martedì 25 marzo 2025

Mathias Énard, “Disertare” ed. 2025

                                                       Voci da mondi diversi. Francia



Mathias Énard, “Disertare”

Ed. e/o, trad. Yasmina Melaouah, pagg. 224, Euro 18,50

    Un soldato lacero e sporco, in fuga da una guerra non precisata, in un tempo non detto- non sono forse uguali tutte le guerre in un tempo che non ha misura? Hanno bisogno di un nome, i soldati?

   11 settembre 2001- questa è una data impressa nella memoria di tutti perché segna la fine delle sicurezze del mondo occidentale. Su una imbarcazione sulla Sprea, nei pressi di Berlino, ha luogo un convegno per celebrare Paul Heudeber, un geniale matematico tedesco sopravvissuto a Buchenwald e rimasto fedele alla Germania dell’Est nonostante il crollo del comunismo, nonostante la separazione da Maja, la donna da lui amata e da cui aveva avuto una figlia- Maja aveva scelto l’Ovest dove era diventata una figura di spicco nell’agone politico.


    Due narrative diverse, per contenuto e per stile, unite dal sottile filo del ‘disertare’ che ci obbliga immediatamente a riflettere. Perché, che cosa significa disertare? Ha più di un significato- siamo abituati a pensare che significhi ‘tradire’ abbandonando le file dell’esercito del paese a cui apparteniamo, ma molto più semplicemente vuol dire proprio ‘lasciare’, ‘abbandonare’. E, in entrambi i casi, ha sempre un connotato negativo, quell’abbandono? Se fuggire da una guerra non è vigliaccheria ma un rifiuto di continuare ad ammazzare i propri simili, che giudizio dobbiamo dare? E se tradire significa salvare qualcuno? Se abbandonare significa fare il bene di chi amiamo? Domande, domande, domande a cui troviamo una risposta che è occasione di altre riflessioni leggendo il libro.

    Il soldato in fuga si dirige verso la casa isolata in cui ha vissuto da bambino, ha fame e sete. Una volta lì viene raggiunto da una donna con un asino, anche lei è in fuga. Ognuno dei due ha paura dell’altro- lui teme che lei possa rivelare la sua presenza, lei che lui le usi violenza come altri soldati hanno già fatto. La storia proseguirà nel silenzio dei protagonisti- una fuga di lei, un fulmine che sembra essere una punizione divina, un’inaspettata generosità di lui, l’arrivo a sorpresa di altri uomini, un tradimento e un abbandono che si trasformano in salvezza.


    La narrativa che si svolge sull’imbarcazione è più articolata e più ricca di personaggi. La figura di Paul Heudeber domina su tutti- era uno studioso che vedeva la poesia nella matematica, che era stato capace di risvegliare l’interesse per la matematica nei suoi compagni prigionieri nel campo di concentramento di Buchenwald, che aveva avuto la forza di scrivere il suo libro più famoso proprio mentre era nel campo. E poi era un idealista che credeva nel comunismo e mai avrebbe abbandonato la DDR. E amava Maja. Le lettere di Paul a Maja, in anni e anni di lontananza durante i quali si incontravano saltuariamente, sono tra le pagine più belle del romanzo, una ulteriore narrativa dentro quella che ci viene raccontata dalla figlia di Paul e Maja in cui si inseriscono altri racconti sulla vita dei suoi genitori, con dettagli sconvolgenti di cui lei era ignara.


    Quanti abbandoni in questa storia- da parte di una donna che lascia compagno e figlia e poi tradimenti, e non solo amorosi, sia nel passato sia in tempi più recenti, e abbandono di ideali.

E intanto la televisione continua a trasmettere le foto delle torri gemelle che implodono nel fumo e i corpi che volano nel vuoto. È un’altra forma di guerra, un’altra forma di morte, un altro abbandono di quello in cui si è creduto.


