venerdì 7 novembre 2025

Intervista a Veronica Santoro, autrice de "L'interprete" 2025

                                         Casa Nostra. Qui Italia

                                          seconda guerra mondiale

                                          intervista


      Chi segue le mie letture sa che leggo più o meno tutti i romanzi ambientati durante la seconda guerra mondiale. Dopo aver letto “L’interprete” di Veronica Santoro ho pensato che mi sarebbe piaciuto sapere di più su quello che c’era ‘dietro’ il romanzo, su Verona in quegli anni, su ‘come’ fosse venuto in mente, ad una scrittrice così giovane, di scriverne. Ecco la nostra chiacchierata (la recensione è uscita sul blog in data 6 ottobre).

L’interprete è il suo primo romanzo, ho letto che, in precedenza, aveva scritto dei racconti. Anche i racconti avevano un’ambientazione storica? come ha deciso di passare alla forma lunga del romanzo?

   No, i racconti non avevano un’ambientazione storica, ma quello che ha vinto il premio per esordienti, “Notturno berlinese”, aveva un’ambientazione tedesca- una sorta di filo rosso che lo unisce al romanzo “L’interprete”. Amo la cultura tedesca, conosco bene il tedesco che uso nel mio lavoro. Per motivi di studio e di lavoro sono molto legata al mondo tedesco e quindi la decisione di ambientare il romanzo nella Verona del 1943 sotto l’occupazione tedesca nasce dall’interesse per i rapporti tra Italia e Germania. D’altra parte a Verona permane il legame con il mondo tedesco- siamo vicini al lago di Garda, ci sono molti turisti tedeschi così come ci sono molte aziende tedesche che hanno scelto Verona come base. Mi appassionava esplorare che cosa è successo quando i tedeschi sono arrivati qui durante la guerra.

Ci può raccontare di più della vicenda originale che è dietro quella del romanzo?

   La storia originale è arrivata come testimonianza da parte del signore che lavora nel palazzo dove sono ambientate le vicende e dove, allora, c’era la sede amministrativa e operativa del comando tedesco. Oggi il palazzo è sede di studi professionali e questo signore, che lavora in portineria, mi ha fermato e mi ha detto che già suo nonno lavorava in portineria durante l’occupazione tedesca, raccontandomi poi della vita che brulicava intorno a quel palazzo. Mi ha mostrato poi la planimetria del palazzo che lui stesso aveva disegnato basandosi sui ricordi del nonno, suddividendo le stanze secondo l’uso che ne era stato fatto- gli uffici per la Gestapo, le stanze per i prigionieri politici, quelle per gli interrogatori. Mi ha regalato quella planimetria dicendo che lui non era capace di usarla per scrivere una storia ma forse poteva dare un’ispirazione a me. Poi è iniziato per me il tempo del lavoro di ricerca storica perché volevo che fosse un romanzo storico che si attenesse ai fatti. Volevo un contesto documentato e fedele. Ho fatto un grande lavoro alla Biblioteca Civica, consultando quotidiani dell’epoca, saggi, libri, materiali in tedesco che parlavano dell’occupazione dal ‘loro’ punto di vista. Mi sono documentata anche sulle biografie degli ufficiali che erano al Comando di Verona. Per i tedeschi era una missione importante, dovevano tener salda la roccaforte dell’Italia settentrionale, perciò gli ufficiali erano figure iperqualificate che si erano distinte in altre operazioni. Erano persone con un alto livello di istruzione e però si erano distinte anche per operazioni di massacro.


Verona nel 1943, Verona durante la guerra: ha sofferto molto Verona durante la seconda guerra mondiale?

    Sì, l’occupazione tedesca è stata molto sofferta a Verona, perché è arrivata in un momento difficile, dopo due anni di guerra. In più i tedeschi arrivarono in gran numero- dobbiamo ricordare che Verona era una piccola città di provincia. Quella dei tedeschi era, numericamente, un’operazione massiccia e, dopo l’intensificarsi dei bombardamenti, nel 1944, la città andò svuotandosi: chi poteva lasciava la città rifugiandosi da parenti in campagna, se li avevano. Il numero dei tedeschi era, quindi, preponderante. Basta dire che i cartelli oppure i menù esposti fuori dai ristoranti erano in due lingue- adesso è normale ma allora non lo era affatto ed è un segnale importante. L’occupazione aveva comportato anche la confisca delle abitazioni, degli edifici e degli alberghi adibiti dai tedeschi ad abitazioni. Tuttavia, leggendo i quotidiani dell’epoca, sembra che in città l’occupazione abbia avuto luogo senza grandi spargimenti di sangue. Erano prepotenti ma abbastanza corretti. Nella zona pedemontana, invece, dove era attiva la resistenza partigiana, ci furono eventi drammatici. Quelli che vissero in quel tempo mi hanno confermato queste impressioni: c’era una cappa di terrore sulla città e la popolazione non ha risposto in maniera violenta, ha subito.

Parliamo dei personaggi del romanzo- il preside Zorzi, sua figlia Delia, l’Hauptsturmführer von Peters, il capitano Hauer. Nessuno dei due tedeschi viene rappresentato come terribilmente ‘cattivo’, di certo proviamo più disprezzo per il preside Zorzi che per loro: era sua intenzione accentuare, in certo qual modo, la colpevolezza degli italiani collaborazionisti?

