giovedì 30 ottobre 2025

Vanessa Chan, “Cominciò con due gocce d’acqua” ed. 2024

 

                               Voci da mondi diversi. Malesia


   la Storia nel romanzo

Vanessa Chan, “Cominciò con due gocce d’acqua”

Ed. Mondadori, trad. Stefano Bortolussi, pagg. 300, Euro 18,52

     Due linee temporali in questo romanzo di Vanessa Chan, nata in Malesia e attualmente residente a Brooklyn.

     Kuala Lumpur, 1945, quando la Malesia è occupata dai giapponesi.

     Kuala Lumpur, 1935, sotto l’occupazione britannica.

     Quattro personaggi che appartengono alla stessa famiglia ci raccontano la loro parte della storia- Cecily, la madre, di famiglia euroasiatica, Jujube, la figlia primogenita, Abel, l’unico figlio maschio, e la piccola Jasmin.

    Il primo capitolo- è il 1945- ci trasporta subito dentro il dramma di Cecily, il dramma di un intero paese. Il figlio quindicenne Abel è scomparso. Cecily spera contro ogni speranza ma, dentro di sé, sa benissimo che Abel non si è allontanato di sua volontà. Abel è stato preso dai giapponesi che utilizzano il lavoro forzato per costruire la ferrovia tra la Birmania e la Thailandia che avrebbe facilitato il rifornimento delle truppe. Verrà chiamata ‘la Ferrovia della Morte’ perché più di 100.000 prigionieri morirono per le condizioni disumane in cui erano costretti a lavorare.


    Torniamo indietro nel tempo, a dieci anni prima quando erano i Britannici ad occupare la Malesia. Una Cecily più giovane, sposa annoiata e insoddisfatta di un piccolo funzionario, si lascia irretire da un giapponese che si fa passare per commerciante ma che, in realtà, è una spia sotto copertura che riapparirà, dieci anni dopo, nelle vesti del Generale Fujiwara. Cecily si innamora, forse anche Fujiwara è innamorato di lei, di certo si serve di lei perché gli passi informazioni che lei capta dal marito. Lei gli crede quando lui le fa sognare un’Asia per gli asiatici, sottratta al dominio straniero. Ed è lei che- dettaglio romanzesco- suggerisce la possibilità di un’invasione giapponese dal nord sfuggendo così ai cannoni inglesi puntati verso l’oceano da dove si aspettano l’attacco.

    I capitoli più tragici e dolorosi sono quelli in cui il protagonista è Abel, l’adolescente coccolato e viziato, il ragazzino la cui bellezza era diventata un pericolo che diventa un alcolizzato pelle e ossa- Abel beve, per istupidirsi, per dimenticare quello che gli hanno fatto, quello che è stato costretto a fare, e a niente serve il sostegno costante dell’amico Freddie per reagire a questa autodistruzione, finché la bomba su Hiroshima mette fine alla guerra, il campo viene liberato…


    La storia di Jujube che lavora in una casa da tè frequentata da giapponesi ubriachi mostra che, tra gli occupanti, ci sono anche ‘i buoni’, come è giusto che sia. Il giapponese di mezza età che arriva per bere il tè ogni sera è uno di questi. Le porta del cibo in regalo, non vuole niente da lei, solo essere ascoltato quando le racconta della figlia di cui non sa nulla, che teme sia rimasta vittima della bomba.

Delle due sorelle, è la piccola Jasmin quella ad essere in pericolo, quella che deve essere rinchiusa di giorno nello scantinato, quella a cui devono tagliare i capelli corti come fosse un maschietto e a cui fanno indossare gli abiti del fratello- agli occupanti piacciono le ragazze giovani, molto giovani, se fosse presa, Jasmin verrebbe portata in una ‘casa di piacere’ anche se lei non ha la minima idea di che cosa questo significhi. Lo sa benissimo invece la sua amichetta segreta- ma questo è un filone a sé, un po’ troppo da feuilleton, che culminerà nel dramma finale.

     C’è molto della storia di famiglia della scrittrice stessa in questo romanzo che ci parla di amore e di tradimento, di illusioni e di durissima realtà, di sensi di colpa per non aver capito a fondo il gioco ingaggiato, dell’orrore della guerra, dell’impotenza di un popolo piegato dall’occupazione nemica.



lunedì 27 ottobre 2025

Graham Greene, “Missione confidenziale” ed. 2025

                 Voci da mondi diversi. Gran Bretagna e Irlanda

          spy story

Graham Greene, “Missione confidenziale”

Ed. Sellerio, trad. A. Bottini, pagg. 376, Euro 16,00

 

     Graham Greene chiamava “entertainments” i suoi romanzi del tipo di “Missione confidenziale” (The Confidential Agent il titolo originale) o “Il treno per Istanbul”. Erano i romanzi che scriveva per attenuare la tensione della scrittura di un altro genere di libri, quelli più tormentati per una problematica etica o politica. Così, come disse lui stesso, scrisse “Missione confidenziale” alternandolo alla stesura de “Il potere e la gloria”, uno dei suoi romanzi più belli e più profondi.

    C’è soltanto un’iniziale ad indicare i nomi del protagonista e del suo antagonista: D. è un agente segreto in missione ‘confidenziale’ in Inghilterra e L. è la sua controparte, l’agente segreto incaricato della stessa missione ma per conto dei nemici del partito di D. Si trovano entrambi sul traghetto che li porta da Calais a Dover, entrambi vengono da un paese in guerra, non sappiamo quale paese e quale guerra, ma- sono gli anni ‘30 del ‘900- possiamo pensare che si tratti della guerra civile in Spagna, entrambi devono contrattare per l’acquisto di carbone, indispensabile per vincere la guerra in corso.


