sabato 18 gennaio 2025

Aurora Tamigio, “Il cognome delle donne” ed. 2024

                                                               Casa Nostra. Qui Italia

                                                             saga

       

Aurora Tamigio, “Il cognome delle donne”

Ed. Feltrinelli, pagg. 416, Euro 18,00

     Questa è una storia di donne. D’altra parte il titolo dice già tante cose. Perché, che cosa è un cognome? Gli uomini non ci pensano neppure, il loro cognome li accompagna per tutta la vita. Che cosa vuol dire, per una donna, perdere il proprio cognome e prendere quello del marito? Sempre il cognome di un uomo è, pensiamoci bene, ma nel momento in cui si sposa una donna perde la sua identità, esiste non più in quanto lei stessa, ma come appendice o proprietà del marito. I cambiamenti sono sempre lenti a prendere piede, negli anni ‘70 le donne mantenevano il proprio cognome nel posto di lavoro, mentre era tutt’altra faccenda nei rapporti sociali. E, per quello che riguarda i figli, sono pochissimi tuttora quelli che- come è d’uso in Spagna e nei paesi dell’America latina- hanno il doppio cognome, del padre e della madre.

    Le vicende del romanzo di Aurora Tamigio iniziano nei primi anni del Novecento e la prima donna di questa saga si chiama Rosa. È lei la prima vittima delle violenze paterne, perché sembra proprio sia un diritto su cui non si discute, quello dei padri, di sfogare malumori o ubriachezza sulle persone più fragili della famiglia- su chi, se no? Quando Rosa incontra un uomo gentile, Sebastiano Quaranta, se ne innamora, fugge insieme a lui, lo sposa. E non gli perdonerà mai di essersi arruolato e di essere morto in guerra, lasciandola con tre figli. Ma Rosa ha carattere e forza, si guadagnerà da vivere con l’osteria che aveva aperto insieme al marito. La storia della vita della figlia Selma è una variante della storia delle donne- il marito è un fannullone, ma non basta che si faccia mantenere, sperpera anche l’eredità messa da parte da Rosa, una volta che legalmente è diventato il capofamiglia a cui tutti i beni appartengono di diritto anche se sono, in realtà, delle mogli.


    Con la terza generazione di donne, con le tre figlie di Selma, le cose incominciano a cambiare. Le tre ragazze studiano, lavorano, vanno ad abitare per conto loro quando il padre, che si è risposato, le caccia di casa, i loro legami amorosi non finiscono per forza in un matrimonio, la più giovane va addirittura a frequentare un corso di inglese in Inghilterra. E, quando la maggiore, ormai libera dalla responsabilità della sorellina minore, si sposa, manterrà certamente il suo cognome.


    Sullo sfondo di una Palermo mai citata, ma facilmente riconoscibile da alcune descrizioni di piazze o palazzi e che forse incide su certi comportamenti e certe chiusure mentali, “Il cognome delle donne” è un romanzo che vuole dimostrare qualcosa, che segue la condizione femminile in un arco di tempo lungo e, come spesso avviene in questi casi, la narrazione ne risente. Tuttavia i personaggi e le loro piccole e grandi storie riescono ad interessarci e la lettura procede veloce.




    

martedì 14 gennaio 2025

Alessandro Barbero, “Romanzo russo” ed. 2024

                                                                   Casa Nostra. Qui Italia

     romanzo storico

Alessandro Barbero, “Romanzo russo”

Ed. Sellerio, pagg. 684, Euro 19,00

 

   Secondo romanzo dello storico Alessandro Barbero, “Romanzo russo” fu pubblicato per la prima volta da Mondadori nel 1998, in un tempo più vicino a quello in cui si muovono i personaggi. Fu tradotto in inglese, ma in Italia fu dimenticato e lo rileggiamo ora grazie alla ristampa della casa editrice Sellerio.