    Due immagini insolite si rincorrono nel romanzo imponendosi alla nostra attenzione e forse faranno sorridere di incredulità- l’asino e la matematica, entrambi oggetti di amore, entrambi emblemi di salvezza. Una bestia da soma paziente e avvezza a portare carichi e a resistere in condizioni disagevoli- i migliori, quelli che sopravvivono, sono come gli asini? E la matematica come interpretazione della realtà nella sua lucida poesia- è a lei che dobbiamo aggrapparci per sopportare, per continuare a vivere in un mondo che solo la matematica può spiegare?



   

 

 

domenica 23 marzo 2025

Michel Jean, “Kukum” ed. 2025

                                             Voci da mondi diversi. Canada

      storia vera

     storia di famiglia


Michel Jean, “Kukum”

Ed. Marcos y Marcos, trad. Sara Giuliani, pagg. 224, Euro 17,10

   Un esergo bellissimo, ad introduzione di “Kukum” dello scrittore innu canadese Jean Michel. L’originale è in una lingua incomprensibile, ma la traduzione suona così: Non sempre mi ricordo da dove vengo,/ i sogni mi ricordano chi sono,/ le mie origini non mi lasceranno mai. Da queste parole, insieme al titolo, intuiamo che leggeremo la storia di un antico retaggio, di un patrimonio culturale che abbiamo il dovere di tutelare. E “Kukum” è la storia vera, seppur romanzata, della bisnonna dello scrittore stesso, la voce narrante che inizia il suo racconto da quando lei, quindicenne, lascia la casa degli zii che l’hanno cresciuta per seguire il ragazzo diciottenne che sposerà e amerà per tutta la vita.

   Lui, Thomas, è un innu, appartiene alla popolazione indigena della penisola del Labrador-Quebec, nel Canada orientale. Un tempo i primi esploratori francesi avevano dato loro il nome di  Montagnais che però venne sostituito ufficialmente nel 1990 con ‘innu’, che significa ‘l’essere umano’ nella loro lingua, l’immu-aimun.

   Lei, Almanda, ha origine irlandese- i suoi genitori erano emigrati dopo la serie di gravi carestie che avevano flagellato l’Irlanda e, però, erano morti prima ancora di stabilirsi nella nuova patria, lasciando lei bambina alle cure degli zii.


     Si vedono, da lontano dapprima, lui sulla sua canoa sul lago, lei sulla riva. Si innamorano- è l’incanto dell’amore giovane che non ha bisogno di parole, perché nessuno dei due conosce la lingua dell’altro, è l’amore che attrae gli opposti, lui con i capelli neri e la carnagione scura, lei bionda e con gli occhi azzurri. Lei lo segue fiduciosa, pronta a quella sfida, di arrivare tra gente che non conosce e che conduce una vita che le è del tutto estranea. È così facile adattarsi, quando si è giovani, quando si vuole condividere tutto con il proprio amato. Almanda impara a cacciare e impara il significato profondo della caccia, impara che si deve essere grati all’animale che si uccide perché la sua carne sarà nutrimento per la loro gente. Impara a fare i cesti, a infilare perline per adornare cappelli e abiti, a conciare le pelli che avrebbero venduto quando, con la bella stagione, sarebbero scesi verso sud, a trasportare la canoa nei tratti in cui non si può risalire il fiume. La famiglia di Thomas e Almanda diventa numerosa e vien il giorno in cui Almanda, che ha studiato, decide che la bambina più grande deve fermarsi a Pointe-Bleue per andare a scuola, mentre loro torneranno a Nord.


    Tutta questa prima parte sembra il racconto del Giardino dell’Eden in cui regna serenità e poesia e unione con la natura. Poi succede come succede nel Giardino dell’Eden e il serpente del Male che si insinua si chiama colonizzazione, sfruttamento dei territori, deforestazione- il rumore delle segherie infrange la quiete, il fiume è invaso dai tronchi che scendono a valle e non è più navigabile, gli innu non possono tornare nelle loro terre da dove derivavano la loro sussistenza, la disoccupazione e il cambiamento radicale di vita porta alcolismo, i bambini vengono portati via per essere messi in collegi. Forse è questo il peggio, il futuro negato alla cultura innu. Nel momento stesso in cui ai bambini è proibito parlare nella loro lingua, inizia per loro uno sradicamento, una perdita, la confusione sulla loro appartenenza.