   Non ha proprio niente dell’agente segreto, D. Nella vita prima della guerra lui faceva tutt’altro, era professore universitario di Lingue Romanze, negli ambienti intellettuali aveva una certa fama per aver trovato il Codice di Berna che offriva una nuova interpretazione del finale della Chanson de Roland- il vero eroe non è Orlando che rifiuta il suggerimento di Oliviero di suonare il corno per chiamare in aiuto le forze di Carlo Magno, ma è il realista Oliviero che non infligge il colpo fatale all’amico Orlando per sbaglio ma con odio perché è responsabile di tante vite sprecate. È questa una storia che ci viene riferita perché allusiva a quello che accadrà? E comunque, anche nell’Inghilterra che non conosce e non ha quasi mai conosciuto la guerra, D. è inseguito dalla guerra, anzi, si porta la guerra dentro lui stesso dopo l’esperienza di due anni di carcere, dopo essere rimasto sepolto sotto le macerie della sua casa, dopo che sua moglie è stata fucilata per sbaglio.

    Ci accorgiamo subito, leggendo, che è come se Greene si stesse divertendo nello scrivere, come se mettesse per iscritto avvenimenti al limite tra l’assurdo e il ridicolo dopo essersi chiesto che cosa poteva far succedere- perché succede proprio di tutto a D. Prima l’incontro con L., poi quello con Rose, la femme fatale di turno che, guarda caso, è la figlia di quel Lord Benditch con cui D. deve trattare (è affidabile, lei?), poi con il direttore dell’assurda scuola di Entrenationo dove si insegna una lingua che scimmiotta l’esperanto, un ometto illuso che risponde al nome di Bellows (in italiano può significare ‘muggito’ o ‘mantice’) e con l’insegnante di quella lingua universale che dovrebbe essere il suo contatto (farà una brutta fine), con la piccola servetta dell’albergo che si innamora di lui per la sua gentilezza (anche lei farà una brutta fine, ne è lui responsabile?).


     Non c’è un momento di pausa nel romanzo, nella pace inglese rimbomba l’eco della guerra che insegue D., che causa altri morti anche lontano dalla sua terra. Nella ridda di improbabilità c’è anche un finale rocambolesco che conclude questo ‘intrattenimento’. Eppure, anche nella sua voluta leggerezza, Greene resta un grande scrittore che riesce a inserire quesiti morali nelle avventure più strampalate, che gioca con la lingua, con i nomi stessi che inserisce nel romanzo (c’è una marginale Miss Glover, il cognome di un’amante dello stesso Greene), che ci offre sempre una lettura intelligente.



giovedì 23 ottobre 2025

Bernhard Schlink, “Il tempo che resta” ed. 2025

                                          Voci da mondi diversi. Germania

 


Bernhard Schlink, “Il tempo che resta”

Ed. Neri Pozza, trad. Susanne Kolb, pagg. 192, Euro 19,00

    Martin ha 76 anni. È un giurista in pensione, ha una moglie giovane e un figlio di sei anni. Conosce da sempre il medico che, dopo un check-up di routine perché si sentiva stanco, gli dice che ha un tumore al pancreas. Se è fortunato, ha davanti al massimo sei mesi di vita. Se è fortunato, avrà un lungo periodo in cui forse si sentirà sempre più stanco prima che incomincino i dolori. E allora bisognerà decidere se farsi ricoverare in un hospice o cercare assistenza per gestire la situazione da casa.

      Tutti sappiamo di dover morire, ma è il pensiero di Ulla e di David che rende difficile a Martin accettare l’inevitabile. Soprattutto quello di David- come preparare un bambino alla morte del padre? Che cosa lasciargli di sé? Quali ricordi? E sì, forse è vanità, ma Martin vuole essere ricordato, non vuole che la sua vita scompaia nel nulla.


     Inizia così il conto alla rovescia, settimane e giorni in cui Martin si illude che ci sia stato un errore nella diagnosi, magari perfino uno scambio di esiti delle analisi, per ricredersi, poi, dopo episodi di forte malessere. E Martin osserva dettagli a cui non aveva fatto caso- David che non vuole più dargli la mano andando all’asilo, David che forse si vergogna di avere un padre che sembra un nonno, Ulla che, pur essendo sempre molto affettuosa e sollecita, ha più impegni del solito nella sua galleria d’arte, che gli rimprovera di non aver mai creduto nelle sue capacità artistiche.

La scelta delle ‘ultime’ cose da fare per l’ultima volta non è facile- ritornare in un ristorante, andare sulle montagne russe, restare in automobile durante l’autolavaggio, fare una camminata di due giorni nei boschi con David, e poi quel programma di accumulare il compost con David, tanto criticato da Ulla.


   È con grande sensibilità e con empatia che Bernhard Schlink affronta il tema della morte, della difficoltà dei rapporti di coppia quando c’è una forte differenza di età, della felicità venata di malinconia di avere un figlio che- si sa, è la legge della vita- resterà senza padre. E il suo protagonista, che per tanti versi ci fa pensare allo scrittore stesso con cui condivide ricordi del passato che già sono affiorati in altri romanzi, è un uomo generoso che riesce a sconfiggere la gelosia,  che si adopera per risolvere un doloroso segreto che ha afflitto la moglie da sempre e che deve aver influenzato i suoi rapporti con gli uomini.