    Dimenticato il romanzo e dimenticati quegli anni sul finire degli ’80, nell’epoca di Michail Gorbaciov, penultimo segretario generale del Partito Comunista dell’Unione Sovietica dal 1985 al 1991. Sembrano così lontani gli anni di Gorbaciov. L’uomo che con la sua politica della Trasparenza, ‘glasnost’, e della Riforma, ‘perestrojka’, ebbe un ruolo fondamentale nella riunificazione delle due Germanie e nella fine della Guerra Fredda. Con questo romanzo Alessandro Barbero ci porta a Mosca e a Baku nel 1988, giusto un anno prima della caduta del muro di Berlino che diede origine alla dissoluzione dell’Unione Sovietica, come il primo masso di una valanga.


    Tutto inizia quando il professor Obilin assegna a Tanja una tesi di laurea su “I quadri del Partito nella regione di Baku dal 1945 al 1953”. Va bene la Trasparenza, ma non si rende conto di quanto siano pericolose delle ricerche su quegli anni? non pensa che sarebbe meglio lasciar accumulare la polvere sugli scaffali degli archivi? Perché Tanja è caparbia, non si lascia scoraggiare da nulla, va perfino a Baku a sue spese ed arriva a scoperte sorprendenti, si imbatte per caso anche nelle registrazioni del processo a suo nonno, morto proprio in quegli anni. Subisce delle intimidazioni, Tanja, finirà per dover fuggire da Baku.

Baku

     C’è pure una seconda trama, parallela e di pari importanza a questa, in cui il protagonista è il giudice Nazar Kallistratovic Lappa, che deve indagare sull’assassinio di un capo religioso mussulmano a Baku e, però, anche per lui, come per Tanja, la ricerca è come scoperchiare un vaso di Pandora. Il fatto è che molte delle persone responsabili dei fatti di sangue, delle purghe, delle torture, degli esili in Siberia, sono ancora vivi, si sentono tremare la terra sotto i piedi (anche letteralmente- il terremoto del 1988 nell’ Armenia settentrionale fu di magnitudo 7) e fanno di tutto per ostacolare le indagini del giudice che, proprio come Tanja, deve abbandonare Baku in fretta e furia.

   

terremoto del 1988

In “Come vi piace” Shakespeare diceva ‘Tutta la vita è un palcoscenico e gli uomini e le donne sono soltanto attori’- è un attore il terzo personaggio di rilievo, quello che alla fine esce con indosso la divisa da generale che gli serve per recitare e poi se ne spoglia davanti agli occhi attoniti di chi è in coda come lui per comprare del sapone e interpreta quel gesto in tutt’altra maniera.

   Non per niente Barbero è uno storico e deve aver fatto ricerche approfondite (come la sua Tanja) perché “Romanzo russo” è un romanzo molto russo, perché non solo le vecchie grasse donne russe compaiono nelle sue pagine (quante ne abbiamo incontrate nei romanzi dell’800 russi?), ma anche i nuovi ricchi, l’elegante spacciatore di droga, l’ex membro del KGB che traffica in armi, e poi le popolazioni finora silenziose delle repubbliche più lontane, azeri e armeni che niente hanno dimenticato del passato di cui, qua e là, affiora la nostalgia, quel ‘si stava meglio allora’ che però ha dimenticato gli orrori.


Perfino lo stile è molto russo. Con intelligenza e finezza, senza alcuna finzione, Barbero echeggia Bulgakov che è perfino citato e alla nostra mente affiorano i ricordi di altri grandi scrittori, se non fosse altro che per l’ampio respiro del romanzo. Il racconto è indirizzato spesso ad un ‘tu’ lettore che dà l’impressione di una voce interna ai fatti e altre volte, invece, si sente la voce di un narratore onnisciente. Sempre ironica, sempre accattivante, come se volesse sdrammatizzare quanto sta accadendo, perché in fin dei conti si è conosciuto anche di peggio.

