domenica 15 settembre 2024

Camille de Peretti, “La sconosciuta del ritratto” ed. 2024

                                                           Voci da mondi diversi. Francia



Camille de Peretti, “La sconosciuta del ritratto”

Ed. e/o, trad. Alberto Bracci Testasecca, pagg. 304, Euro 11,99

     Un volto affascinante in un quadro di Klimt che ha, dietro di sé, una storia intrigante. Un soggetto perfetto per uno scrittore, un’opportunità per ricamarci sopra, per esercitare il suo diritto di immaginare, di inventare, di creare un personaggio. Ed ecco il romanzo “La sconosciuta del ritratto” della scrittrice francese Camille De Peretti, vincitore del prestigioso Prix Maison de la Presse 2024.

    Backfisch (singolare questo vocabolo tedesco che significa sia ‘pesce da friggere’ sia ‘giovane ragazza’), era il titolo del quadro di Klimt, dipinto nel 1910 e poi scomparso. Raffigurava il viso di una femme fatale, girato di tre quarti, con l’incarnato chiarissimo, lo sguardo azzurrino, una sciarpa attorno al collo e un grande cappello nero in testa. Nel 1917 Klimt aveva dipinto lo stesso viso, nella stessa posizione, lo stesso incarnato, gli stessi occhi azzurri ma con i capelli raccolti in uno chignon e il boa intorno al collo era sostituito da uno scialle bianco disseminato di fiori. C’era aria di primavera in questo quadro acquistato dal Museo d’arte moderna Ricci Oddi di Piacenza da cui fu rubato nel 1997. Il quadro riapparve, poi, a distanza di 22 anni, nel 2019- e qui la vicenda si tinge di giallo, diventa un mystery, perché fu ritrovato da un giardiniere, durante dei lavori, dentro un sacco della spazzatura in una rientranza chiusa da una botola (ricordiamo tutti di aver letto la notizia sui giornali ed aver esultato, come sempre accade quando riappare un’opera d’arte). Ma il mystery non si ferma qui. Tra lo sconcerto degli esperti e degli storici dell’arte, fu una studentessa dell’istituto d’arte, Claudia Maga, a scoprire che c’era un altro dipinto sotto il ritratto della donna con lo scialle fiorito, che Klimt aveva rimaneggiato il quadro precedente della ragazza con il cappello nero. Le domande incalzano: perché Klimt lo aveva fatto, lui che non aveva mai messo mano una seconda volta per modificare un suo dipinto? E soprattutto, chi era la misteriosa modella che compariva solo in questo quadro? E Camille De Peretti incomincia a dipingere la sua tela.


    Dal primo decennio del 1900, in Austria, dove la giovane  e bella Martha viene assunta dalla ricca famiglia Brombeere nella elegante casa di Vienna per tenere lontano il rampollo Franz dal frequentare donne di piacere, a New York con l’intraprendente Isidore (che nome singolare, come il poeta francese Lautréamont, pseudonimo di Isidore Ducasse), immigrato senza arte né parte che aveva saputo costruirsi una fortuna e conquistare la ragazza di ottima famiglia di cui si era innamorato a prima vista, e poi a Houston, in Texas, dove vive Pearl dall’incarnato di perla e un viso che è sorprendentemente uguale a quello della sconosciuta del ritratto di Klimt.

    Anche se il finale non ci convince appieno, il romanzo di Camille De Peretti è un affresco affascinante di un tempo scomparso, della vecchia Europa in declino e della nuova America dalle mille possibilità, di fortune alterne, miseria e ricchezza, della Grande Depressione da cui pochi si sono salvati, una saga familiare con segreti mai detti che devono, però, venire alla luce alla fine, una storia di peccati ‘maschili’ al di qua e al di là dell’Atlantico, di legami che si rivelano più forti di quanto si pensasse, perché è vero che il sangue non è acqua.


È un libro appassionante che crea una storia dal nulla, partendo dalla fine e risalendo all’inizio, dando una voce alla donna del ritratto, anzi, alle due donne- quella dallo sguardo fatale con il cappello in testa e quella che sembra più giovane, meno esperta della vita, con l’aria di primavera che le dà lo scialle fiorito.