    A poco serve la ribellione dell’ormai anziana Almanda che si rifiuta di lasciare la sua casa perché la ferrovia deve passare proprio di là, il suo viaggio a Québec per protestare contro il traffico incontrollato delle automobili  termina con la sua piccola vittoria: vengono costruiti dei marciapiedi. Ben poca cosa. Il tempo non si arresta. Forse a scuola si insegnerà l’innu-aimun, ma per i nipoti e i pronipoti Almanda è la grand-mère, non la kukum, con la parola ‘nonna’ nella loro lingua.

  Un romanzo poetico e drammatico, l’epopea di un popolo indigeno che non conoscevamo e che ha conosciuto la sorte degli indiani d’America e degli aborigeni australiani.


lo scrittore sarà presente oggi a Book Pride

 

martedì 18 marzo 2025

Philippe Boxho, “La parola ai morti. Indagini di un medico legale” ed. 2025

                                                            Voci da mondi diversi. Belgio

cento sfumature di giallo

Philippe Boxho, “La parola ai morti. Indagini di un medico legale

Ed. Ponte alle Grazie, trad. Rossella Monaco, pagg. 240, Euro 17,10

 

    Chi mai potrebbe pensare che un libro che racchiude l’esperienza di un medico legale sia non solo interessante ma anche una lettura piacevole seppur macabra? Il merito è indubbiamente dell’autore che è capace di farci dimenticare lo spettacolo e gli odori sgradevoli della morte con la sua prosa lucida, asettica e tuttavia non priva di calore umano e di un lieve umorismo che alleggerisce l’atmosfera.

    Far parlare i morti- è questo l’intento di Philippe Boxho, come dice lui stesso nell’introduzione. Farli parlare e ascoltarli- lo dobbiamo ai morti, dobbiamo loro lo stesso rispetto che proviamo per i vivi e questo significa che è imperativo scoprire la causa della loro morte, al di là delle apparenze.

Tutti i casi di cui Boxho parla sono veri, forse ha inventato qualche dettaglio, ma nella sostanza sono tutti veri. E prima di tutto mette in chiaro che sono parecchie le cose da sfatare se chi legge ha in mente certi sceneggiati televisivi dove i tecnici della scena del crimine hanno l’aspetto di modelli impeccabili che si muovono su grosse auto scintillanti. Gli obiettivi della moderna Scienza forense sono di identificare il colpevole e stabilire le modalità con cui il reato è stato commesso. La scoperta del DNA ha di certo facilitato individuare con certezza l’autore del crimine e la ricerca delle tracce sulla scena ha portato ad una maggiore specializzazione del personale investigativo.


    La giornata del medico legale- precisiamo, per ‘giornata’ non intendiamo quella definita dal sorgere del sole- inizia con una telefonata più o meno del tenore, “Pronto dottore? Vorrei che andasse ad esaminare una persona deceduta…”. Il medico legale deve recarsi a vedere non solo chi è morto di morte violenta- gli omicidi e i suicidi-, ma anche tutti quelli che sono morti in casa. E inizia così la serie dei racconti del dottor Philippe Boxho che sono di una estrema varietà- la figlia che credeva di aver ucciso il padre (che invece era già morto), l’uomo che sembrava morto, ma era solo caduto, non era riuscito a rialzarsi ed era rimasto a terra per almeno un paio di giorni, un marito che si addormentava regolarmente davanti alla televisione in certe sere (la moglie gli propinava delle gocce per poter incontrare l’amante), un altro marito avvelenato dalla moglie, la donna che era stata colpita da una crisi catalettica ed era già nella bara quando si era rialzata per salutare l’amica venuta per darle l’ultimo saluto (l’amica è morta di infarto, impossibile non sorridere), la ragazzina scomparsa che poi era tornata a casa (chi era l’altra che era stata sepolta al suo posto?), e poi altri casi di suicidi, veri o fatti passare per tale. Per ognuno di questi casi lo scrittore abbozza una storia delle vicende della persona che è morta, della sua personalità, dei suoi legami affettivi o della solitudine in cui aveva vissuto, indugia a descriverci l’ambiente in cui il corpo è stato ritrovato, prima di procedere agli esami che gli competono.