    Il sottotitolo è un verso del poeta Osip Mandelstam, mandato da Stalin a morire in un Gulag- “Fiutando i futuri supplizi”-, un verso molto significativo che fa riflettere: sono solo Tanja e Nazar che vengono messi in guardia?



sabato 11 gennaio 2025

Gerbrand Bakker, “Quelli che restano” ed. 2024

                                     Voci da mondi diversi. Paesi Bassi



Gerbrand Bakker, “Quelli che restano”

Ed. Iperborea, trad. Elisabetta Svaluto Moreolo, pagg 311, Euro 19,00

   Ad un certo punto a Jan Weiman, barbiere figlio di un barbiere, era parso più alla moda, più invogliante, esporre Chez Jean, in francese, fuori dalla porta del negozio. Così come il cartello diceva ‘Fermé’ e ‘Ouvert’. E così era rimasto, anche quando ormai il barbiere/parrucchiere era il nipote di Jan che si chiamava Simon e i clienti che non lo conoscevano si rivolgevano a lui come ‘Jean’.

   Simon non si ammazza di lavoro, quando riceve quattro clienti in un giorno, per lui è sufficiente. Nel tempo libero va in piscina. È così che sua madre si rivolge a lui per aiuto- lei sorveglia un gruppetto di ragazzi disabili mentre nuotano in piscina, l’amica che dovrebbe lavorare insieme a lei è partita con un uomo per le Canarie, può affiancarla Simon?

    Le Canarie e la piscina sono i due spunti per ampliare la caratterizzazione dei personaggi e per dare inizio ad una sottotrama.


Nel 1977 il padre di Simon che in realtà neppure sapeva che sarebbe diventato padre era morto nel tremendo disastro aereo dell’aeroporto di Los Rodeos nelle Canarie, quando l’aereo della KLM proveniente da Amsterdam aveva investito l’aereo della Pan Am arrivato dagli Stati Uniti. Era morto veramente Cornelis Weiman? Né la moglie né il padre sapevano che sarebbe partito, il suo corpo non era mai stato ritrovato- era forse tra quelli che non era stato possibile identificare? La sua morte aveva privato un padre del figlio, una moglie del marito e un figlio del padre. Ma è solo ora, dopo una visita al memoriale nel cimitero insieme al nonno, che Simon incomincia a porsi domande, a voler sapere di più, a cercare su internet ogni possibile notizia, ogni testimonianza dei pochissimi superstiti. E perché sua madre non era voluta andare alla cerimonia commemorativa del 2007?


    Si apre così uno squarcio sulla sottotrama che ci ricorda “Il fu Mattia Pascal”- chi era Cornelis Weiman, con chi era partito, la sua paura, la decisione che gli aveva salvato la vita.

    In controparte, ad Amsterdam, Simon, dichiaratamente gay, ha qualche incontro fuggevole con un paio di uomini, con uno scrittore che si fa tagliare i capelli da lui, che sta scrivendo un romanzo che ha un barbiere come protagonista e che gli ruba la storia del padre morto in un incidente aereo. E poi Simon si sente attratto dal più grande dei ragazzi disabili, un bel ragazzo di cui però fraintende le intenzioni.

    Il romanzo di Gerbrand Bakker è una storia di solitudini. Non c’è un personaggio che sia felicemente accoppiato- non il nonno nonostante dica di essere ricercato dalle signore della sua casa di riposo, non la madre di Simon (è una bella donna, perché non si è mai risposata?), non lo scrittore che scrivendo si appropria della vita degli altri, non il gestore del bar per gay che racconta di una vicenda rovente (e pericolosa) che ha avuto a Teheran, non Cornelis che conta il passare degli anni con il numero di cani che ha avuto, non i ragazzi disabili chiusi più di ogni altro nella loro diversità, non Simon, infine, che non ha neppure potuto scegliere la sua vita, che è sempre stato l’orfano del disastro aereo.


