Il premio Nobel per la letteratura 2024 è stato conferito alla scrittrice coreana HAN KANG.
La mia recensione del suo romanzo “L’ora di greco” è stata pubblicata il 26 gennaio 2024.
Tolkien non era ancora stato tradotto in italiano. L'attore che impersona Frodo sul grande schermo non era ancora nato. Leggevo in inglese "Il signore degli anelli", c'era un temporale, era saltata la luce. Ricordo di avere acceso una candela ed aver proseguito la lettura: per me quell'immagine- io che leggo a lume di candela- è diventata il simbolo della mia passione. Io leggo, sempre, ovunque. E amo parlare di libri, per farli amare dagli altri.
Il premio Nobel per la letteratura 2024 è stato conferito alla scrittrice coreana HAN KANG.
La mia recensione del suo romanzo “L’ora di greco” è stata pubblicata il 26 gennaio 2024.
Voci da mondi diversi. Giappone
romanzo autobiografico
Etsu Inagaki Sugimoto, “La figlia del samurai”
Ed.
ObarraO, trad. Giulia Masperi, pagg. 352, Euro 18,50
Nella
provincia di Echigo, dove vivevo, l’inverno iniziava di solito con una fitta
nevicata che scendeva rapida e costante finché restavano in vista solo le
rotonde travi di colmo dei nostri tetti di paglia.
È un
paesaggio del tutto diverso da quello del nostro immaginario con i ciliegi in
fiore, questo che ci descrive Etsu Inagaki Sugimoto nel libro autobiografico
“La figlia del samurai”. Echigo si trova sulla costa nord-occidentale del
Giappone, dove gli inverni sono lunghi ed era necessario ricoprire di paglia le
grandi sculture dei leoni davanti ai templi, le lanterne di pietra, gli alberi
e i cespugli dei giardini, e pareti di assi verticali fiancheggiavano i
marciapiedi sopra i quali si estendeva una sorta di tetto in modo da permettere
agli abitanti di camminare protetti dal vento e dalla neve.
Inizia con questi ricordi, il memoir di Etsu, la figlia del samurai che viveva nel castello di Nagaoka. Con lei c’erano un fratello e una sorella più grandi, ma, dopo che il fratello se n’era andato, alla vigilia del suo proprio matrimonio, era diventata lei la preferita del padre. La chiamavano Etsu-bo, dove il suffisso bo indica un nome maschile, perché era molto vivace e suo padre, un uomo dalla mentalità aperta, aveva voluto per lei degli studi come quelli che avrebbe fatto un ragazzo.
“La figlia del samurai” è un libro costruito in tre movimenti, seguendo le tre tappe della vita di Etsu (nata nel 1875 e morta nel 1950)- l’infanzia e la prima adolescenza in Giappone, la pienezza della sua esistenza di donna in America, il ritorno in Giappone con due figlie. Il primo movimento è ricco di ricordi nostalgici, di descrizioni di vita quotidiana, di usanze, festività, riti religiosi. Tutto ha un significato, tutto contiene un insegnamento, dalla scrittura degli ideogrammi con il pennello al culto degli antenati. Quello che a noi occidentali può sembrare colore folkloristico ha invece un significato- è affascinante scoprirlo.
Poi
Etsu deve raggiungere il promesso sposo, un amico del fratello, a Cincinnati.
Sarà un cambiamento radicale e lei è solo una ragazzina. Deve imparare
l’inglese, deve valutare che cosa portare via con sé. E l’abbigliamento? Il
fratello la sconsiglia di vestirsi con i kimono in America. Se Etsu è
spaventata all’idea di lasciare il suo mondo e le persone che ama dietro di sé,
non lo dà a vedere, non lo dice. Il viaggio per nave è un assaggio della nuova
realtà che la aspetta. Tutto la stupisce, ad iniziare dagli abiti delle
signore, al loro comportamento, al cibo che viene servito. E tutto continuerà a
stupirla, una volta arrivata.