     Il libro- e la vita di Martin Brehms- finiscono in un’atmosfera di dolce tristezza, il dolore non viene edulcorato, viene affrontato con il coraggio di chi sa di aver vissuto pienamente e che si prepara a quello che non si può evitare.



martedì 21 ottobre 2025

Marc Dugain, “Un’esecuzione ordinaria” ed. 2009

                                                     Voci da mondi diversi. Francia

la Storia nel romanzo
rilettura

Marc Dugain, “Un’esecuzione ordinaria”

Ed. Bompiani, trad. Fabrizio Ascari, pagg. 396, Euro 19,50

 

    Tutti i romanzi raccontano una storia. Ma ci sono storie e storie, romanzi e romanzi. E quando ci si imbatte in un romanzo diverso, che racconta una storia diversa, ne avvertiamo la differenza. “Un’esecuzione ordinaria”, del francese Marc Dugain, appare, all’inizio, come un insieme sfilacciato di vicende con varî protagonisti in epoche storiche differenti, in Russia o nella Germania orientale. Fino a quando ci rendiamo conto che tutte le storie convergono verso un drammatico avvenimento centrale- l’affondamento del sottomarino Oskar con il suo carico umano di centoventi uomini a bordo. E un centinaio di campanelli di allarme suonano nelle nostre teste, ricordandoci la tensione dei giorni quando il Kursk si inabissò nelle acque del mare di Barents.


    I personaggi del 2000 sono il poco più che ventenne Vanja, al suo primo imbarco per quelli che dovrebbero essere tre giorni di manovre per sperimentare il lancio di un nuovo siluro, e il presidente russo- Putin, che nel romanzo si chiama Plotov. Viene anche chiamato ‘lo zar blu’, per distinguerlo dagli ‘zar bianchi’ e dagli ‘zar rossi’ del passato. Oppure, con un’immagine del mondo animale, ‘la faina’, per quei lineamenti appuntiti e gli occhi celestrini a fessura.


Ma tutto inizia molto più lontano- non c’è mai una vera interruzione nella Storia: la nonna di Vanja era un’urologa con un dono taumaturgico nelle mani ed era stata, in segreto, la curatrice di Stalin; il nonno di Plotov era il cuoco del ‘piccolo padre’. Il primo capitolo si svolge, dunque, nel 1952, quando Olga Ivanovna Atlina viene prelevata dall’ospedale in cui lavora per essere portata da Stalin. E’ l’epoca in cui i medici ebrei dell’ospedale del Cremlino, accusati di aver ucciso Ždanov, erano stati arrestati e deportati nei gulag, e Olga Ivanovna Atlina, medico e figlia di un ebreo che ha cambiato nome, è terrorizzata. Invece la sua vita non è in immediato pericolo, almeno finché il tocco delle sue mani porterà giovamento a Stalin e lei manterrà il silenzio. Con tutti, con il marito da cui divorzia, proprio per proteggerlo. Con i superiori dell’ospedale, da cui viene licenziata, per le sue assenze. Il silenzio, la segretezza, la menzogna o l’alterazione della verità usati come arma di difesa. Questa è l’atmosfera iniziale e questa è pure- nonostante tutti i rivolgimenti, nonostante la fine dell’”impero”, nonostante il cambiamento di regime- l’atmosfera finale, mezzo secolo dopo: ancora silenzio, ancora il bavaglio alla stampa, la ridda di supposizioni. In mezzo assistiamo alla formazione di Plotov nelle fila del KGB, un ometto che non ha nulla di notevole salvo la disponibilità ad obbedire. Questo è l’uomo che, all’annuncio dell’affondamento del sommergibile gioiello della flotta russa, emette la sentenza: “Se ci sono superstiti, ritengo che non dobbiamo precipitarci a recuperarli.” Perché “da vittime diverranno testimoni, e testimoni tanto più credibili dato che sono anche vittime.”


    La voce narrante è, per lo più, quella del padre di Vanja, insegnante di storia che chiede a titolo di risarcimento- insieme all’enorme somma di denaro data alle famiglie dei sommergibilisti con l’ingiunzione di tacere- di essere messo in pensione anticipata: che senso può avere insegnare la Storia distorcendo la verità? Giustificando i milioni di morti in nome di…che cosa? Un’idea? Un ideale? Il bene dei più? Allora come adesso: perché vengono vagliate le diverse ipotesi su quello che può essere successo negli abissi e - molto molto peggio- vengono esposti i motivi per cui si sono lasciati morire anche gli uomini che battevano dall’interno contro lo scafo. Forse anche- e questo è veramente sconvolgente- i tre che avevano provato ad uscire e i cui corpi non furono mai trovati.

    Facendo eccezione al disagio che proviamo nell’ascoltar parlare Stalin- che suona un poco falso-, “Un’esecuzione ordinaria” è una bella prova narrativa- un romanzo che ha qualcosa di epico nel mescolare storie private di piccoli personaggi con la grande Storia che abbiamo vissuto e che viviamo. Che denuncia e pone domande. Che ci scuote nel profondo.

la recensione è stata pubblicata nel 2009 su www.stradanove.net



 

lunedì 20 ottobre 2025

Yael van der Wouden, “L’estranea” ed. 2025

                                        Voci da mondi diversi. Paesi Bassi

la Storia nel romanzo

Yael van der Wouden, “L’estranea”

Ed. Garzanti, trad. Roberta Scarabelli, pagg. 256, Euro 17,10

 

   Anni ‘60 del secolo scorso. Un paesino nell’Olanda rurale. Una casa.

Isabel, ventisette anni, è la guardiana della casa. Ricorda quando- era bambina, c’era la guerra- lei era arrivata in questa casa comperata per loro dallo zio. Con lei c’erano la mamma e i due fratelli, fuggivano dalle bombe che cadevano su Amsterdam. Ricorda anche, confusamente, qualcosa che era successo poco dopo la fine della guerra. Una donna aveva bussato alla porta, la mamma l’aveva mandata via, la donna continuava ad urlare, fuori, nel giardino.

   Isabel ama questa casa in maniera possessiva. Quasi maniacale. Esegue ogni lavoro domestico quasi fosse un rito- tagliare il rabarbaro con le cesoie e metterlo in un cestino, spolverare e passare un panno umido sui piatti esposti nella vetrina, quelli bianchi e blu con delle lepri che si rincorrono in cerchio e che piacevano tanto alla mamma.