   Raccontato così, sembrerebbe un romanzo triste e invece non lo è affatto. La narrativa procede come in un intrigante gioco di specchi che ci fa pensare al quadro dei ‘coniugi Arnolfini’ di Van Eyck- immaginate Simon che vede il suo riflesso nello specchio del negozio da barbiere e nello stesso tempo vede pure il riflesso dello scrittore o del ragazzo disabile a cui taglia i capelli sfiorandogli il collo, e poi lo scrittore che, pure lui, vede se stesso e Simon nello specchio e tutte le loro storie si riversano nelle pagine di un romanzo dentro il romanzo. C’è una leggera ironia che pervade tutto il libro, una scherzosità che alleggerisce ogni tragedia, una volontà di vivere bene la solitudine o la scelta di essere single cercando l’affetto dove lo si può trovare.




martedì 7 gennaio 2025

Hélène Gullberg, “La protetta” ed. 2024

                                                                   Vento del Nord

                                              cento sfumature di giallo


Hélène Gullberg, “La protetta”

Ed. Neri Pozza, trad. Gabriella Diverio, pagg. 436, Euro 19,00

    Con una strizzata d’occhio alla mitica Lisbeth Salander nella creazione della protagonista Majja Skog (ci tiene sempre a precisare, ogni volta che si presenta, che il suo nome è Majja con due j), questo è un romanzo del tutto originale che dà al lettore ben più del banale brivido del solito thriller, che solletica la curiosità non tanto per il quesito da risolvere su chi abbia ucciso Sten Hammar, il collezionista trovato morto nella sua splendida magione, ma perché anche noi, come Majja bambina, restiamo incantati ad ascoltare i segreti dietro le antichità, i dettagli sulle opere d’arte e sugli studi capillari che si devono fare per saper riconoscere un ‘vero’ da un ‘falso’.

     La vicenda inizia alla fine degli anni ‘90 quando Sten Hammar capita per caso nel granaio dello stesso color rosso Falun di tutte le case della Svezia centrale, e resta incuriosito dal cartello esposto fuori, “Mercatino delle pulci”. Entra e trova di tutto, come è tipico nei negozi dei rigattieri, tante cianfrusaglie e roba vecchia e di poco conto e poi, però, ci sono anche dei pezzi di valore, per lui che sa vedere. È come vedere brillare dei fili d’oro in un pagliaio. Sten Hammar fiuta l’affare. A lui non importa quale sia la provenienza degli oggetti che gli interessano, anzi, questo fa parte del patto che stringe con l’ubriacone che è il padrone del granaio- il silenzio di Hammar contro l’esclusiva vendita degli articoli più pregevoli. Nel patto Skog aggiunge qualcos’altro: una volta alla settimana Hammar insegnerà alla piccola Majja quello che sa sull’arte.


    Una ventina di anni dopo Majja è diventata la Lisbeth Salander della casa d’aste più famosa di Stoccolma (sono i colleghi ad averla soprannominata così), il suo verdetto sull’autenticità di un pezzo da acquistare è legge, solo lei è affidabile, la sua competenza è straordinaria. Tanto quanto il suo aspetto alla Lisbeth- capelli rasati a zero (sapremo poi perché), piercing, Dr. Martens ai piedi, abbigliamento alla punk. Quando Sten Hammar viene trovato morto, la detective Karin Klinga incarica Majja Skog di valutare la preziosa collezione del defunto, senza sapere ancora quanto bene Majja conoscesse lui, la sua casa e tutte le antichità che vi erano contenute.

   Karin Klinga è il secondo personaggio principale ed è, come donna, l’opposto di Majja. Quanto Majja è raggelante e scostante, tanto Karin, pur nella correttezza del suo incarico, non può nascondere il suo essere donna e madre. Sono complementari, Karin che si sta separando dal marito e ha due figli e Majja che non ha mai conosciuto la madre e ha solo un fratello che rivedrà ora per la prima volta dopo anni. Di certo è Majja la più interessante delle due e, con lei, la sua vita divisa tra il lezzo della fattoria e lo splendore della casa di Sten Hammar e del mondo di bellezza che lui le insegna a riconoscere e valutare con pazienza e competenza.


