Voci da mondi diversi. Penisola iberica
cento sfumature di giallo
Arturo Pérez-Reverte, “Il problema finale”
Ed.
Settecolori, trad. Bruno Arpaia, pagg. 346, Euro 23,00
Un divertissement. Oppure un entertainment,
come lo definirebbe Graham Greene. Un ‘giallo’ letterario. Un thriller del
genere della ‘camera chiusa’. Un omaggio ad Agatha Christie e a Sir Conan
Doyle. Un pastiche. Un’antologia di citazioni di Sherlock Holmes. Un mystery
stuzzicante per il lettore. Una strizzata d’occhio a grandi attori del passato.
Arturo Pérez-Reverte ritorna sulla scena narrativa con un romanzo che è una
lettura piacevolissima e divertente.
È il 1960. Una tempesta ha bloccato nove turisti nell’albergo sull’isola di Utakos, di fronte a Corfù. Al lettore viene immediatamente in mente quel capolavoro di Agatha Christie che è “Dieci piccoli indiani”. Il libro di Pérez-Reverte non finisce con ‘e poi non rimase nessuno’, non c’è neppure una filastrocca che serve da linea guida, ma di certo c’è un legame nella sequenza dei morti assassinati che inizia con un apparente suicidio, quello di una signorina inglese che viaggia con un’amica. La situazione è tipica del delitto ‘impossible’- la porta di un capanno sulla spiaggia chiusa dall’interno, una corda, una sola traccia di orme sulla sabbia. Eppure l’io narrante che verrà investito dell’incarico di indagare su questa morte, nell’impossibilità della polizia greca di raggiungere l’isola, non è affatto convinto che si tratti di un suicidio. Viene naturale affidare a lui questo compito, nello sconcerto generale. Perché è un volto noto a chiunque frequenti le sale cinematografiche, è un attore ormai sul viale del tramonto, ma lui è Sherlock Holmes.
Aver impersonato il più famoso investigatore fa sì che abbia assimilato la sua tecnica e il suo fiuto investigativi, che si muova, guardi, ascolti, si comporti come se fosse Sherlock Holmes. E se Holmes aveva bisogno della cocaina per aguzzare l’intuito, Hopalong Basil (il suo vero nome è Ormond) si trattiene con una ferrea autodisciplina, ma le bottiglie dietro il bancone del bar sono come le sirene per Ulisse per lui. Accanto a Basil/Sherlock spunta naturalmente il dottor Watson nei panni di uno scrittore di gialli da quattro soldi, anche lui ospite prigioniero dell’isola.
Lo scrittore e l’attore, colui che inventa
delle trame e colui che le porta in scena- è come leggere un romanzo dentro un
romanzo, tra i fatti che succedono nell’albergo, un secondo, un terzo morto, e
i rimandi letterari, la schermaglia a battute di frasi o ricordi di situazioni nei
libri di Conan Doyle o in film in cui recitava Ormond, le allusioni dettagliate
a incontri o bevute insieme ad attori come Cary Grant o Tyrone Power o Ava
Gardner, o perfino Sophia Loren.
Sir Arthur Conan -Doyle
“A volte la vita imita l’arte”, dice il
personaggio scrittore a Ormond che osserva che il suo è un ruolo romanzesco
come investigatore sull’isola. Ed è proprio il caso di dire così, quando ogni
delitto viene inscenato come se fosse tratto da un romanzo già letto. E che
fare della famosa frase che è diventata un cliché, ‘l’assassino è il
maggiordomo’, per indicare che il colpevole è qualcuno a cui non penseremmo
perché fuori dal giro? Ne “Il problema finale” dovremo aspettare anni per
sapere chi è l’assassino, dopo colpi di scena e sorprese, dopo la fine della
tempesta che sembra essere diventata una tempesta metaforica, con la calma che
significa sia l’arrivo della polizia sia il commiato dai personaggi.
Un piccolo appunto sulla veste grafica del
libro- che piacere leggere di nuovo un libro con copertina rigida, una
rilegatura simile a quelle di un tempo e una bella carta. Sembra un’edizione in
stile con i personaggi.



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