Isabel sa il numero esatto delle posate, dei bicchieri. Un giorno trova in giardino un frammento di un piatto, si intravvede una zampa della lepre- è vero, il servizio nella vetrina non è completo, chi lo aveva rotto? Quando era bambina avevano trovato nella soffitta una lepre di pezza in una scatola di giocattoli. La lepre era diventata la sua, ma a chi era appartenuta?

    Il romanzo di Yael van den Wouden- un’eccellente opera prima shortlisted per il Women’s Prize- è scandito in tre movimenti ed è nello stesso tempo un romanzo di formazione, un romanzo d’amore con un pizzico di mystery, un romanzo storico.

   La prima parte ci introduce al personaggio di Isabel, rigida e abitudinaria, una giovane donna che soffoca la sua femminilità, che respinge acidamente il vicino di casa che la corteggia. Più tardi di lei si dirà che neppure il miele avrebbe potuto addolcire quell’aceto. Insieme a lei conosciamo i suoi due fratelli- il minore, Hendrick, che vive con il suo compagno (era stato uno scandalo quando, ancora ragazzino, la madre aveva scoperto le sue inclinazioni sessuali) e il maggiore, Louis, un donnaiolo e il vero proprietario della casa tanto amata da Isabel.


Louis arriva con la sua ultima conquista, Eva, ed immediatamente questa diventa l’antagonista di Isabel, perché è il suo opposto. Eva è audace, sfrontata, estroversa. Isabel è alta ed Eva è piccola di statura. Isabel tiene i capelli castani raccolti, Eva ha capelli un poco crespi e malamente ossigenati. Con il beneplacito di Louis Eva si installa in quella che era stata la camera della madre di Isabel, il sancta sanctorum, e Isabel, furibonda, non riesce a smuoverla da lì.

La tensione è palpabile, è una guerra di silenzi, di sgarbatezze da parte di Isabel, di provocazioni che però Eva non raccoglie.

    Il secondo movimento, la parte centrale del libro, è rovente. Mentre scompaiono misteriosamente alcuni oggetti- un cucchiaio, un vaso, un tagliacarte- l’atmosfera tesa tra Isabel ed Eva, rimaste sole dopo che Louis si è allontanato per lavoro, si carica di un nuovo tipo di tensione. La scintilla che incendia la carica sessuale di Isabel era prevedibile.

     Il terzo movimento è quello della rivelazione e non è del tutto inaspettato. Dal diario di Eva apprendiamo che il suo cognome è de Haas- e Haas significa lepre in olandese- e, a frammenti, ci viene raccontato un pezzo di Storia in cui è la “casa” che diventa la protagonista, la casa e chi ci abitava prima abbandonandola contro la propria volontà. È la Storia parallela della Shoah, la privazione di tutto quello che si è costruito nella propria vita prima di perdere la vita stessa. La casa diventa il testimone del passato, contiene lei stessa la Storia, per chi la sa intendere la casa racconta la Storia con i piatti con le lepri, con il tagliacarte, con la menorah nascosta in cantina.


    Eva era riuscita a sapere il nome degli usurpatori e aveva elaborato un piano. Eppure, nonostante tutto, il finale è un finale catartico di speranza e di pace.

   Eleganza, delicatezza, un ritmo sostenuto, un passato da non dimenticare- tutto questo fa de “L’estranea” un ottimo romanzo.

Il titolo originale è “The safekeep”, un titolo di una triste amarezza: con il sentore del pericolo, illudendosi di ritornare, gli ebrei avevano spesso affidato ciò che più era loro caro o prezioso a dei vicini che avrebbero dovuto ‘safekeep’, ‘custodirli’ per loro. Anche questa era stata un’illusione.




mercoledì 15 ottobre 2025

Hwang Sŏk-Yŏng, “L’ospite” ed. 2006

                                                              Voci da mondi diversi. Corea

     guerra civile in Corea

     rilettura

Hwang Sŏk-Yŏng, “L’ospite”

Ed. Baldini Castoldi Dalai, trad. Ombretta Marchetti, pagg. 279, Euro 17,00

      Ci siamo abituati a vedere la guerra come spettacolo sullo schermo televisivo, ad essere aggiornati sulle notizie in tempo reale, a provare una forte e immediata reazione emotiva alle immagini e a dimenticarle subito dopo, incalzati da nuove tragedie umane. Abbiamo vissuto diversamente la guerra di Corea, negli anni ‘50, filtrata dalla lontananza e dall’estraneità. Per noi occidentali era la prima incrinatura nel fragile equilibrio dei due blocchi di potenze mondiali, lo spauracchio del comunismo che ci veniva agitato davanti agli occhi, come fosse il peggiore dei mali.

      I romanzi di Hwang Sŏk-Yŏng, nato nella Corea del Nord nel 1943, combattente suo malgrado in Vietnam, dissidente politico costretto all’esilio, arrestato e imprigionato per sette anni al suo ritorno a Seul nel 1993 ed ora docente universitario a Londra,  ci fanno rivivere quella guerra vista dall’interno come lotta tanto più crudele perché fratricida, tanto più difficile da dimenticare perché la morte arrivava da parte di chi si conosceva. Nel nome di un’ideologia politica o di un credo religioso: “Noi eravamo l’esercito di Cristo. Loro, i Rossi, erano i figli di Lucifero! I seguaci di Satana…Lo spirito divino era disceso su di noi.”, dice Yo-Han uno dei protagonisti de “L’ospite”, appena pubblicato da Baldini e Castoldi. 