È un insegnante nato, Sten Hammar, è sufficiente vedere come inizia l’apprendimento, quando getta a Majja un tappeto ordinandole bruscamente di contare i nodi sul rovescio. Ci sarà un secondo tappeto e poi un terzo con la spiegazione di questo insolito metodo di insegnamento. Ci saranno oggetti d’argento, mobili, quadri. Spiegazioni sulla procedura di lavorazione, sul come e quando un oggetto è nato, su differenze e somiglianze. Restiamo affascinati noi come Majja che ha un occhio innato per la bellezza e una memoria straordinaria. E poi, però, che cosa era successo? Perché adesso Majja diceva addirittura di non conoscere Sten Hammar? Che segreto nascondeva la tabacchiera d’argento, l’unico oggetto che in apparenza era stato rubato, esposto insieme alle innumerevoli altre tabacchiere più preziose nella stanza di cui solo tre persone conoscevano l’esistenza?

    Ritorniamo così al filone ‘giallo’ che ha una soluzione inaspettata, ma- confessiamolo- a noi interessa poco anche se abbiamo sperimentato il ‘brivido giallo’ tremando per la vita di uno dei personaggi. Siamo passati dalle stelle alle stalle, per così dire, ma siamo ancora abbagliati dalla luce di quelle stelle. Se questo è il primo romanzo di una serie, aspettiamo di incontrare di nuovo l’eccentrica Majja.



lunedì 6 gennaio 2025

Shankari Chandran, “Chai time at Cinammon Gardens”

                                               Voci da mondi diversi. Australia

guerra civile in Sri Lanka
in altre lingue

Shankari Chandran, “Chai time at Cinammon Gardens”

Ultimo Press, pagg. 368, Euro 11,24

   Cinammon Garden- un quartiere di Colombo, nello Sri Lanka, di cui ricordavamo il nome dopo aver letto il romanzo con questo titolo di Shyam Selvadurai.

Profumo di tè speziato, il chai che si beve in tutto l’Oriente asiatico.

Un titolo che sa di nostalgia, un titolo che trae in inganno, perché il romanzo di Shankara Chandran, vincitore del Miles Franklin Prize, il più prestigioso premio letterario australiano, è pieno di nostalgia ma anche di dolore, di umiliazione, di atrocità, di guerra.

   Cinammon Gardens è il nome di una casa di riposo per anziani nel quartiere di Westgrove, a Sydney, in Australia. Dagli anni ’80 del ‘900 i proprietari sono Maya e Zhakir Ali, fuggiti dallo Sri Lanka dopo che Zhakir, un archeologo di templi, era stato arrestato e pesantemente torturato nel corso della guerra civile insieme al padre di Maya, anche lui un famoso archeologo. Il padre di Maya era morto e Zhakir non sarebbe mai più stato lo stesso- era crollato sotto le torture, aveva ritrattato tutto, aveva giurato che avrebbe distrutto il libro scritto con il suocero in cui la scoperta di un tempio Tamil nel nord era la prova che i Tamil erano arrivati per primi sull’isola.


    La narrativa del romanzo- storia di una famiglia, storia dello Sri Lanka, storia dell’Australia- si sviluppa in un arco di tempo che va dagli anni ‘80 del secolo scorso ai giorni nostri, con cinque personaggi principali che si alternano alla ribalta. E l’inizio sembra idilliaco, con gli anziani ospiti di Cinammon Gardens che vengono trattati con affetto, viziati con i cibi che ricordino loro la vita passata, tempo trascorso in una stanza giochi, mentre noi veniamo introdotti a conoscere Maya (scrive romanzi seriali con una protagonista australiana sotto uno pseudonimo del tutto australiano dopo essersi vista rifiutare manoscritti giudicati troppo ‘etnici’), Zakhir che si sveglia ancora con gli incubi di notte e poi, ad un certo punto scompare e viene dato per morto, la loro figlia Anji che lavora come psichiatra nella casa di riposo, la sua amica bionda e australiana, Nikki, che è geriatra, Ruben, infine, uomo tuttofare a Cinammon Gardens, anche lui fuggito dalla guerra civile con il corpo segnato da cicatrici. C’è un’ombra pesante in questo quadro di persone che cercano di recuperare una qualche serenità, c’è il nome della bimba Florence, figlia di Nikki, una bimba di tre anni della cui morte sapremo i dettagli solo alla fine.