     Leggere “La parola ai morti” è come leggere tanti romanzi ‘gialli’ con una differenza sostanziale. Il punto di vista è quello del medico legale che con precisione, pazienza e puntigliosità, ci spiega passo per passo come procedere per rendere giustizia ai morti, per spiegarci che cosa è successo e come si arriva al risultato di fare chiarezza. È un libro pieno di dettagli interessanti (l’esame delle mosche che si trovano a nugoli intorno a un cadavere, la necessità di trovare il foro di uscita di un proiettile), spiegati tutti come se il medico scrittore si trovasse davanti ad una classe di alunni attenti ma sprovveduti. E poi quello che rende questo libro una lettura diversa è la capacità di Philippe Boxho nella veste di medico legale di entrare in empatia con i morti, senza mai dimenticare che, fino al momento fatale, erano vivi come noi.



 

 

domenica 16 marzo 2025

Pietro Spirito, “E’ notte sul confine” ed. 2025

                                                                 Casa Nostra. Qui Italia

    cento sfumature di giallo

Pietro Spirito, “E’ notte sul confine”

Ed. Guanda, pagg. 250, Euro 18,00

 

     Ecco un altro libro che, come quello di Leonardo Gori, ci piace per l’atmosfera- Trieste 1970, corrono voci di un colpo di stato promosso da Junio Valerio Borghese, è in programma una visita ufficiale di Tito dalla Jugoslavia, si temono disordini. E infatti il romanzo si apre con una scena di cui capiremo la portata interamente solo alla fine- nella boscaglia vicino alla linea di confine una pattuglia di soldati italiani viene sorpresa dalle guardie di confine jugoslave, sempre pronte, a torto o a ragione, a bloccare i possibili trasgressori. Un caso? Avevano ricevuto una soffiata?

    Il protagonista di “E’ notte sul confine” (notte vera come nella scena iniziale e in un’altra, cruciale, più avanti, e notte simbolica in questa città dalla posizione affascinante ma difficile) è il giornalista Ettore Salassi, single, con una storia d’amore appena terminata per una sua propria incapacità a legarsi ad un’altra persona, un rapporto conflittuale con i genitori ormai defunti, un passato oscuro, giusto per accentuare il buio su Trieste. Ettore era un ragazzino, aveva mentito sulla sua età quando si era arruolato nelle Forze di Terra della Decima Mas- era stato il motivo della discordia con suo padre, professore antifascista. Poi- come dice Ettore stesso- si cresce, si cambia, si vedono le cose in un’altra maniera. Ed Ettore Salassi, giornalista, era stato reclutato dai Servizi Segreti, accettando di raccogliere informazioni sugli estremismi di destra e di sinistra, di scrivere articoli pilotati ad uso dei Servizi.

Junio Valerio Borghese

Ancora due dettagli per raffigurarcelo, questo quarantenne disordinato e facile agli innamoramenti e a farsi irretire- assomiglia all’attore Charles Bronson (finché, su suggerimento della donna che lui crede di aver conquistato, non si taglia i baffi) e ha un vizio, un tipo di cleptomania particolare perché ruba soltanto libri. Non diceva forse suo padre che nei libri ci sono le risposte per tutte le domande?