Pyongyang

La vecchia nonna dei fratelli Yo-Han e Yo-Sop era solita dire che il paese sarebbe andato a catafascio se si fosse accolto un Dio venuto da altri luoghi- e il Dio dei cristiani è un ospite in Corea come lo è il Marxismo o l’esercito americano intervenuto nella guerra, come lo erano precedentemente i giapponesi che avevano occupato il paese. Sempre con un significato negativo, se l’ospite per antonomasia era il temutissimo vaiolo, come ricorda la nonna. Sono invece ospiti diversi Yo-Sop e gli altri esuli coreani “invitati” a tornare in patria per un ricongiungimento con le loro famiglie. E così, sotto una pioggia grigia che lava le colpe e intristisce gli animi, Yo-Sop compie il viaggio di ritorno al villaggio che ha lasciato mezzo secolo prima, ascoltando le testimonianze dei vivi e dei morti.


     E’ pieno di voci, il romanzo di Sok-Yong, e a volte è difficile distinguere se la voce che ascoltiamo arrivi da questo mondo o dall’aldilà, se appartenga a uno dei fantasmi, ombre di ospiti che si aggirano già nel New Jersey prima che Yo-Sop parta, a inquietare suo fratello Yo-Han che muore all’improvviso. Un fantasma in più che si aggiunge alle altre ombre senza pace che rievocano i giorni della carneficina, degli stupri, della violenza indiscriminata, da parte di coloro che si schieravano con l’arcangelo Michele o dei Rossi o degli yankee. Il senso di colpa pervade il romanzo di Sok-Yong, condiviso da chi si è macchiato le mani di sangue e dai figli che avvertono in certo qual modo di dover espiare le colpe dei padri, da chi si è allontanato dal paese sperando di dimenticare e da chi è rimasto con la volontà di ricostruire.

Seoul

Perché, a Yo-Sop che gli dice, “Ma né voi né io siamo stati implicati in quei massacri”, il saggio zio risponde, “Ma chi può negare in situazioni del genere, di avere la sua parte di responsabilità?”. 

    E tuttavia il tempo medica tutto, risana le ferite, è ora di dar pace ai fantasmi- è questo è il significato dell’atto ultimo di Yo Sop prima di ripartire, seppellire l’osso prelevato dalle ceneri del fratello e dare fuoco all’indumento con cui questi aveva avvolto il figlio. Come in un rito sciamanico per allontanare il vaiolo, per acquietare gli spiriti dei defunti.

la recensione è stata pubblicata nel 2006 su www.stradanove.it



martedì 14 ottobre 2025

Henning Mankell, “Il folle” ed. 2025

                                                            vento del Nord      

    noir

Henning Mankell, “Il folle”

Ed. Marsilio, trad A. Borini, pagg.469, Euro 21,00

 

    E’ un’emozione, ritrovare il nome di Mankell, il mitico Mankell, sulla copertina di un suo libro mai pubblicato in traduzione. Perché “Il folle” è stato scritto e pubblicato nel 1977, quando Mankell aveva ventinove anni. E Mankell ventinovenne- ce ne accorgiamo subito- era già MANKELL. “Il folle” è un romanzo potente, impegnato, neramente realista, infinitamente triste, della tristezza dello scoraggiamento.

    Bertil Kras arriva da Stoccolma nel Norrland nel 1947, e questa è la sua storia, o meglio, la sua e di quelli che, nell’arco di cinque anni, ‘lo hanno fatto a pezzi e annientato’. Perché? Perché era un estraneo, perché era comunista, perché era il perfetto capro espiatorio.

1947, solo due anni dopo la fine della guerra. Bertil non lo sapeva e la gente, poi, preferisce dimenticare e rimuovere un passato ingombrante, ma cinque anni prima alcuni di quel paese- guarda caso, quelli che se la prenderanno con Bertil- avevano mandato in regalo, e con gli auguri per un futuro di successo, dei palchi di renna all’ambasciata tedesca.


Bertil non lo sapeva, ma, nel 1940, il commissario di polizia tuttora in carica aveva ricevuto dal comando militare l’ordine di arrestare  alcune persone, tutti comunisti, e rinchiuderli in un campo di prigionia di cui era stata distrutta ogni traccia alla fine della guerra. Adesso però gli ex deportati pensano sia arrivato il momento di parlare- è come una scossa di terremoto per chi era coinvolto.

    Il paese è piccolo, le voci corrono veloci, si deve pure addossare a qualcuno la colpa di rimestare nel torbido. Succede poi che la segheria in cui Bertil ha trovato lavoro viene distrutta da un incendio. Doloso. Qualcuno ha visto Bertil camminare nel gelo, quella notte- certo, gli si era rotta la piccola automobile con cui tornava dalla pesca, ma ciò non toglie che è facile additarlo come ‘il piromane’. Ci sarà qualcuno che vorrà fargliela pagare di persona, e in maniera vigliacca, colpendolo alle spalle o in un’occasione quando Bertil pensava di essere tra amici, eppure nessuna indagine verrà fatta.


    Un commissario di polizia inefficiente e pavido, dei ‘compagni’ che temono di esporsi, la donna che ama e da cui è riamato che non sopporta più la tensione e teme che la sua bambina (Bertil la ama come fosse sua figlia) possa in futuro risentire dell’atmosfera di sospetto che circonda Bertil, tutti lo abbandonano. Bertil resta solo, e come può reagire un uomo se non compiendo un gesto distruttivo da folle?

