Voci da mondi diversi. Europa dell'Est
storia di famiglia
Soma Morgenstern, “Il figlio del figlio perduto”
Ed. Marsilio, trad. Alessandra Luise e Sarina Reina,
pagg. 305, 18,00
Un romanzo che viene dal passato, perché,
pubblicato per la prima volta nel 1935 (il primo di una trilogia), ci arriva
solo ora in traduzione italiana, perché
ci parla di un tempo passato e soprattutto di un mondo passato veramente del
tutto, interamente scomparso, quella yiddishland
cancellata dai nazisti. Eppure i temi di cui tratta- identità, appartenenza,
ricerca di una dimensione spirituale- sono tuttora validi e riescono a
coinvolgerci e poi questa è la storia di una famiglia, con quel pizzico di
mistero che avvolge i rapporti famigliari e che ci incuriosisce, in attesa di
una auspicata riconciliazione finale che ci sarà- e lo indoviniamo subito,
quasi fosse il motivo nascosto del viaggio a cui il protagonista si prepara.
È l’estate del 1928 e nelle prime settimane di agosto si svolgerà a Vienna il congresso mondiale degli ebrei fedeli alla Legge. È questo il motivo ufficiale per cui il possidente Wolf Mohylewski si prepara per andare (malvolentieri peraltro) a Vienna. Anzi, è l’unico motivo perché neppure a se stesso Wolf Mohylewski (chiamato da tutti Welwel Dobropoljer perché proprietario delle terre di Dobropolje, in Galizia) osa confessare che nutre la speranza di rientrare in contatto con il figlio di suo fratello, morto in guerra.
Quanti anni avrà ora il ragazzo? Una ventina? Era stato bandito dalla famiglia insieme al padre, quel Jossele a cui Welwel era così legato. Perché Jossele non solo aveva sposato una goj, ma si era convertito al cattolicesimo. Vietato fare il suo nome, vietato ricordarlo. Aveva disonorato la famiglia. E però c’era quel tarlo in Welwel, c’erano i flash di loro due bambini che si presentavano non voluti alla sua mente, il pensiero di quel nipote che aveva un nome tedesco- Alfred- invece del nome del nonno come avrebbe dovuto, che poteva solo indovinare, con il cuore in pena, come stava crescendo lì nella grande città, estraniato dal suo popolo, dal suo Dio, certamente ancora più estraniato da Dio e dal suo popolo di quanto fosse stato quel rinnegato di suo fratello negli ultimi anni della sua sconclusionata esistenza.
Il viaggio, Vienna e il congresso, il ritorno. È scandito in tre parti, il romanzo di Soma (diminutivo di Salomo) Morgenstern, scrittore ebreo-ucraino, tre parti che hanno quasi il ritmo di un pezzo musicale, con un andante, un minuetto e poi una conclusione serena. Il viaggio colmo di eccitazione e timori, di osservazioni sulla bellezza delle terre che stanno attraversando e che ci preparano al contrasto con il fermento della grande città, il congresso che è una sorta di rivelazione per il giovane Alfred presente quasi per caso, l’opportunità per prendere coscienza delle sue radici, e infine il ritorno a Dobropolje, quasi come nella parabola del figliol prodigo.
Il titolo italiano è identico a quello
originale in tedesco, una chiave di interpretazione perfetta. “Il figlio” è la
prima parola, perché è lui il vero protagonista, il ragazzo che si indaga e
vuole sapere di più sul padre oltre al fatto che fosse quel bell’uomo di cui si
era innamorata sua madre. “del figlio perduto”, e qui “perduto” non significa smarrito, o morto in guerra, perché è vero che Jossele è morto in guerra, ma
era già ‘perduto’, dannato come la sua memoria, perché aveva abbandonato la
religione dei suoi avi, quella che aveva permesso la coesione degli ebrei nei
secoli in tutte le loro peregrinazioni.
Soma Morgenstern non dimentica mai di
condire con un filo di umorismo la sua storia del mondo che sta per scomparire,
di una società ebraica già divisa tra ortodossia e laicità, oggetto costante di
scherno e angherie. E leggere il suo romanzo comunica una certa emozione venata
di tristezza e di rimpianto per quello che si è perso- sì, veramente perso, nel
significato comune della parola.
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