati dell’accusa uomini? E a Perveen non è permesso prendere la parola in tribunale.

    La trama segue più di un filone. Perveen cerca di scoprire chi vuole che Sunanda resti in prigione e che cosa è successo il giorno in cui l’ayah ha accompagnato i bambini alla festa organizzata dal nawab (fresco di matrimonio con un’australiana). Nello stesso tempo muore per avvelenamento da piombo il capofamiglia dei Bhatia- quali interessi sono in gioco, quali appalti si stanno contendendo i magnati di Bombay? Perfino l’inglese di cui Perveen è innamorata è stato incastrato in un lavoro che implica una possibile rivendicazione di terre da parte dei colonizzatori britannici.


    Una sottotrama che coinvolge la cognata di Perveen riporta l’attenzione alle problematiche femminili. Gulnaz ha partorito da poco e non sopporta il pianto estenuante della neonata (anche Perveen è piuttosto infastidita, a dire il vero), litiga con il marito di cui rifiuta le attenzioni e, senza neppure vestirsi, ordina all’autista di riportarla a casa dei suoi genitori- con le conoscenze mediche maggiori, oggi sappiamo che sta soffrendo di una depressione post-partum.

   Se ci aspettiamo da “La signora di Bhatia House” un thriller ‘forte’, saremo delusi. È piuttosto un mystery gentile con i toni pacati dei gialli di altri tempi, senza brividi e con qualche prevedibile sorpresa. Quello che è veramente interessante, però, è il risveglio di una presa di coscienza dei problemi delle donne, sottovalutati e trascurati in una società in cui le donne hanno ben poca importanza, in un’India che si sta risvegliando nella scoperta dei soprusi britannici, mentre gli indiani sono stanchi della discriminazione- una sorta di Apartheid ante litteram, mentre Gandhi esorta alla non violenza dalla prigione.