     Gli anni ’50. Terribili quegli anni ’50, ovunque. Per l’oscurantismo, la paranoia, l’accanimento con cui ci si perseguiva il pericolo rosso. Avevamo in mente la ‘caccia alle streghe’ del senatore McCarthy in America, ma Mankell, con la sua apertura mentale, la sua empatia, la sua sensibilità al tema politico e sociale, accende il riflettore sulla Svezia che tanto si è fatta vanto della sua neutralità. E ci colpisce quanto sia attuale il suo romanzo, o forse ci rattrista constatare quanto niente sia cambiato nonostante i cambiamenti del mondo. Ci può essere qualcosa di più sconfortante della riflessione del commissario di polizia quando lucidamente si rende conto che il suo compito non è quello di proteggere i cittadini, anzi, lui deve fare il cane da guardia, sorvegliare che i cittadini non aprano il recinto, non si spingano dove si esercitano la giustizia e il potere. E anche quella di Bertil è saggezza nella follia come nella tragedia scespiriana.


     Sullo sfondo il paesaggio della Svezia del Nord con temperature che arrivano a 24 sotto zero- un gelo che diventa metaforico, simbolo dell’animo imprigionato nel ghiaccio, così come l’incendio distruttore è un inutile tentativo di fare luce sui segreti del passato.

    Mai perdersi un romanzo di Henning Mankell.



venerdì 10 ottobre 2025

Tania Branigan, “Memoria rossa” ed. 2025

                                                            Voci da mondi diversi. Cina

            testimonianze

Tania Branigan, “Memoria rossa”

Ed. Iperborea, trad. Silvia Rota Sperti, pagg.275, Euro 19.50

 

     Ricordare e dimenticare- sono due ammonimenti che appaiono in un esergo di “Memoria rossa” di Tania Branigan, giornalista del “Guardian”, un libro ‘bello e illuminante’ secondo la definizione di Margaret Atwood. Ed è veramente ‘bello’ perché ben scritto, in maniera appassionante in un’alternanza di osservazioni personali della scrittrice stessa che ha vissuto sette anni in Cina, testimonianze a viva voce di chi, in un modo o nell’altro, ha preso parte alla Rivoluzione Culturale, ricostruzione storica di quegli anni, ‘illuminante’ per l’apporto che dà alla nostra conoscenza degli avvenimenti di quell’epoca.

     Un inizio visivo- Tania Branigan ci porta alla mostra di un centinaio di dipinti dell’artista Xu Weixin. Ogni volto di quei grandi quadri apparteneva a qualcuno che aveva avuto parte alla follia collettiva che era stata la Rivoluzione culturale, come vittima o come carnefice, spesso entrambe le cose. E la prima storia che ascoltiamo è quella di una giovane donna che non ha mai conosciuto suo padre, un ‘giovane istruito’ di 27 anni che era stato sequestrato dalle Guardie Rosse per un commento che aveva fatto, era riuscito a fuggire e si era buttato sotto un treno. Sua madre, la nonna della donna che racconta, si era uccisa trent’anni dopo. È una storia emblematica, per la colpa irrisoria di cui il giovane si era macchiato, per la disperazione che gli aveva fatto preferire togliersi la vita, per le ripercussioni lontane nel tempo di questa tragedia familiare.

Xu Weixin

   È impossibile capire la Cina di oggi (questa la tesi del libro) senza capire la Rivoluzione Culturale, senza approfondire ciò che accadde in quei dieci anni, a partire dal 1966, di odio e di violenza che spazzarono via la cultura, uccidendo leader e intellettuali. Se lo scopo iniziale era stato realizzare la perfetta società comunista, si erano poi sovrapposti rancori e ambizioni personali. Per certi versi quanto accadde in Cina può assomigliare ai genocidi del secolo XX o alle purghe staliniane, MA c’era un enorme differenza- prima di tutto l’entusiastica partecipazione di massa e poi si uccidevano amici e famigliari. Le ‘truppe d’assalto’ di Mao erano costituite dai giovani, spesso giovanissimi, cinesi. Il fanatismo delle Guardie Rosse è una caratteristica giovanile- chi è stato intervistato da Tania Branigan ha detto che era ‘divertente’ impazzare per le strade di Pechino attaccando la vecchia cultura secondo gli ordini di Mao, distruggendo templi, libri, abiti tradizionali. C’era un’esaltazione di libertà, senza scuola, senza regole. Lo dice Yu, la ragazzina che appare in un dipinto. Aveva tredici anni, lei, come gli altri studenti, erano innocenti arruolati in una guerra che non potevano capire.


Soffermiamoci su questo dettaglio- fino ad ora le uccisioni erano state fatte da eserciti, da criminali, durante la Rivoluzione Culturale erano le Guardie Rosse ad uccidere (alcuni racconti, come l’uccisione della professoressa Bian, picchiata a morte dalle sue alunne, sono raccapriccianti), erano adolescenti, studenti. Questa sarebbe diventata ‘la Generazione Perduta’, e leggiamo i racconti (ricordi tormentati) di quelli che, quando Mao riprese in mano la situazione, furono mandati nelle campagne per essere ‘rieducati’ dai contadini che avrebbero insegnato loro a vivere di niente- e parliamo di milioni di ragazzini che spesso si allontanavano per la prima volta da casa, molti di loro morirono di polmonite, di malaria, di stenti.
Xi Jinping

Anche Xi Jinping fu uno dei Giovani Istruiti che visse per sette anni in una casa-grotta nel nord-ovest della Cina, prima di poter tornare a Pechino nel 1975, quando le università furono riaperte.

    Eppure, eppure, nonostante tutto, forse proprio perché non c’è stata una rielaborazione della Storia, forse perché tutti hanno ritenuto meglio tacere, la scrittrice nota una strisciante nostalgia, un ritorno di alcuni modelli. Sul lato scherzoso osserva con stupore l’attrattiva che hanno gli imitatori di Mao o di Lin Biao, chiamati a presenziare feste o raduni, su quello più serio vede come Xi Jinping abbia imposto un livello di controllo straordinario, limitando le libertà che erano state conquistate- le conversazioni tra amici sono sorvegliate, così come le chat sui social, la gente è incoraggiata a spiare i vicini, dai manuali di storia è scomparso l’avvertimento di Deng Xiaopin contro il governo di un solo uomo. Il tutto è molto allarmante.