   

giovedì 12 settembre 2024

Diego Alverà, “Solo. Walter Bonatti dal K2 al Dru” ed. 2024

                                                                    Casa Nostra. Qui Italia



Diego Alverà, “Solo. Walter Bonatti dal K2 al Dru

Ed. 66thand2nd, pagg. 192, Euro 17,00

 

   1954 e 1955. Due estati, due date, 31 luglio e 21 agosto, due montagne, due bellissimi giganti- 8.611 metri il K2 e 3754 il pinnacolo del Dru, un ago di roccia che perfora il cielo-, due imprese che hanno segnato la vita di Walter Bonatti, giovanissimo all’epoca di queste scalate (era nato a Bergamo nel 1930).

Walter Bonatti aveva affrontato la scalata del Dru, nella parte settentrionale del Monte Bianco, come una sorta di rivincita- su se stesso, prima di tutto- dopo l’esperienza per più di un verso traumatizzante dell’anno prima sul Karakorum. E il libro di Diego Alverà a lui dedicato inizia proprio da quella grande avventura che sarebbe diventata una frustrante avventura in cui Walter aveva sfiorato la morte ma di cui, per impegno preso, non poteva parlare. Bonatti è il protagonista ideale per Alverà il cui intento è raccontare “storie grandi e piccole strappandole all’oblio e restituendole al presente, affinché ci aiutino a riflettere, pensare e comprendere…Narro i percorsi e le traiettorie di chi ha infranto schemi, di chi ha creduto nella sua personale visione violando spesso convinzioni comuni…”. Ecco, Bonatti era proprio così, Bonatti infrangeva gli schemi, credeva nella sua visione, si sentiva ed era fuori posto fra gli altri scalatori. A lui non importava piantare una bandiera su una vetta, una montagna è di tutti, non ha senso rivendicarla, così come non ha senso usare l’espressione ‘conquistare’ una montagna. Per lui scalare era un’esigenza interiore, era un modo per mettersi alla prova, per superare se stesso. Certo, era pieno di orgoglio ed entusiasta quando era stato scelto per l’impresa del K2. Erano gli anni della rinascita dopo la guerra, la fine disastrosa della seconda spedizione di Nobile al Polo Nord con il dirigibile Italia era ancora presente nella memoria di tutti, ci voleva un’impresa per  risollevare il nome dell’Italia macchiato dalle vicende belliche.


    Walter Bonatti, più giovane degli altri partecipanti, con il suo fisico robusto, con quel carattere schietto ed entusiasta, era sottilmente invidiato da tutti. Leggerete nella ricostruzione di Alverà quello che successe vicino alla cima del K2 che sarà raggiunta il 31 luglio da Achille Compagnoni e Lino Lacedelli. Qui importa ricordare la notte all’addiaccio, a 50 gradi sotto zero, di Walter e di Amir Mahdi. Quest’ultimo dovette subire degli interventi di amputazione per arti congelati, ma quello che più ferì Bonatti fu la malafede dei due ‘conquistatori’ e del professore Desio che guidava la spedizione. Eppure, con grande dignità, tacque, perché questo era l’impegno preso prima della partenza- ci sarebbero voluti 54 anni perché la verità fosse riconosciuta.

     Quella notte in piedi su un gradino nella roccia aveva insegnato molto a Walter Bonatti. A trovare la forza interiore per indurire il suo corpo, per resistere, e poi, purtroppo (è il caso di dirlo), a fidarsi solo di se stesso.

    L’anno seguente Walter avrebbe affrontato da solo quel monte la cui bellezza toglieva il respiro, il Dru dalle pareti verticali a cui ogni appiglio pareva impossibile.


   Alverà ha la capacità di farci arrampicare con l’alpinista, ci rende partecipe dei momenti di dubbio (mai di paura, Walter è sereno e lucido, altrimenti non potrebbe farcela) quando ogni via di ascesa sembra preclusa, ci fa sentire il fragore del lastrone di roccia che precipita, ci fa stringere i denti quando Walter si ferisce, esultare quando trova il modo per avanzare là dove non si può piantare nessun chiodo, ci fa toccare il cielo con lui.

