domenica 4 febbraio 2018

Alexis Salatko, “Horowitz e mio padre” ed. 2007

                                                          Voci da mondi diversi. Francia
                                                                      biografia romanzata
               il libro ritrovato

Alexis Salatko, “Horowitz e mio padre”
Ed. Ponte alle Grazie, trad. Francesco Bruno, pagg. 135, Euro 12,00

Gennaio 1953, Ambroise Radzanov accompagna il padre Dimitri a New York per ascoltare il concerto del grande pianista Horowitz in occasione del suo giubileo d’argento. Inizia così, raccontata dal figlio, la storia di Dimitri, che era stato compagno di studi di Horowitz al conservatorio di Kiev. Poi c’era stata la rivoluzione, Dimitri Radzanov era fuggito in Francia, aveva trovato un lavoro, si era sposato e aveva abbandonato il pianoforte. E Horowitz era diventato, invece, un gigante della musica.


INTERVISTA A ALEXIS SALATKO, autore di “Horowitz e mio padre”

    Il titolo del romanzo di Alexis Salato, “Horowitz e mio padre”, ci avverte che leggeremo una storia che riguarda il grande pianista russo e il padre dello scrittore. Meglio, forse, invertire l’ordine dei soggetti, “Mio padre e Horowitz”, perché questo è un libro d’amore per un padre. O, addirittura, aggiungere una parola, “La musica, mio padre e Horowitz”, perché, accanto a Dimitri Radzanov e a Vladimir Gorovitz (così era il suo nome in Russia), la musica è la grande protagonista del romanzo. Musica salvifica del corpo  e dell’anima, musica che tiene in vita e ragione di vita o essenza stessa della vita.
Horowitz
Quando i bolscevichi confiscarono i beni degli ebrei, in Russia, Vladimir Gorovitz dava concerti per sfamare la sua famiglia, suonava in cambio di cioccolata e salame (non mangerà più carne dopo l’emigrazione in America). Quando Dimitri Radzanov lavorava nella fabbrica di dischi in Francia, dove era riuscito a mettersi in salvo dopo aver combattuto nella Guardia Bianca, era la musica che riusciva a estrarre dal piccolo pianoforte a un quarto di coda che gli metteva le ali sui tetti di Parigi. Negli Stati Uniti Gorovitz/Horowitz suonava con accanimento e con disperazione: non poteva deludere il pubblico, non voleva correre il rischio di essere rimandato indietro e magari essere spedito come suo padre in Siberia, dove gli si sarebbero spaccate le dita per il gelo. A Parigi Dimitri tirava fuori dai tasti Mozart e Lizst e Beethoven, come se quelle note potessero prolungare la vita dell’amata moglie Violette, o almeno accompagnarla con dolcezza nel sonno della morte. Uno è famoso, l’altro è sconosciuto- ma qual è la relazione tra talento e successo? Quale dei due è stato più felice? Horowitz che è diventato un mito o l’oscuro Radzanov? La risposta la dà lo stesso Dimitri, quando spiega al figlio che la vita di un concertista “è come scalare in bici l’Alpe d’Huez tutti i giorni senza sellino. Lui l’ha fatto e credo che abbia soltanto sfiorato la vera vita, io ho scelto un’altra strada.”