     Sicuramente il grande tema del romanzo è la zona grigia, la zona in cui si muove la gente che vuole sopravvivere a questo momento di pericolo. La maggior parte galleggia cercando di tenersi in piedi. E sì, Zorzi è più colpevole dei tedeschi. Loro hanno degli ordini e poi l’obbedienza è qualcosa di radicato nella loro cultura, sono cattivi, fastidiosi e sgradevoli ma Zorzi è uno che fa il Male con convinzione. Non sarebbe tenuto a fare il delatore, ad essere un individuo schifoso, potrebbe tenersi nell’ombra e aspettare che la guerra finisca. Zorzi crede nella causa nazi-fascista, è più colpevole perché agisce di sua volontà. Per gli ufficiali ribellarsi sarebbe stato alto tradimento. Il tema del libro è questo: che cosa ha fatto chi era libero di scegliere, chi poteva fare qualcosa? Zorzi è il personaggio più negativo del romanzo.


Hauer è un uomo di sangue freddo, non ha eccessi di sadismo ma è senza scrupoli, ha un ruolo pesante sulle spalle, è la banalità del male, per dirlo con le parole di Hannah Arendt. È un burocrate che deve svolgere il suo dovere.

Ho rispettato le biografie storiche degli ufficiali veramente in carica a Verona, cambiando però il loro nome.

Io stessa ho provato più simpatia per von Peters che per Delia Zorzi che mi è sembrata una persona ambigua. È forse essere sempre stata sotto il dominio del padre a renderla incapace di una posizione decisa?

    Delia è una donna del suo tempo. Mia nonna mi parla dei rapporti con suo padre come rapporti di sudditanza, c’era l’idea della centralità della famiglia in cui la donna era la fattrice. Delia ha un padre fascista, autoritario e sprezzante, lei ha 23 anni ed è sempre vissuta sotto il suo tacco, è rimasta presto senza la madre che avrebbe potuto ammorbidire questa atmosfera. Invece è schiacciata dal padre che la lancia nel mondo offrendola ai tedeschi come traduttrice. Era privilegiata perché aveva potuto frequentare l’università, cosa rara per i tempi, ma aveva sempre vissuto fra le quattro mura di casa. Ha paura, non capisce che cosa sta facendo e il suo ruolo rispetta questa ambiguità: un interprete si muove sul crinale tra due mondi. Lei traduce in maniera asettica, le interessa solo se c’è qualcosa che può riguardare il fratello. Traduce e dimentica, non si fa domande. L’obiettivo è sopravvivere e salvare il fratello. È ambigua, è un’antieroina, non suscita la solidarietà femminile. Però Delia compie un percorso: alla fine la sua ignavia è chiamata a un bivio, alla fine sceglie e sceglie  di saltare nel vuoto, di assumere il rischio. Disegna il proprio destino, ma per due terzi del romanzo subisce, si sporca le mani di sangue per salvare la pelle. Tuttavia è molto umana.


Non ci viene detto apertamente, ma il fatto che von Peters fosse nell’Einsatzgruppe sul fronte orientale ci lascia indovinare di quali colpe si sia macchiato. Eppure il suo palese tormento fa di lui, anche se non pienamente, un ‘nazista buono’- voleva rappresentarlo così?

     No, non volevo rappresentarlo come ‘il nazista buono’. Il dipingerlo così viene dal mio rapporto con i tedeschi che ho conosciuto. Hanno pudore della sofferenza, ma poi raccontano di quello che hanno vissuto durante e dopo la guerra- terribile. Le prime case da cui hanno portato via i disabili furono quelle tedesche, i primi ebrei deportati furono tedeschi, hanno subito il nazismo. La follia collettiva ha fatto sì che subissero. Anche la fase post-bellica fu terribile. I pochi che sono tornati a piedi dalla Russia spesso non furono riconosciuti, molti si diedero all’alcolismo, molti si suicidarono, i più non riuscirono a rifarsi una vita. Subirono un prezzo altissimo come vinti.

   Quella di von Peters è la storia di un uomo che prima faceva tutt’altro, era ricercatore universitario, come molti altri era arruolato nella Wehrmacht e poi era finito nelle Waffen-SS. Deve vivere con dei demoni e questo ce lo rende simpatico in qualche maniera. Sa bene che quello che sta facendo è il Male assoluto.

C’era veramente l’ospedale psichiatrico di cui parla nel libro? che fine hanno fatto i pazienti?

    Non c’era, c’erano però strutture simili su cui mi sono documentata per ambientare in modo realistico quella parte del romanzo. Dopo il 1943 i tedeschi inasprirono le misure non solo contro gli ebrei. I tedeschi cercavano gli ebrei anche negli ospedali psichiatrici dove forse si trovavano nascosti e, quando non li trovavano, rastrellavano gli altri pazienti là presenti.

campo di Fossoli

Nel libro si parla anche del campo di concentramento e di transito di Fossoli. Ormai la guerra nel cui ricordo la mia generazione è cresciuta mi pare così lontana che trovo più che mai importante parlarne. Pensa che le giovani generazioni, e non solo loro, sappiano del campo di Fossoli e della risiera di san Sabba? Non pensa che noi italiani tendiamo a rimuovere la nostra parte di colpa?

    Oggi i giovani hanno molti stimoli ma alcuni di loro hanno anche una sensibilità spiccata e, se stimolati e appassionati, si interessano. La Storia li avvince.

Come figlia e nipote di esuli istriani so bene che cosa sia la rimozione del passato. Il popolo tedesco ha fatto un lavoro incredibile per ricucire la memoria della Storia in comune, ha espiato una colpa collettiva. Da noi questo non è stato fatto. Non abbiamo una visione di insieme, dove si tenga conto dei prezzi della guerra. Abbiamo ancora da fare, e non so se si farà mai, un lavoro serio sulla memoria collettiva.

Sta già scrivendo un altro romanzo? Sarà ancora un romanzo di ambientazione storica?

    Ho in mente varie possibilità ma non sto ancora scrivendo niente. I temi possibili sono tanti, alcuni sono di ambientazione contemporanea.



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