  Ha qualcosa dell’eroe, Walter Bonatti. Non per quello che ha fatto, non per le cime che ha raggiunto, ma per lo spirito con qui ha compiuto queste imprese, per la lezione di vita che ci ha impartito che si riassume nelle parole rivolte al futuro scrittore che lo conobbe quando era bambino: “Non è poi così importante scalare. La cosa importante è vivere fino in fondo le proprie passioni, qualsiasi esse siano. Perché la montagna più alta e difficile è sempre quella che ci portiamo dentro”.



martedì 10 settembre 2024

Tan Twan Eng, “Il dono della pioggia” ed. 2024

                                                          Voci da mondi diversi. Malesia

seconda guerra mondiale

romanzo di formazione

Tan Twan Eng, “Il dono della pioggia”

Ed. Neri Pozza, trad. Chiara Vatteroni, pagg. 496  , Euro 20,90

 

    Era stata un’indovina a dire a Philip Hutton che lui aveva il dono della pioggia. Che cosa voleva dire nell’isola di Penang, in Malesia, avere il dono della pioggia? I monsoni portavano con regolarità la pioggia e tutta quell’acqua era nello stesso tempo una benedizione e una maledizione. La pioggia portava fertilità del terreno, rendeva lussureggiante la foresta mentre tamburellava sulle foglie iridescenti. Poteva però portare alluvioni e malattie, con le acque di scolo che trascinavano immondizie e animali morti. Nel futuro di Philip c’era anche che avrebbe causato la rovina di entrambe le famiglie a cui apparteneva.

    Philip ha sedici anni nel 1939, quando tutto inizia, quando inizia il racconto della sua vita- e ormai è anziano- ad una donna giapponese che è venuta a cercarlo per portargli una lettera che arriva da un tempo remoto, scritta da Hayata Endo, che la donna aveva amato e che era stato il sensei di Philip, il suo maestro di aikido, l’amico che gli aveva insegnato la cultura giapponese, che forse era stato per lui anche più di un amico, nonostante tutto quello che era successo, nonostante avesse spaccato in due il senso di lealtà di Philip quando i giapponesi avevano occupato la Malesia.


   La voce narrante dominante è quella di Philip, figlio di un inglese la cui famiglia si era stabilita dalla precedente generazione a Penang, arricchendosi con le miniere e la coltivazione della gomma, e di una cinese che aveva sposato giovanissima suo padre, già vedovo, e aveva fatto da madre agli altri tre figli di lui prima di morire di malaria quando lui era piccolo. Ma è la voce di Endo-san che racconta a Philip della sua vita prima di arrivare a Penang, pur non dicendogli tutto, è la donna giapponese a raccontare la sua, di vita, (sta morendo lentamente adesso, vittima delle conseguenze della bomba di Hiroshima), è il nonno cinese che aveva troncato ogni rapporto con la figlia che aveva sposato uno straniero a dirci di sé. Un romanzo ricchissimo, dunque, di voci, di storie, di testimonianze. Un romanzo la cui trama potrebbe essere quella di una tragedia con il protagonista che, proprio perché si sente un estraneo nella sua famiglia, proprio perché si sente ugualmente escluso dalla comunità cinese, proprio perché si sente un alieno quando coglie gli sguardi perplessi di chi non sa quale appartenenza attribuirgli, si sente così attratto dal giapponese che ha preso in affitto l’isola da suo padre e gli chiede in prestito una barca per raggiungerla. Philip deve molto a Endo-san- la disciplina dell’arte marziale che gli insegna a padroneggiare è mentale oltre che fisica, rende Philip sicuro di sé, lo trasforma in una maniera sottile che lo rende un ragazzo del tutto diverso. E però Philip non si accorge che il suo amato Endo-san ha anche un altro scopo nel coltivare la sua amicizia, che non sono solo le bellezze di Penang di cui è in cerca, durante le loro escursioni. A nulla valgono le parole del padre che lo mettono in guardia, anzi, forse ottengono l’effetto contrario. E, quando scoprirà il tradimento di Endo-san, il dolore e la delusione saranno atroci.


    I giapponesi occupano la Malesia nel 1941. Nessuno se lo aspettava. Lo stupro di Nanchino ha mostrato l’efferatezza giapponese, non saranno da meno in Malesia. E infatti…Philip Hutton si trova a dover prendere delle decisioni, con chi schierarsi per salvare la sua famiglia. Di lui diranno che è un traditore, finirà per essere un traditore di ambo le parti, lui che è stato tradito per primo.