Etsu è giovane, ha una mente curiosa, e, anche se non può fare a meno di paragonare ogni nuova esperienza a come sarebbe stata in Giappone, riesce a vivere sulla linea di confine del ‘qui e ora’ e il ‘là e allora’, riesce ad apprezzare le novità, per quanto strane le possano apparire. Su una cosa indugia e ritorna spesso a parlarne- l’educazione formale che viene impartita in Giappone soffoca la spontaneità, impedisce la manifestazione dei sentimenti. La nostra convenzionalità è troppo estrema. Ci sta restringendo l’anima. Odio essere così felice qui, mentre tutte quelle donne pazienti e sottomesse stanno sedute in silenzio nelle loro case tranquille. È in America che Etsu ha visto per la prima volta un uomo e una donna baciarsi. In Giappone ci si inchinava e l’inchino era diverso secondo a chi era indirizzato. Esibire i sentimenti era maleducazione per un giapponese. Eppure…
Ha già due figlie, Etsu, quando rimane
vedova e torna in Giappone. La più grande delle bambine, Hanano, nome
bellissimo che vuol dire ‘fiore in una terra straniera’, soffre molto per il
distacco, sarà poi felice quando torneranno. La più piccola passerà da una
stanza all’altra della casa in Giappone indicando alla madre gli spazi vuoti e
minimali- le mancano i mobili, le poltrone, i quadri della casa che hanno
lasciato.
Leggerezza e profondità, poesia e cultura,
Storia e miti, c’è tutto il Giappone in questo libro pubblicato per la prima
volta nel 1925. È un libro essenziale per conoscere il Giappone. Un libro che
ci spalanca le porte di un paese che ci ha sempre incantato. Anzi, ci piace
pensare che ci aiuta a varcare la soglia di un torii, la porta tra il sacro e il profano. Ci aiuta a capire, a
interpretare i segni di un’altra cultura.
Voci da mondi diversi. Stati Uniti d'America
romanzo-saggio
Barbara Demick, “I mangiatori di Buddha. Vita e ribellione in una città del Tibet”
Ed. Iperborea,
trad. Katia Bagnoli, pagg. 364, Euro 19,50
Tibet. “Il tetto del mondo”, così
chiamato per la sua altitudine media di 4900 metri sul livello del mare. Poco
più di tre milioni gli abitanti. Una guida spirituale, il Dalai Lama in esilio
in India dal 1959. Un vicino scomodo e, letteralmente, invadente- la Cina.
Viene spontaneo chiedersi come può, un gigante come la Cina, reputare
pericoloso un microbo come il Tibet, tanto da stroncarne non solo i desideri di
indipendenza, ma anche da cercare di sradicare la sua cultura e la sua lingua?
La scrittrice e giornalista americana Barbara Demick è riuscita a fare tre viaggi a Ngaba, la città che si trova dove l’altopiano tibetano si incontra con la Cina diventata nota dopo il numero di monaci che hanno scelto di darsi fuoco per protesta. Da questi viaggi, dai colloqui con gli abitanti sul posto e da quelli che ora vivono in città vicine o in Nepal, nasce il suo reportage che si legge come un romanzo corale. I personaggi che vi appaiono sono tutti veri anche se con altro nome su queste pagine. È un racconto appassionante della Storia del Tibet dal 1958 ai giorni nostri. In una canzone di Tashi Dhondup il 1958 si allinea con il 2008- il 1958 è ricordato come ‘l’anno più buio per il Tibet’, “l’anno in cui l’acerrimo nemico arrivò in Tibet”, e il 2008 come ‘l’anno in cui i tibetani innocenti sono stati torturati’. Nella memoria tibetana permane il terrore del 1958. Così come la parola Nakbà indica l’esodo palestinese del 1948, Shoah il genocidio ebraico, Holodomor il genocidio per fame perpetrato dal regime sovietico a danno della popolazione ucraina negli anni 1932-1933, il termine Ngabgay, cioè ‘58, allude ad una catastrofe così tremenda che solo una data può esprimerla. C’è anche un altro nome per indicarla e ci colpisce per la poesia contenuta nella parola: Dhulok, che significa “ quando il cielo e la terra si rovesciarono.”
Gonpo, figlia dell’ultimo re Mei, è la
prima ad apparire in queste pagine- di lei e della sua vita sapremo fino ai
tempi recenti in cui, dopo essere andata in India per apprendere la sua lingua
che aveva dimenticato, si ritrovò in pratica esiliata lì, a Dharamsala dove ha
sede il governo tibetano in esilio e dove ha la sua residenza il Dalai Lama.
