sabato 30 marzo 2019

Giulio Bedeschi, “Centomila gavette di ghiaccio” ed. 1963


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                                                              seconda guerra mondiale
           riletture


Giulio Bedeschi, “Centomila gavette di ghiaccio”
Ed. Gedi, pagg. 471

       Sono cresciuta sentendo parlare della ritirata di Russia. Un amico dei miei genitori non era ritornato. Ho letto su internet che più di 500 giovani della provincia del mio paese di mare sono morti o sono stati dati per dispersi nella tragica operazione Barbarossa. Quando vado nel mio cimitero marino passo davanti ad una lapide che ogni volta mi strazia il cuore. C’è la foto di un ragazzo- le date dicono che ha vent’anni appena compiuti. L’aspetto è quello di un tempo passato, quando si diventava maggiorenni a 21 anni e però si poteva essere mandati a morire a diciotto. Sembra più grande. In realtà sembra senza età. Una frase incisa in lettere di bronzo, un grido accorato, “Figlio mio, dove sei?”, e poi, ‘disperso in Russia, gennaio 1943.’ Mi fermo, penso a quel ragazzo che non ha ancora vissuto e al suo sgomento nel biancore sterminato. Penso alla colonna di alpini che si snoda nella pianura innevata, come la abbiamo vista nelle fotografie che lasciano capire la lentezza del passo e la sofferenza inaudita. Sarà stato tra quelli che ad un certo punto non sono più riusciti ad avanzare, il ragazzo della foto? O sarà stato tra quelli stritolati dai carri armati russi nella zona di Popowka? “Figlio mio, dove sei?”.

     Quando ho visto che un’iniziativa di Repubblica ristampava e vendeva in edicola “Centomila gavette di ghiaccio” di Giulio Bedeschi, l’ho comprato, anche se lo avevo già letto, anche se avevo già il libro in casa, chissà dove, però. E l’ho subito riletto.
Le riletture sono sempre a sorpresa- un libro può deludere a distanza di anni, oppure, al contrario, può piacere di più. Ho divorato- di nuovo- “Centomila gavette di ghiaccio”. Forse l’ho anche capito meglio, forse avevo più strumenti per leggere dietro le parole sobrie di Bedeschi che affida il suo racconto, i suoi ricordi, ad una narrativa in terza persona con un personaggio principale, il tenente medico ventiseienne Italo Serri. Non è lui, però, il protagonista del libro, sono tutti gli alpini della divisione Julia in un grandioso romanzo corale storico che inizia con la campagna di Albania. Già era sembrata dura, la campagna di Albania. Già il freddo era parso insopportabile. Eppure era niente in confronto a quello che avrebbero sperimentato in Russia. La ritirata dei nostri alpini dal fronte del Don è descritta da Bedeschi in maniera accurata sia storicamente sia- e qui è il valore intramontabile del libro- umanamente. Mai, neppure nelle circostanze più dure delle temperature che scendono a 48 sotto zero, della mancanza di cibo, delle ferite spaventose, mai viene meno lo spirito di corpo, la solidarietà, l’affetto che lega gli uomini della divisione, che dà loro la forza di mettere un piede davanti all’altro. Alcuni personaggi, alcuni episodi, sono indimenticabili. Come quando l’umile guidatore di muli che ha le mani congelate e inservibili cede il pezzo di formaggio che si era portato in tasca per un mese ad un compagno che altrimenti si lascerebbe cadere nella neve. E ci scherza su, minimizzando. Lui che aveva minacciato di uccidere chi avesse cercato di rubarglielo.

     Non c’è molto da aggiungere su di un libro pubblicato nel 1963 e su cui si è già detto tutto. Neppure la domanda, ‘come è stato possibile mandare questi giovani allo sbaraglio, ad una morte certa?’, è una novità. Continuo a pensare ai numeri, 1300 chilometri nella neve a più di 40 gradi sotto zero in 40 giorni. E vale la pena di rileggere il libro, di continuare a parlarne, perché fra un poco la storia degli alpini in Russia sembrerà una Storia lontana, tanto lontana quanto quella della ritirata di Napoleone.



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