   “Il dono della pioggia” non è un libro facile, non è un libro per tutti. È un libro bellissimo che non lascia indifferenti. È un capitolo della storia del secolo XX che ci porta sul palcoscenico della guerra in estremo Oriente, è un romanzo di formazione singolare con dure prove da sostenere per il ragazzo che diventa uomo in anni difficili in cui scegliere può significare la morte di qualcuno, un romanzo sulla ricerca di identità, sulla lealtà e sul tradimento, su legami tra fratelli e tra padre e figli (bellissima la figura di Noel Hutton, l’uomo la cui integrità morale merita il rispetto di malesi, cinesi e della sua stessa famiglia), sul fascino che sconfina nel plagio dell’insegnante di valore. Questo è un romanzo complesso e pieno di sfumature a cui continueremo a pensare a lungo dopo averlo terminato. Così come continueremo a pensare alla casa con le bianche colonne degli Hutton- Istana, un nome che significa ‘palazzo’-, una delle tante case con un’anima dei romanzi di lingua inglese, simbolo di uno splendore e di un tempo destinato a scomparire.



 

 

venerdì 6 settembre 2024

Petros Markaris, “La violenza dei vinti” ed. 2024

                                                  Voci da mondi diversi. Grecia

cento sfumature di giallo

Petros Markaris, “La violenza dei vinti”

Ed. La Nave di Teseo, trad. A. Di Gregorio, pagg. 304, Euro 19,00

 

    Ad Atene sembra essere tornati al 1973 quando, a seguito della protesta degli studenti universitari contro la Giunta Militare, il 17 novembre un carro armato si schiantò contro i cancelli del Politecnico. Lo scontro degli studenti di adesso è fra i due rami di studio- quello delle materie tecnico scientifiche e quello delle materie umanistiche. L’economia della Grecia si sta risollevando, aziende straniere portano capitali e intendono investire in attività locali, il pensiero corrente è- a che cosa serve lo studio della filosofia, della storia, della letteratura in questo nuovo mondo che richiede altre competenze? Servono laureati in economia, in informatica, in matematica, nelle discipline scientifiche. A chi sostiene questa tesi è difficile far capire non solo l’arricchimento ma anche la capacità di riflessione, di approfondimento, di comprensione che gli studi umanistici possono dare.


    Il commissario Kosta Charitos e il suo aiuto, il sostituto vicecommissario Antigone, si trovano a dover risolvere un caso difficile. Un professore universitario di Matematica viene ucciso nel suo ufficio proprio durante la manifestazione studentesca- era altezzoso e scostante, erano in tanti ad odiarlo, era difficile che acconsentisse a fare da relatore per una tesi. Dopo di lui è la volta del segretario del Ministro dell’ Istruzione, incaricato di elaborare la proposta di una riforma dei programmi dei licei volta a ridurre drasticamente le ore delle materie umanistiche a favore di quelle scientifiche. Una morte ingiusta e inutile. Gli assassini non sapevano che il segretario aveva dovuto accettare un incarico che non voleva, per fare qualcosa che era contro quello in cui credeva. I morti non finiscono qui, ma- hanno tutti la stessa matrice questi assassinii? Parrebbe di no, quando sono gli interessi delle aziende ad essere toccati…


    Il titolo di questo romanzo potrebbe essere “Delitto in Università” e invece allude a una seconda traccia della trama- il bullismo e le sue conseguenze, un tema che faceva da sfondo anche ad un ‘giallo’ italiano letto di recente, di Cocco e Magella. Questo tema, così come quello principale- la querelle tra studi scientifici e studi umanistici- e l’altro ancora- l’ingerenza dei genitori nella scuola (sempre in difesa dei figli), sono l’attrattiva di un romanzo la cui trama è peraltro piuttosto debole, rallentata da dialoghi piatti e da intermezzi  che vedono Kosta in famiglia, a gustare le prelibatezze cucinate dalla moglie Adriana e a godere le prodezze del nipotino che ha scoperto il piacere di usare matita e colori, oppure nel centro di accoglienza. Perfino la consultazione del dizionario da parte di Kosta ci ha stancato un poco, è più interessante, quindi, constatare come il cambiamento dei tempi, lo spazio sempre maggiore occupato dalla tecnologia, la sostituzione del libro come occupazione del tempo libero con il cellulare e dell’enciclopedia con Wikipedia, la svalutazione degli insegnanti a cui è stata sottratta ogni autorità, siano problemi che affliggono non solo l’Italia. Problemi che non hanno soluzione, la ruota del tempo non torna indietro.  