    La routine della redazione del giornale viene vivacizzata (si fa per dire) quando un pescatore trova, al largo, il cadavere di un ragazzo, un giovane militare di stanza nella caserma sul Carso. Le istruzioni dall’alto sono di diffondere la voce che è stato ucciso per questioni di droga, un suo compagno d’armi nega che l’amico avesse qualcosa a che fare con la droga, lascia intendere qualcos’altro, un altro uomo viene ucciso- aveva parlato troppo? Aveva calcato sul traffico d’armi nel mare di Trieste?

      Avevamo capito che il nostro Ettore Salassi, nonostante l’esperienza di guerra che non ama ricordare, nonostante la Beretta che gli è stata data dal Colonnello dei Servizi, è piuttosto ingenuo e benpensante, tanto da cadere in una trappola e da trovarsi piuttosto malconcio in ospedale.


Mentre si annunciano disordini in città, mentre si temono le dimostrazioni dell’estrema destra e la visita di Tito viene annullata, è possibile fare luce sulla morte del giovane militare? O, detto chiaramente, è possibile fargli giustizia e rivelare apertamente chi lo ha ucciso?

L’equilibrio di una città di confine è precario, le conseguenze della verità potrebbero avere l’effetto farfalla, è notte sul confine.




mercoledì 12 marzo 2025

Aleksandr Solzenicyn, “Reparto C”

                                                                                       Off the main road

Consigli per letture e riletture
Premio Nobel

Aleksandr Solzenicyn, “Reparto C”

Ed. Einaudi, trad. Giulio Dacosta, pagg. 580

    Quando siamo delusi da tutte le novità impilate sui banchi delle librerie, quando non sembra più esserci nessun romanzo che non ci dia l’impressione di perdere tempo, prendiamo in mano un romanzo russo e sarà tutta un’altra storia. Forse è la storia travagliata e tragica della Russia, forse è il loro clima impietoso che costringe ad una vita che si chiude nell’interno della casa e nell’interno dell’anima portando alla riflessione- ci deve essere qualcosa che fa sì che i romanzi russi siano diversi, abbiano una pienezza che non ci stanca e non ci annoia, che regge anche ad una rilettura a distanza di anni.

     Avevo letto “Reparto C” di Aleksandr Solzenicyn nel 1969. L’ho riletto adesso: è sempre uno splendido romanzo. Scritto tra il 1963 e il 1967, il segretario dell’Unione degli Scrittori dell’URSS ne vietò la pubblicazione sulla rivista Novyi Mir anche se il libro era già circolato clandestinamente. All’insaputa dell’autore il romanzo fu pubblicato in Europa e la stampa russa iniziò una campagna denigratoria contro l’autore che nel 1969 fu espulso dall’Unione degli Scrittori. In Italia apparve dapprima, nel 1968, con il titolo di “Divisione Cancro” di ‘autore anonimo’ presso Il Saggiatore e dopo, con il titolo “Reparto C”, presso Einaudi e con il nome dell’autore.


    1955, due anni dopo la morte di Stalin. Una città mai nominata, presumibilmente Tashkent. Un ospedale per gli ammalati di cancro- Solzenicyn stesso fu ricoverato nell’ospedale oncologico della capitale uzbeca e molto di quello che leggiamo è la sua propria esperienza. Il  padiglione 13 (nella numerazione avrebbero dovuto saltare questo numero sfortunato) è un microcosmo, la controparte di quello rappresentato ne “L’arcipelago Gulag” che l’autore scrisse contemporaneamente. La morte è in attesa, sia per gli uomini del reparto C sia per i prigionieri nel Gulag, ma nell’ospedale si combatte per allontanare la morte curando gli ammalati, mentre nel Gulag si cerca di affrettarne la fine.

