mercoledì 28 ottobre 2015

Yan Lianke, “Il sogno del villaggio dei Ding” ed. 2011

                                                    Voci da mondi diversi. Cina
                                                                il libro ritrovato


Yan Lianke, “Il sogno del villaggio dei Ding”
Ed. Nottetempo, trad. Lucia Regola, pagg. 445, Euro 20,00
Titolo originale: Ding Shuang Meng


     A quel tempo c’era un sacco di gente che vendeva il sangue e un sacco di gente che lo comprava. Molti andavano a comprarlo direttamente nelle case della gente, portandosi dietro l’attrezzatura necessaria. Ti passavano davanti alla porta di casa in cerca di sangue proprio come passano i rigattieri in cerca di metalli vecchi e scarpe rotte. Non dovevi neanche muoverti di casa, te ne stavi tranquillo ad aspettare il grido: “Compro sangue!...Chi vuole vendere?”



    Chiedo ad ogni lettore di perdonare il dolore che questo libro gli procurerà- scrive Yan Lianke nella postfazione del suo libro, “Il sogno del villaggio dei Ding”. Perché “Il sogno del villaggio dei Ding” è un libro che fa male, che causa al lettore la sofferenza dello spettatore impotente davanti al Male che l’uomo infligge ai suoi simili. Yan Lianke è nato in Cina nella provincia di Henan: nel 2001, solo nella provincia di Henan, si registrarono un milione di casi di Aids. Un’epidemia. Non dovuta, come in Africa, a rapporti sessuali non protetti ma ad una dissennata campagna per la vendita di sangue per rifornire di plasma gli ospedali. Mancanza assoluta di qualunque genere di profilassi, aghi usati e ri-usati, lo stesso batuffolo di cotone impiegato per chissà quante persone…La gente incominciò ad ammalarsi, ma i poveri sono abituati ad accettare le malattie come una fatalità. Finché ci fu una prima diagnosi.
    Yan Lianke ci racconta questa storia attraverso la voce fuori campo della vittima più innocente e, paradossalmente, in un certo senso più estranea a questa tragedia: un ragazzino morto, non di Aids ma avvelenato da qualcuno che intendeva vendicarsi di suo padre Ding Hui che si era arricchito con la vendita del sangue. All’inizio c’era stato un arricchimento generale nel villaggio dei Ding. Ora non c’è casa da cui non sventoli uno stendardo bianco in segno di lutto. Il villaggio è avvolto nel silenzio. Nell’anno passato c’era stato un morto ogni dieci giorni. Di questo passo sarebbero morti tutti nel villaggio. Come le foglie di un vecchio albero, sarebbero prima appassiti, poi ingialliti e infine caduti a terra con un fruscio, spinti chissà dove da una raffica di vento.

    La narrativa di Yan Lianke ha il tono dell’elegia funebre, alterna il realismo delle scene di vita quotidiana con frasi che sembrano versi di una ballata accorata, una di quelle cantate da un cantastorie itinerante, con ripetizioni di parole che ti entrano nella mente e nel cuore prima di una pausa ad effetto, per lasciarti assimilare quanto è stato detto. Tutto il villaggio rivive nelle pagine di Yan Lianke- gli ammalati che si trasferiscono a vivere dentro l’edificio scolastico per limitare il contagio e i sani che battibeccano con i malati, rimproverandoli per l’imprudenza, tenendosene alla larga. La generosità e l’altruismo sono scomparsi insieme alla salute. C’è un’eccezione luminosa ed è il personaggio del nonno del ragazzino che racconta dall’aldilà, che viene chiamato Maestro anche se non lo è in realtà. E’ solo il custode responsabile della scuola. E continua a svolgere questo incarico ora che le aule sono piene di ammalati invece che di bambini: è per compensare il villaggio per quanto ha fatto suo figlio Ding Hui? Per scontare una colpa non sua? Di certo Ding Hui non ha rimorsi. Anzi, allarga il mercato. Si appropria delle bare che il governo concede alle famiglie per seppellire i morti e le rivende. Sono scene grottesche, quelle della visione della fabbrica di bare e del commercio di queste, delle trattative sul prezzo e la qualità. Saranno ancora più grottesche quelle dell’altra idea brillante di Ding Hui: fare il sensale di matrimoni tra i defunti. Per avidità, Ding Hui farà sposare anche suo figlio, il ragazzino che è morto troppo giovane per conoscere l’amore.


    C’è, però, anche una vera storia d’amore tra i malati. Bella, straziante. Ricorda le storie d’amore nei ghetti o nei campi di concentramento. Con un finale che potrebbe essere quello di una tragedia scespiriana. E mentre il furto delle bare e la dissacrazione della tomba degli amanti potrebbe trovare il suo posto in una tragicommedia, la figura del vecchio Ding che cerca di riequilibrare la giustizia, senza però essere compreso, è altamente drammatica. Anche perché una città non distante si è arricchita in maniera straordinaria e, invece, la terra vicino al villaggio dei Ding, colpita dalla siccità, sembra essere morta insieme ai suoi abitanti: no, non c’è giustizia a questo mondo.

la recensione è stata pubblicata su www.wuz.it


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