È un’ombra che ne introduce altre, come nubi oscure che si addensano su Cinammon Gardens. Ruben viene assalito e picchiato mentre ritorna dal lavoro (conosce dieci lingue, insegna Tamil), graffiti oltraggiosi appaiono sui muri della casa di riposo, il marito di Nikki, che sta per essere estromesso dal suo partito e abbandonato dalla moglie, cavalca l’onda del razzismo. Bastano poche parole che vengono stravolte e gonfiate a dismisura perché si accenda la discussione, volino accuse- le solite accuse che si rivolgono agli immigrati anche se hanno lavorato onestamente per anni nel paese che li ha accolti, anche se conoscono la storia di questo paese meglio degli indigeni.

    La Storia non insegna niente, tutto si ripete. Ad ogni episodio di violenza nella moderna Australia che sembra aver dimenticato le sue origini corrisponde la violenza perpetrata nel passato in un altro paese, il silenzio che l’Australia bianca ha imposto agli aborigeni è il silenzio a cui si vuol ridurre la cultura Tamil. E allora la voce di un libro deve essere salvata, si può morire per un libro, perché è il simbolo della libertà di pensiero, ci si può gettare nelle fiamme per salvare un libro, come fa Ruben nell’incendio finale che riduce tutto in cenere, un fuoco che aveva covato a lungo prima di divampare insieme alle passioni, all’odio, alla gelosia.


   Forse non è equanime la descrizione dei personaggi, forse la maggioranza dei personaggi australiani sono cattivi mentre gli indiani dello Sri Lanka sono grandiosi anche quando sono deboli come Zakhir e diventano degli eroi quando sono generosi come Ruben (solo nelle ultime pagine sappiamo quello che ha passato e come non sia arrivato per caso a Cinammon Gardens). E comunque sono tutti indimenticabili.



domenica 5 gennaio 2025

I dieci bellissimi (o molto belli) del 2024

 

    Eccoci all’appuntamento dei dieci bellissimi del 2024. E, come lo scorso anno, devo premettere che mi è sempre più difficile scegliere, che sempre più spesso mi capita di non terminare la lettura di un libro perché, se mi fermo un attimo a pensare, mi rendo conto che non mi ‘dà niente’, che sto sprecando tempo. E, come lo scorso anno, preferisco dire che ho scelto i titoli di libri molto belli (alcuni sono libri di genere, ma di un genere di qualità) tra cui ce ne sono un paio che giudico bellissimi- a voi decidere quali, perché poi molto dipende anche dal gusto del lettore e la mia è una classifica soggettiva, naturalmente.

-        Tan Twan Eng, “Il dono della pioggia”   ed. Neri Pozza

-        Enrica Ferrara, “Mia madre aveva una cinquecento gialla”, ed. Fazi

-        Rhadika Jha, “La foresta nascosta”, ed. Sellerio

-        Mirinae Lee, “Le otto vite di una centenaria”, ed. Nord

-        Eleonora Lombardo, “Sea Paradise”, ed. Sellerio

-        Federica Manzon, “Alma”, ed. Feltrinelli

-        Gaëlle Nohant, “L’archivio dei destini”, ed. Neri Pozza

-        Aslak Nore, “Il cimitero del mare”, ed. Marsilio

-        Abraham Verghese, “La porta delle lacrime”, ed. Neri Pozza

Shankari Chandran, “Tea time at Cinammon Gardens”

Il decimo libro è fuori concorso, per così dire, perché l’ho letto in inglese e non c’è ancora un’edizione italiana. Il romanzo della scrittrice Tamil australiana Shankari Chandran ha vinto il Miles Franklin Literary Award.