     Due gruppi di personaggi- gli ammalati- e sono uomini, i medici- e sono per lo più donne. Ad un certo punto compare, unica, una ragazzina spavalda, con i capelli gialli, che è ammalata ma si rifiuta anche solo di pensarlo e che fa amicizia con il giovane Demka. Lo compatisce, come farà a vivere, Demka, se gli amputano una gamba? Più tardi, lei che doveva fermarsi pochi giorni, piangerà sconsolata accanto al letto dell’amico- come potrà indossare un costume da bagno?

Tashkent

     I degenti vengono alla ribalta uno per volta, a poco a poco li conosciamo tutti e sappiamo tutto di loro. Uno, però, diventa il protagonista- l’alter ego dello scrittore. È Kostoglotov, ex topografo, ex combattente, ex deportato ed ora condannato al confino perpetuo. È colto, sa discutere con i medici sulle terapie a cui lo sottopongono, è un lottatore impavido che non si arrende. Ed è anche protagonista di una delle più belle storie d’amore della letteratura. Perché nel grigiore dell’ospedale, nell’ansia quotidiana dei controlli medici per vedere a che punto è il tumore dell’uno o dell’altro, fiorisce anche l’amore insieme alla speranza di poter godere ancora di un frammento di vita.

Di contro a Kostoglotov un altro personaggio deve essere citato. Rusanov è la controparte di Kostoglotov. Rusanov arriva altezzoso, pretenderebbe maggiore attenzione, non vorrebbe mescolarsi a questa gentaglia. E invece deve. Se Kostoglotov ha conosciuto il Gulag, in teoria Rusanov sarebbe potuto essere il suo delatore. È terrorizzato, Rusanov, quando la moglie gli dice che ‘stanno tornando’. Tornano i sopravvissuti alla deportazione- e se volessero vendicarsi?


    Eleggiamo anche tra i medici due protagoniste, due donne eccezionali- la Doncova, che si è prodigata oltre ogni limite, che ha fatto scuola a tutti gli altri medici, e che ora è ammalata anche lei. E Vera Gangart, anzi Vega, con il nomignolo che confida a Kostoglotov. Vega dall’iniziale del nome e cognome, Vega come la quinta stella più luminosa del cielo notturno. La dolcissima Vega, così paziente, così umana, che ha tempo per tutti gli ammalati, che ha una parola di conforto per ognuno. E’ di lei che Kostoglotov si innamora, ricambiato. Ma può avere un futuro questo amore?

    Come in quell’altro bellissimo romanzo che si svolge tra ammalati, “La montagna incantata” di Thomas Mann, anche qui ci sono discussioni politiche ed etiche tra i personaggi. E’ lo spettro della morte che invita a riflessioni su quale sia il senso della vita, è la fine di un’epoca (nel romanzo di Mann incombe la prima guerra mondiale e in quello di Solzenycin il rivolgimento del dopo-Stalin) che spinge a farsi domande sulle idee del passato e sul futuro.

     Aleksandr Solzenicyn vinse il premio Nobel nel 1970. Non andò a ritirarlo per timore che non gli venisse concesso di rientrare in patria. Testimone e vittima del regime comunista, questo scrittore- grande quanto Tolstoj e Dostojevskji- sembra essere stato dimenticato, messo da parte. C’è da chiedersi il perché.

    Leggete, o rileggete Solzenicyn. C’è un solo rischio: quello di non essere soddisfatti da qualunque altra lettura si inizi dopo di lui.



 

 

Off the main road

 

     


     È da un po’ di tempo che provo insoddisfazione nel dover seguire le novità letterarie che troppo spesso mi deludono. Ho deciso che è arrivato il momento di seguire il mio desiderio- tempus fugit, me ne resta poco e voglio fare anche letture ‘off the main road’ (per così dire), voglio rileggere libri che ho amato nella mia giovinezza e anche in tempi più recenti, voglio seguire la mia curiosità quando un romanzo mi rimanda ad un altro romanzo che forse non è neppure tradotto in italiano. E allora, sotto l’etichetta ‘Consigli per letture e riletture’, metterò degli appunti, sperando che possano interessare, o indicherò dove si può trovare sul blog la ‘vecchia’ recensione da rispolverare.