 

 

 

 

 

martedì 3 settembre 2024

Dörte Hansen, “Al mare” ed. 2024

                                                                     vento del Nord


Dörte Hansen, “Al mare”

Ed. Fazi, trad. Teresa Ciuffoletti, pagg. 228, Euro 17,57

  Un’isola nel mare del Nord. Un’isola collegata alla terraferma da un traghetto. Solo un’ora il tempo per raggiungerla SE il mare lo permette. Altrimenti è del tutto isolata. Chi vive lì lo sa. Il mare è la loro vita, il mare dà e il mare toglie. Le donne dell’isola sono abituate a vedere i loro uomini imbarcarsi, ci sono generazioni di balenieri nelle famiglie. Sanno anche che potrebbero non tornare o potrebbero tornarne solo i corpi per essere sepolti nel cimitero. Perché è strano ma è così- gli uomini che vanno per mare non vogliono essere sepolti in mare.

   La famiglia Sander è la protagonista del romanzo- bellissimo- di Dörte Hansen. Il capofamiglia, Jens, non naviga più e non vive più in casa con la moglie Hanne. “Da noi adesso è così”, ha detto Hanne al pastore stupito. Jens è diventato il guardiano degli uccelli, in un torrione isolato. Hanne ha iniziato ad affittare ai turisti le stanze della loro casa, la più bella dell’isola, indossa il costume tipico e mostra i reperti del museo ai villeggianti. Sono tanti quelli che hanno acquistato una seconda casa sull’isola, entusiasti della pace, dell’aura un poco selvaggia, della semplicità della vita. Nei primi tempi venivano molto spesso, poi le loro visite si sono diradate. Rykmer Sander, il primogenito, era al timone di una nave quando si è trovato davanti un muro d’acqua ed è stato preso dal panico. Ha iniziato a bere ed è finito a fare il capitano da burla della nave dei funerali di coloro che desiderano che le loro ceneri vengano sparse in mare. Sua sorella fa l’infermiera in una casa di riposo, una volta ogni tanto raggiunge la sua amante a Berlino e si fa fare un nuovo tatuaggio. Ormai la gente dell’isola non si stupisce più quando vede una donna con il busto coperto di tatuaggi correre nuda verso il mare. E poi c’è il figlio più piccolo, quello che doveva salvare il matrimonio di Jens e Hanne, l’artista per cui Hanne sferruzza un maglione all’anno, quello che è diventato famoso con le sue strane creazioni fatte con ciò che le onde hanno lasciato sulla sabbia.


   La vita dell’isola attraverso la vita di questi personaggi, ognuno di loro chiuso nella sua solitudine, ognuno di loro isolato, proprio come l’isola senza nome che diventa un paesaggio dell’anima, ognuno di loro che cerca una via di fuga senza allontanarsi- Jens e i suoi uccelli, Hanne e il patrimonio culturale dell’isola, Rykmer e l’alcol, Eske e i tatuaggi, Henryk e le sue opere d’arte.

E poi c’è il pastore, un entusiasta della sua missione che, però, ha bisogno di distaccarsi dai parrocchiani e ogni giorno corre lungo la costa, evitando accuratamente i parrocchiani che incontra, sentendosi in colpa.  La solitudine dell’isola ha colpito anche lui- sua moglie è andata a vivere sulla terraferma, come le sue figlie, e ritorna per il fine settimana. Ma che matrimonio è, una coppia del fine settimana?


    C’è un messaggio nascosto dietro i grandi e i piccoli drammi dell’isola, c’è l’incursione degli estranei che incomincia con i villeggianti, prosegue con i turisti mordi-e-fuggi, acquista valore con gli studiosi che vogliono documentare una lingua che scompare. E qui si racchiude tutta la tristezza del mondo, in un’isola che o tiene prigionieri o viene abbandonata, in una gente che sta scomparendo, insieme alla sua lingua, alle sue usanze, al suo folklore.

     Bellissimo, essenziale, poetico.