 

giovedì 2 gennaio 2025

Liz Moore, “Il dio dei boschi” ed. 2024

                   Voci da mondi diversi. Stati Uniti d'America

cento sfumature di giallo

Liz Moore, “Il dio dei boschi”

Ed. NN, trad. Ada Arduini, pagg.544, Euro 20,90

 

    Ambientazione: Camp Emerson negli Adirondack. È un campeggio estivo per ragazzi, di proprietà della famiglia Van Laar che abita in una villa sulla sommità della collina.

    Tempo: due vicende paurosamente simili, una che si svolge nel 1961 e una nel 1975.

    Personaggi: sono tanti. I principali sono i membri delle famiglie Van Laar e McLellan che sono amici nonché avvocati dei Van Laar- c’è un Peter II Van Laar (il nonno) e un Peter Van Laar III (il figlio), ci sono la moglie di Peter III, il giovane Jean Paul McLellan (stesso nome del padre), la donna androgina che si fa chiamare soltanto con le iniziali TJ e che dirige il campo come prima aveva fatto suo padre, Louise che lavora come coordinatrice al campo e che da anni fa coppia con il rampollo McLellan (come può illudersi che lui la sposi?).

E infine ci sono i due Van Laar scomparsi. Il primogenito, un altro Peter che però è soprannominato Bear e che è scomparso nel 1961, e sua sorella Barbara, un rimpiazzo per così dire, che scompare nel 1975 mentre passa l’estate al campo.


    Il lettore viene immediatamente coinvolto nella scomparsa di Barbara (14 anni), la ragazzina che dormiva nel letto a castello sotto il suo non si è accorta di nulla. E però si accorgeva che Barbara usciva ogni notte, senza sapere chi andasse a incontrare. A quell’età, non è logico avere un appuntamento amoroso? Con chi? Dovremo invece aspettare molto prima di sapere i dettagli della scomparsa di Bear il cui corpo non era mai stato trovato.

    Liz Moore tratteggia i suoi personaggi in maniera superlativa, avvicendando nei capitoli quelli che dominano il palcoscenico. I Van Laar e i McLellan hanno tutta la spocchia dei molto ricchi, ma perché i Van Laar avevano fatto sospendere le ricerche di Bear nel 1961 accontentandosi di un presunto colpevole che non aveva mai potuto scagionarsi perché era morto per un infarto? Nascondevano qualcosa?

   La madre di Bear e di Barbara è una donna giovane e molto fragile. Si era sempre chiesta perché Peter III, più anziano di lei, l’aveva sposata quando lei aveva solo diciassette anni. Era così insignificante, lei. Faceva tanti errori e temeva i rimproveri del marito. La nascita di Bear era stata il colmo della felicità anche se aveva dovuto obbedire e lasciare che una tata si occupasse di lui, anche quando di notte lui la chiamava con la sua vocetta. Il medico le aveva dato dei calmanti, lei aveva iniziato a bere per darsi coraggio nelle apparizioni in società. La morte del figlio l’aveva mandata del tutto fuori di testa. Poi era arrivata Barbara, che lei non riusciva ad amare.


    In un modo o nell’altro le donne, pur con difetti e manchevolezze, sono personaggi positivi nel romanzo di Liz Moore, in forte contrasto con gli uomini, incapaci di empatia, spesso violenti e mentitori, interessati soprattutto al loro profitto. Non c’è soltanto la trama, anzi, le trame principali che ci tengono incollati al libro. C’è anche una miriade  di sotto-trame, con infatuazioni adolescenziali e amori e disamori e tradimenti, che riguardano i personaggi minori offrendoci un quadro completo di questa micro-società in cui le donne devono veramente lottare per essere se stesse.

    Le tessere del puzzle vanno a posto a poco a poco- anche i due personaggi circondati da un’aura di folklore, Slitter che aveva ucciso non so quante donne e Scary Mary, la donna con i capelli grigi che si lamentava nel bosco, hanno un ruolo nel risolvere l’enigma. E la tensione è stata fortissima, fino alla soluzione finale.