Aveva sette anni, Gonpo, nel 1958. Non aveva capito il perché della fuga né che
cosa stesse succedendo. Dieci anni dopo sarebbe stata mandata nello Xinjiang,
l’equivalente della Siberia, ai lavori forzati.
Delek, figlio del generale che cercò di
fermare l’Armata Rossa. Quando i soldati dell’Armata Rossa arrivarono a Ngaba
erano un esercito di affamati. Per caso si accorsero che le statuine del Buddha
erano fatte di farina ed erano dolci e potevano essere mangiate- una
profanazione.
Tsegyam, l’aspirante poeta, un intellettuale che nel 1989, dopo i fatti di piazza Tienanmen, sarà arrestato per propaganda antirivoluzionaria.
Seguiamo le vicende di questi personaggi e di altri ancora nel corso degli anni fino al fatale 16 marzo 2011 quando il monaco Phuntsog, di soli sedici anni, si diede fuoco, immolandosi per protesta contro il governo cinese in Tibet. Fu il primo di una serie, un anno dopo erano trenta i Tibetani che avevano commesso un atto di violenza contro se stessi, scegliendo la morte tra le fiamme.
In parte saggio, in parte ricerca sul
campo, in parte romanzo perché “I mangiatori di Buddha” si legge come un
romanzo, tanto più affascinante perché sappiamo che sono veri i personaggi che
vivono nelle sue pagine, il libro di Barbara Demick ci spalanca le porte sul
tetto del mondo.
Voci da mondi diversi. Giamaica
Nicole Dennis-Benn, “Here comes the sun”
Ed.
66thand2nd, trad. Federica Principi, pagg. 352, Euro 18,00
Giamaica. Montego Bay. Il Paradiso dei
turisti. Solo dei turisti, non è di certo il paradiso per le donne che
improvvisano sul molo bancarelle per cercare di attrarre con la loro merce
quelli che sbarcano dalle navi da crociera, non di certo per le ragazze che si
vendono per aiutare la famiglia, non per i pescatori, non per tutti i
giamaicani che vivono in casupole con i tetti di lamiera. E il sole che colora
di rosso e oro il mare non sorge splendente per loro.
Delores, Margot, Thandi e Verdene sono le donne protagoniste del romanzo della scrittrice giamaicana Nicole Dennis Benn, donne vittime del colonialismo, dei modelli imposti dai bianchi, dei pregiudizi e dell’oscurantismo, e degli uomini, sempre degli uomini. Perché gli uomini si impongono con la forza per ottenere quello che vogliono. E vogliono sempre la stessa cosa.
Quando Margot era nata, Delores aveva sedici
anni e sua figlia ne aveva ancora di meno quando lei l’aveva venduta ad un
turista per 600 dollari. Come si poteva resistere al pensiero di quello che si
poteva comprare per 600 dollari? E poi Delores voleva distogliere l’attenzione
di Margot da Verdene che le aveva detto che era bella- di Verdene si dicevano
tante cose, si diceva che le piacessero le donne, che era per questo che sua
madre l’aveva mandata a studiare in Inghilterra.
E poi, a distanza di quindici anni da Margot, era nata Thandi. Dal padre indiano Thandi aveva ereditato i bei capelli lisci, su Thandi si centravano tutte le aspettative della madre e della sorella. Thandi non sarebbe stata come loro, Thandi non avrebbe fatto la fine di Margot che lavorava in un hotel e la si vedeva uscire al mattino dalle stanze dei clienti quando non dal letto del proprietario dell’albergo- l’avrebbe nominata manager nel nuovo resort grandioso che aveva in mente di costruire? Thandi frequentava la scuola privata gestita dalle suore, usciva di casa indossando una divisa immacolata, Thandi sarebbe diventata un dottore, era per lei che la madre e la sorella risparmiavano. E glielo facevano pesare.
Nessuna di queste donne è libera, tutte
hanno subito violenza quando erano bambine (anche Thandi che non lo ha mai
detto a nessuno) o poco più che bambine. L’omosessualità è proibita in
Giamaica, Margot non deve essere vista quando entra nella casa rosa che Verdene
ha ereditato dalla madre, quando Thandi si innamora di un pescatore spiantato
deve incontrarlo di nascosto- non è adatto a lei, sono ben altre le ambizioni
di Margot e di Delores per lei. Thandi deve pensare a studiare e a nient’altro.
E deve lasciar perdere anche il desiderio di studiare arte, anche se è dotata-
chi ha mai fatto soldi con i quadri?