     Che Dimitri Radzanov abbia scelto un’altra strada è fonte continua di delusione per Anastasie, madre del pianista mancato e di un altro figlio che amava invece la danza e che è morto di tifo in Russia, o almeno così pare, fino alla fine in cui vengono svelati parecchi segreti. Contro Anastasie, francese emigrata in Ucraina perché innamorata della Russia, madre con sogni di gloria per i figli, orgogliosa delle doti musicali del suo Dimitri (alla domanda stupita della nuora, “Conoscete Horowitz?”, Anastasie risponde, “No, signorina, è Horowitz che conosce noi”), ben poco può l’attrice di secondo piano Violette, che ha sposato Dimitri. A Violette Anastasie attribuisce la colpa che il figlio non abbia uguagliato Horowitz e si lancia nell’impresa di cercare di stimolare il senso di rivalità del figlio, strumentalizzando il nipotino che diventa portavoce delle tappe della carriera di Horowitz. E gli sconvolgimenti dell’Europa della fine degli anni ‘30 diventano poca cosa a confronto delle due guerre combattute in casa Radzanov, quella tra suocera e nuora e quella tra i due pianisti, con Dimitri che colpisce i tasti bianchi e neri per superare la musica suonata da Horowitz che esce dal grammofono: “Il grande perturbatore del pianeta non era Adolf Hitler, ma Vladimir Horowitz, un ebreo esiliato negli Stati Uniti di cui noi seguivamo le imprese dalla periferia parigina finita sotto lo stivale nazista”.

    Vera, falsa, immaginata, la competizione tra i due pianisti occupa le pagine di un libro pieno di avvenimenti drammatici perché erano drammatici gli anni in cui vissero i protagonisti, eppure Salatko ci fa sorridere con il brio del racconto, con la vivacità del lessico familiare- Horowitz è “Faccia di cavolo”, la nonna è “Caramia”, la poltrona presa da un vagone di treno in disuso è l’”Orient Express”-, e soprattutto ci comunica un messaggio che va controcorrente nei nostri tempi: l’importanza dell’essere al di là di tutto, al di là dell’avere e del venire riconosciuto per quello che si è. Stilos ha intervistato Alexis Salatko.

Romanziere, sceneggiatore cinematografico, scrittore di teatro. Che cosa hanno in comune e che cosa hanno di diverso queste maniere di esprimere se stesso?
      Certamente scrivere romanzi è quello che mi permette meglio di esprimere me stesso, anche perché spesso nei miei libri mi sono basato sulla storia della mia famiglia e su quello che mi è successo. Come sceneggiatore eseguo, invece, degli ordini e per quello che riguarda il teatro faccio degli adattamenti dei miei romanzi.

Se è vero il dettaglio che sua nonna faceva l’attrice, l’interesse per il cinema è un’eredità di famiglia?
     Il sogno di mio padre, che era medico, era di fare del teatro. Per lui fu terribile dover scegliere di studiare di medicina perché mio nonno lo aveva destinato a questa carriera. Voleva essere un artista come suo padre, come sua madre che aveva recitato anche con Jean Gabin. Mio padre scriveva dei brevi drammi teatrali e organizzava delle feste nella sua casa di Cherbourg in cui recitava lui stesso: da bambino pensavo che mio padre fosse un attore e ho iniziato la mia carriera di scrittore scrivendo opere per il teatro. Sì, esiste l’eredità di un interesse per la recitazione e io l’ho raccolta, anche se poi ho preferito scrivere romanzi. Prima di iniziare a scrivere “Horowitz e mio padre”, ho chiesto a mio padre il permesso di raccontare questa storia e mio padre non sa ancora che Alain Malraux, il figlio di André Malraux, ne sta preparando l’adattamento teatrale: sarà rappresentato nel teatro francese di New York che si trova nella Piccola Ucraina. E io penso di preparare una sorpresa per mio padre e portarlo a New York, proprio come lui ha portato suo padre a sentire Horowitz a New York. Così la vita copia il romanzo.
Horowitz

E non ha ereditato affatto il gene musicale dal nonno?
     No, io applico la musica alle parole. A casa mi servivo del vecchio pianoforte, che abbiamo tenuto, come per fare dello spiritismo e mettermi in contatto con  lo spirito del nonno. Il pianoforte era per me come la madeleine di Proust: tocco i tasti d’avorio per viaggiare nel tempo, perché non sono dotato per la musica.

Parlando ancora di “eredità”- Lei è nato e cresciuto in Francia, come suo padre del resto. Avverte però qualcosa di “russo” dentro di sé?