Lin Biao

   Per concludere questo esame della Cina di ieri che non può non riflettersi in quella di oggi, c’è un certo sconforto da parte di Tania Branigan nel constatare quanto da più parti le è stato detto- la minaccia più grande per la società è il declino morale, la perdita di senso della giustizia: quella di oggi è una società eticamente vuota.

     Da leggere.



   

martedì 7 ottobre 2025

Nini Wiedemann, "Al di là delle frontiere" ed.2004

                                                                           Casa Nostra. Qui Italia

                                                         seconda guerra mondiale

             love story

INTERVISTA A Nini Wiedemann, autrice di “Al di là delle frontiere”

Ed. Tropea, pagg. 217, Euro 15,00

 

Ha due sottotitoli, il romanzo “Al di là delle frontiere” di Nini Wiedemann di cui abbiamo visto di recente l’adattamento cinematografico in televisione con l’interpretazione di Sabrina Ferilli: “Una storia d’amore e di guerra” e “Una storia vera”. E così questa storia, che avrebbe gli elementi per essere un romantico feuilleton, acquista tutto un altro significato e un altro valore, come storia d’amore che supera le barriere, quelle geografiche di due paesi, Italia e Germania, prima alleati e poi nemici, quelle delle incomprensioni degli altri, quelle delle difficoltà oggettive e logistiche. Per concludersi bene- e se non fosse “una storia vera”, come dimostra anche il cognome tedesco della scrittrice, non potremmo perdonare un finale così rosa da sembrare impossibile. Il nome da ragazza di Nini Wiedemann è Angela Ghiglino e abitava con la famiglia a Pietra Ligure quando incontrò il capitano Hans Wiedemann, del comando tedesco di Albenga. Era già il quarto anno di guerra, dopo l’8 settembre gli uomini di casa si erano rifugiati sulle montagne e ad Angela, sospettata di aiutarli, era arrivato un mandato d’arresto da parte del federale di Savona. Si era salvata accettando il lavoro che degli amici le avevano procurato, come interprete del capitano Wiedemann.


La cosa più difficile, per Angela, è dissociare l’immagine del tedesco, che è il nemico, da quella dell’uomo sensibile, gentile e colto che si trova a combattere una guerra di cui ha orrore e vergogna. In un racconto in terza persona che cerca di evitare le trappole dell’emozione, Nini Wiedemann ricorda le tappe dell’attrazione e poi dell’amore che diventa per entrambi una difesa contro lo scempio della guerra- gli inglesi bombardano Pietra Ligure, Hans Wiedemann riceve l’ordine di recarsi a Montecassino e Angela lo segue. Lo seguirà anche nella ritirata lungo la penisola, difesa con rozza tenerezza dall’attendente siberiano di Hans, su fino al Veneto, dove i tedeschi minano la laguna per fermare l’avanzata degli alleati. E sarà qui che il ruolo di Angela acquisterà un’importanza nazionale, ma Hans non è il debole che agisce per amore di una donna. Hans è l’uomo che ha il coraggio di riconoscere il valore della disobbedienza a cui niente nella sua formazione lo ha preparato, che c’è la libertà di disobbedire a un ordine assurdo e folle.  Firmerà la resa, dando l’ordine di liberare i campi minati e consegnandosi prigioniero insieme a i suoi uomini. Stilos ha incontrato la signora Wiedemann a Pietra Ligure, dove vive di nuovo da una quindicina di anni, per parlare con lei della sua straordinaria storia d’amore durante la guerra.

 Sono passati 60 anni dai fatti che Lei racconta, come mai viene pubblicato solo ora il libro sulla sua storia?

    Perché sono stata in Germania per quarant’anni, avevo iniziato a scrivere il libro in tedesco, poi ho capito che non andava bene: parlo il tedesco, ma non ho mai studiato la grammatica e ho deciso che il libro doveva essere scritto in italiano. L’idea di scrivere il libro mi era venuta perché volevo lasciare a mio figlio un ricordo, volevo che sapesse che cosa suo padre ed io avevamo fatto. Mio marito Hans Wiedemann è morto in un incidente d’auto nel 1964 e io sono tornata a vivere in Italia alla fine degli anni ‘80. Ho scritto il libro e lo feci pubblicare in poche copie, per mio figlio e degli amici, dalla Loggia dei Lanzi di Firenze. E’ stato il conte Vianelli, di cui parlo nel libro e con cui sono rimasta in contatto, che ne ha parlato con un giornalista del Gazzettino di Venezia e da lì si è messo in moto tutto quanto: sono stata contattata da un giornalista di Roma, sono stata intervistata in televisione per la ricorrenza del 25 aprile del 1998, e poi c’è stato il film e ora l’edizione del libro pubblicato da Tropea.

 Lei ha dei ricordi molto precisi di quegli anni: ha fatto delle ricerche per controllare le date e gli avvenimenti degli anni di guerra?

     Sì, i fatti li conoscevo, però ho fatto ricerche sui libri di storia, sono stata aiutata da un professore di storia di Ceriale e anche il generale La Penta di Torino mi ha fornito informazioni e date sulla guerra. Ho anche telefonato al sindaco di Cavarzere, dove mio marito aveva firmato la resa, per avere la copia di quel documento, e sono stata invitata a Chioggia dove ero già stata ospite del vescovo per un mese dopo la liberazione, quando mio marito è partito per la prigionia e per me era troppo pericoloso ritornare in Liguria senza una scorta.

 Perché ha scelto di raccontare la sua storia in terza persona?

    Perché mi pareva di autoglorificarmi, se avessi scritto in prima persona. Non volevo adularmi. Parlavo di fatti che forse mi facevano onore e per modestia preferivo parlare in terza persona: non è nella mia natura mettermi in mostra e io sono rimasta quella di sempre.