C’è altro però che occupa la mente di
Thandi, e questo è una delle tante tematiche del libro, insieme alla
preoccupazione di far soldi in qualunque maniera, vendendo il proprio corpo e
quello di altre ragazze- Margot accetta di reclutare e istruire giovani donne
per ogni gusto dei turisti che accorreranno nel nuovo resort. Thandi vuole schiarirsi
la pelle, perché l’immagine della bellezza pubblicizzata è bianca. E si reca di
nascosto da una ciarlatana che la avvolge nella pellicola dopo averla spalmata
di qualche crema di certo nociva. Essere bianche ed essere ricche, è questo che
si vuole. Per raggiungere la ricchezza Margot accantona ogni freno morale, non le importa che gli abitanti di River Bank,
dove lei è cresciuta, debbano lasciare le loro case per permettere la
costruzione del nuovo resort di lusso, non le importa neppure che imbroglino la
sua amica del cuore. Quando il sole, che
non appariva da giorni, scintilla sull’acqua azzurra della piscina, Margot è
sola, è rimasta sola.
Un romanzo triste e drammatico, una realtà
buia dove noi, che ci immaginiamo nei panni dei turisti bianchi, vedevamo solo
luce e colori.
Voci da mondi diversi. Stati Uniti d'America
Ed.
Neri Pozza, trad. Massimo Ortelio, pagg. 417, Euro 19,00
Ogni volta che viene pubblicato un nuovo
romanzo di Tracy Chevalier, il suo è un atteso ritorno. Sono passati vent’anni
dal suo primo romanzo, “La ragazza con l’orecchino di perla” che l’ha resa
famosa. Dopo di quello sono venuti una serie di libri con una galleria di
personaggi femminili che ci hanno appassionato, così come ci ha appassionato il
tempo in cui hanno vissuto e il ruolo che queste donne, le sue protagoniste,
hanno avuto nella loro società, sia che ricamassero i cuscini destinati alle
panche di una chiesa, o cucissero le coperte che contenevano un messaggio per
gli schiavi fuggitivi, o cercassero fossili sulla spiaggia di Whitby. È come se
il suo intento fosse restituire dignità alle donne, sempre trascurate dalla
storia ufficiale, sempre relegate nell’ombra.
C’è un grande personaggio femminile anche ne “La maestra del vetro”, Orsola Rosso. All’inizio del libro è una bambina che cade in acqua- una caduta strategica, sapremo poi, perché viene mandata ad asciugarsi nella vicina fonderia dei Barattier, i migliori vetrai di Murano. Nessun estraneo può entrarvi, ma chi baderà a una bambina? E forse lei riuscirà a ‘spiare’ a che cosa stiano lavorando, a carpire qualche segreto. Perché i Rosso non sono niente accanto ai Barattier, la loro è una piccola fonderia a conduzione famigliare- il padre, la madre, due figli e Orsola.
Il tempo a Venezia non esiste, Venezia è fuori del tempo nella sua immobilità azzurrina, eppure, anche se impieghiamo la nostra immaginazione e ci affidiamo alla maestria della scrittrice, è un poco straniante e non facile collocare i personaggi, che non cambiano molto nei secoli, in un mondo che passa dalle carrozze e le gondole alle automobili e ai vaporetti.
Cambia
anche l’arte del vetro, nei secoli, cambia il gusto, si affina la tecnica-
dalle vetrerie di Murano escono dei capolavori. E l’arte del vetro è protagonista
assoluta del romanzo. Ci interessa seguire l’evoluzione di Orsola che acquista
sicurezza e maestria nel foggiare le perle (di nascosto dapprima), ma quello
che ci incanta è la descrizione di come le collane, i lampadari, le coppe
vengano fatte, come nascano le idee- i ghepardi per la stravagante marchesa
Casati, la collana rosso rubino per Giuseppina Bonaparte, il lampadario con i
grappoli d’uva per Casanova- e come vengano realizzate. E il piccolo delfino di
vetro, che era stato pegno d’amore del bel veneziano di cui Orsola era
innamorata e che puntualmente le veniva recapitato dalla lontana Praga che
osava rivaleggiare con Venezia nell’arte del vetro, diventa il simbolo della
continuità della bellezza, dell’arte, dell’esistenza stessa di Venezia.