     Ho viaggiato spesso in Russia, siamo in quattro fratelli e due di loro vivono e lavorano in Russia. Quello che abita in Francia ha adottato una bambina russa e in casa sua si parla russo e francese. In un altro mio libro spiego meglio la mia “eredità” russa. Ho ereditato dal nonno qualcosa di radicale che c’è nel mio carattere: vedo in bianco e nero, passo dalla gioia alla malinconia, sono eccessivo in tutto. E poi c’è l’eredità letteraria: mia madre è insegnante di letteratura con un’attenzione particolare alla letteratura russa. Mia madre, che è francese, ha insegnato a mio padre, russo, ad amare la letteratura russa. Quando mia madre era incinta di me, leggeva Dostoevskij e per quello mi ha chiamato come il più piccola dei fratelli Karamazov, Aljoša. E abbiamo mantenuto tante usanze e abitudini russe in famiglia. Mio nonno è sepolto a Chatou e tutti gli anni a novembre andiamo a fare un picnic al cimitero, come si usa in Russia.

Ma non fa freddo per un picnic al cimitero nella Francia del Nord?
    Sì, ma ci scaldiamo con la vodka e intanto parliamo con il morto. E festeggiamo la Pasqua russa…La grande casa di Cherbourg è come un museo russo, ci sono samovar e mobili e altre cose che i miei sono riusciti a portare via dalla Russia. Ho sempre chiamato “dacia” la piccola casa nel giardino della grande casa dove mi rifugiavo a scrivere: senza elettricità e senza riscaldamento, ma l’ideale per restare “dentro” la scrittura.


Quanto c’è di vero e quanto c’è di fittizio nel romanzo “Horowitz e mio padre”?
      Sono un romanziere e ci sono delle cose che devono essere modificate in un romanzo, rispetto alla realtà. Ad esempio il personaggio del fratello del nonno, Fedor: la parte centrale della storia è vera ma ho dovuto modificare la fine, la maniera in cui lo abbiamo ritrovato, perché sarebbe stato troppo complicato raccontare la realtà. La maggior parte dei fatti narrati è vera: vera la nonna che odia la nuora e che si serve del nipotino per stimolare il figlio. Soprattutto è vera la storia di due amici separati dalla rivoluzione, uno è finito in una fabbrica di dischi e l’altro è diventato musicista famoso. Questo è il mio libro più autobiografico, è la storia della mia famiglia. Io non ho conosciuto il nonno che è morto prima della mia nascita e ho dovuto immaginare delle cose su di lui, la sua maniera di parlare.

“Il talento non ha nulla da spartire col successo”, viene detto nel romanzo. E, parlando dei professori del conservatorio, si dice che questi non capivano perché Dimitri “sperperasse” il suo talento. Fino a che punto però un talento viene sfruttato al massimo se non c’è riconoscimento altrui, se non c’è un successo?
    Penso che è la vita che ha scelto per Dimitri, è stata l’ironia della sorte, sono stati i casi della vita che hanno voluto che Dimitri fabbricasse dischi e l’altro suonasse. Oltre al talento ci vuole fortuna. Lou Reed dice che un artista non ha mai abbastanza fortuna. E’ la vita che distribuisce le carte, c’è a chi capita una bella mano e a chi no, e ognuno deve giocare con le carte che ha. Ma non è detto che chi ha una bella mano di carte abbia una vita più felice. Dimitri ha fatto delle cose belle, ha avuto una bella storia d’amore, un figlio di cui andava fiero, dei nipoti, anche se non l’ha saputo. E ha continuato a suonare per sé. Horowitz ha avuto la gloria, però era un virtuoso, il matrimonio con la figlia di Toscanini non è stato molto felice, sua figlia si è suicidata e lui non è neppure andato al funerale. Non l’ho scritto nel libro perché volevo che il concerto al Carnegie Hall dominasse la scena, ma Dimitri ha dato un solo concerto per gli operai della fabbrica di dischi- mio padre era presente e dice che è stato un successo.
Horowitz e Wanda Toscanini