 Non si parla mai della Liguria degli anni di guerra, soprattutto della Liguria di Ponente. Eppure so che sono stati tempi durissimi, che non c’era niente da mangiare.

      E’ vero che sono stati tempi durissimi e che non c’era niente da mangiare. Noi eravamo una famiglia di gioiellieri e avevamo la possibilità di portare dell’oro ai contadini in cambio di qualcosa da mangiare, ma c’era proprio poco. Si faceva la fame, neanche con i buoni si riusciva ad avere qualcosa. E bisognava cercare di far arrivare del cibo anche ai partigiani sulle montagne, mio fratello, mio cugino, dei nostri amici erano con i partigiani. E abbiamo anche subito dei bombardamenti: Pietra Ligure è stata distrutta dal bombardamento di cui parlo nel libro. Infatti le riprese del film sono state girate in Romagna, perché qui c’è troppo cemento, tutto è stato ricostruito.


 Che cosa è stato più difficile per lei? La lotta interna per accettare questo amore o farlo accettare agli altri?

    Entrambe le cose hanno suscitato contrasti fortissimi in me. Per tradizione il tedesco era il nemico. Quando ero bambina, mia nonna mi diceva: “ se non stai buona chiamo i prussiani.” Non amavo i tedeschi. Poi, nel viaggio in treno da Roma verso casa dopo l’8 di settembre, ho visto sparare a un ragazzo, ho assistito alla violenza dei tedeschi. Ho combattuto questo amore, e anche mia madre mi diceva, “è impossibile, non puoi amare un tedesco”. Io provavo rancore nei suoi confronti, neppure io sarei voluta andare a lavorare come interprete al comando tedesco, ma l’alternativa era finire nelle prigioni politiche di Savona. Eppure mi sono innamorata. Perché Hans era un uomo magnanimo, generoso, neutrale, non aveva niente contro il popolo italiano. Quando l’ho conosciuto bene, mi sono resa conto che era un uomo meraviglioso, con dei valori che non credevo i tedeschi potessero avere. Quello che all’inizio era un sentimento di attrazione si è trasformato in un grande amore. Però c’erano gli altri: non venivo accettata, vedevo il disgusto, l’ira negli occhi degli altri. Quando le case venivano requisite e io entravo sorridendo e cercando un contatto con loro, loro giravano la testa dall’altra parte. Ne ho sofferto molto e ho cercato in tutti i modi di aiutarli perché capissero che non li avevo mai traditi. Non potevo sopportare questo disprezzo, io non avevo mai tradito. Sì, mi ero salvata e mi ero innamorata, ma non avevo mai tradito la mia gente.

 L’hanno capita nella sua famiglia?

      Mia madre non voleva neppure che facessi l’interprete. “Allora vado in prigione”, le ho detto. Ma quando sono venuti i fascisti per arrestarmi, è stata lei stessa a mostrare il documento in cui risultava che lavoravo per il comando tedesco. Da allora piano piano ha capito. Io ho nascosto a mia madre il mio amore per Hans, ma lei se n’è accorta. Era mia madre e sapeva leggere le mie espressioni- mi ha detto, “ti sei innamorata”, e io ho risposto, “sì”, non potevo mentire. Ha pianto  e mi ha detto, “capisco il tuo amore, ma per noi è inaccettabile. Lo capisco e sei mia figlia.” Anche per lei è stata una tremenda lotta interiore. Temevo che mia sorella e mio fratello non mi avrebbero più voluto vedere, e per un po’ è stato così. Mia sorella era incinta e io ho detto a Hans che volevo esserle d’aiuto e portarle da mangiare: Hans ha organizzato tutto lui, anche se per lui era rischiosissimo. Ha fatto riempire un camioncino, guidava il suo attendente russo, abbiamo detto che andavamo a procurarci frutta e verdura dai contadini nell’entroterra e poi abbiamo lasciato dai contadini i viveri per i partigiani.


 Ci saranno stati molti momenti in cui ha avuto paura, quali sono stati i peggiori?

     Ho sempre avuto paura, ma volevo stare con Hans: se moriva lui al fronte, morivo anch’io. Il momento peggiore è stato quando gli inglesi hanno attaccato durante la pausa, vicino alla casamatta- io ero fuori che mangiavo una mela acerba, avevo fame. Vicino a me c’era il tenente Schmidt che è stato sventrato. Io sono stata ferita da una scheggia ma ero ricoperta dalle budella del tenente e sono svenuta, più che per il male, per la paura e per lo shock di quel momento.

 Ho trovato molto bello il personaggio del russo Ivan che le faceva da scorta.

    Era un uomo speciale, un burbero buono. Era un siberiano mastodontico, sembrava un orso che ringhiava, ma aveva un cuore d’oro, aveva la dolcezza negli occhi. Anche quando gridava e io gli dicevo, “ma perché fa così, Ivan?”, i suoi occhi ridevano. Gli alleati non hanno rispettato gli accordi presi con mio marito, e i russi del suo battaglione, compreso Ivan, sono stati consegnati a Stalin- saranno morti tutti.


 E dopo? So che è un’altra storia, ma che cosa è successo dopo?

     Si intitola proprio così il libro che sto finendo in questi giorni: “E dopo…e dopo”. Dirò solo che dopo continua la mia ricerca di Hans che è stato mandato in un campo di prigionia ad Alessandria d’Egitto, è stato liberato quasi subito ed è andato a Francoforte, ma non poteva muoversi di lì. Ci siamo rincontrati nel 1946.


L'intervista e la recensione sono state fatte nel 2004 e sono state pubblicate sulla rivista letteraria "Stilos".

Le fotografie sono tratte dal film