Il divario tra talento e successo è, in certo qual modo, la stessa cosa del divario tra essere ed avere, come spiegava Erich Fromm?
     Sì, penso proprio si possa dire così: Dimitri ha capito che la vita del musicista richiedeva sacrificio e che lui non voleva fare la carriera del concertista. Quella non era la sua idea della musica: la musica per lui non era spettacolo, gli interessava la ricerca quotidiana di che cosa sia la musica. Come Rachmaninov disse a Horowitz: ‘ va bene, suoni le ottave più veloce di tutti, sei un virtuoso, ma questa non è musica.’ D’altra parte Horowitz stesso disse che nei tre periodi in cui ebbe una depressione nervosa si sentì più musicista che quando suonava in pubblico- ci fu un lunghissimo periodo di 12 anni in cui Horowitz non diede concerti. Fu allora che Horowitz si avvicinò alla visione che Dimitri aveva della musica.

La bisnonna Anastasie, pur con il suo carattere e i suoi pregiudizi, è un personaggio simpatico che ammiriamo: dopotutto non è un bene che i genitori siano ambiziosi per i propri figli e li spingano a dare il massimo di sé?
     Anastasie aveva due figli, uno che faceva il ballerino e l’altro il pianista. Il suo preferito era il primo, ma Fedor morì e le restava solo Dimitri. Fu allora che spostò tutto quello che aveva sognato per il primo figlio sul secondo, voleva che riuscisse. Se non ci fosse stata la Rivoluzione, se non avesse perso il marito e un figlio, forse Anastasie sarebbe stata meno ambiziosa: era un fardello troppo pesante per mio nonno Dimitri.

Pensando alla narrativa e alla produzione cinematografica sulla seconda guerra mondiale, ci sono due elementi ricorrenti: la musica e il gioco degli scacchi. Pur essendo così differenti, sono entrambi una maniera per sopravvivere?
     C’è anche la letteratura per sopravvivere, come per Walter Benjamin e Stephen Zweig, che hanno usato la letteratura come forma di resistenza. E’ vero quello che dice, perché, ad esempio, i tedeschi amavano la musica, la musica è una lingua che possono capire e rispettavano i musicisti. E il gioco degli scacchi è un gioco di intelligenza, qualcos’altro che va rispettato. Un artista con la sua arte può resistere al totalitarismo.


Per ultima la domanda che poteva essere fatta per prima: perché ha scritto adesso questo romanzo?
     Ho vissuto in tanti luoghi, a Chatou e poi a Cherbourg, a Parigi e di nuovo a Cherbourg. Infine ho trovato casa a Parigi e aprendo le finestre ho visto che davanti c’era il cimitero dove era sepolto mio nonno: questo ha fatto scattare la voglia di scrivere il libro. La seconda scintilla è stata la distruzione della fabbrica Pathé Marconi per cui aveva lavorato mio nonno. Oggi non ne resta più niente, e poi mio padre è ormai anziano e desiderava lui stesso scrivere questa storia. Io glielo avevo promesso già dieci anni fa, che l’avrei scritta, ma mi ci voleva una maturità letteraria per scriverla: non è facile mettersi nei panni del proprio padre, si avverte come una vertigine. Bisogna trovare la distanza giusta con il personaggio, era necessario che avessi vissuto io stesso delle cose come artista: non scrivo per guadagnare soldi ma perché i libri esistano di per se stessi. A vent’anni non avrei avuto l’esperienza per scrivere che cosa è l’arte e che cosa è il successo: non si poteva essere adolescenti e scrivere questo libro, era necessario diventare un adulto.

recensione e intervista sono state pubblicate sulla rivista Stilos




                                                                                          


    
   

    

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