lunedì 10 marzo 2025

Kevin Chen, “Città fantasma” ed.2025

                                                       Voci da mondi diversi. Cina

                                             Voci da mondi diversi. Taiwan

Storia di famiglia

Kevin Chen, “Città fantasma”

Ed. e/o, trad. Silvia Pozzi, pagg. 352, Euro 18,05

 

    Mi entusiasma la scoperta di scrittori di paesi lontani di cui finora sapevamo solo la collocazione geografica e qualche notizia sulla situazione politica. Kevin Chen è il primo autore taiwanese di cui vengo a conoscenza e la lettura del suo libro mi ha tenuto avvinta dalla prima all’ultima pagina.

    Qualche notizia al volo sullo scrittore. Facendo una ricerca su Google, possiamo restare confusi dalla duplicità del suo nome di cui però comprendiamo quasi subito la ragione. Lo troviamo sotto il nome di Chen Shi-Hung e poi come Kevin Shi Hung Chen- è piuttosto comune per gli orientali che emigrano in Europa o in America assumere un nome che sia più facile da pronunciare e ricordare- e vada per Kevin! Kevin Chen ora vive in Germania dove ha iniziato la carriera artistica come attore. Il romanzo “Città fantasma”, che ha vinto il Taiwanese Book Award ed è stato tradotto in dodici lingue, è in parte autobiografico ed è ambientato a Yongjing, una piccola città nel centro di Taiwan, da cui proviene lo scrittore stesso.


     Yongjing appare come una città fantasma a Tien-hung (ovvero il Piccolo) che vi ritorna, dopo essere stato in prigione in Germania per aver ucciso il suo compagno, anzi, suo marito, perché in Germania è possibile il matrimonio di una coppia gay. E ritorna proprio quando è la Festa degli Spiriti, quando si spalancano le porte dell’Inferno e gli spiriti calpestano nuovamente la terra. Da qui prende l’avvio la storia della famiglia Chen, tra presente e passato, raccontata da una molteplicità di voci, di persone vive e di fantasmi, un miscuglio di vicende che riguardano non solo la famiglia ma anche amici e vicini di casa, e, intrecciate a queste e ai segreti che vengono alla luce, ci sono superstizioni e frammenti della Storia di Taiwan negli anni ’80 del ‘900.

    Cinque figlie femmine erano venute al mondo prima che arrivassero i due agognati maschi. Le figlie femmine non valgono niente, una donna che mette al mondo solo figlie femmine non vale niente, finché non erano nati i due maschi la suocera ingiuriava la nuora e le riservava i lavori più duri. E poi…i due tanto attesi eredi maschi erano finiti in prigione, uno per corruzione e l’altro per omicidio.


    Dapprima si fa confusione tra i personaggi- i nomi delle prime tre figlie iniziano tutti per Shu, per la quarta, per ingraziarsi la sorte per un’altra gravidanza, Shu era stato modificato in Su. Non era bastato, era nata la quinta femmina soprannominata Man-mei per il seno prosperoso che le era cresciuto da ragazzina. Il figlio dell’imprenditore vicino di casa, il Re dei Biscotti che aveva fatto una fortuna, avrebbe dovuto sposare Man-mei prima di ripiegare sulla quarta sorella. Il perché lo leggerete in una storia su cui ridiamo e poi invece il riso si trasforma in compassione per la quarta sorella che finisce per vivere chiusa in casa, con tende scure alla finestre.

    Una, due, tre, quattro, cinque- una sposa un uomo che coltiva orchidee dopo aver sperperato soldi al gioco, una si laurea e sposa un volto noto al pubblico perché è un conduttore televisivo (ma la picchia con ogni possibile pretesto), un’altra…E si avvicendano in primo piano, con una narrativa che può essere in terza o in prima persona. Parlano anche gli spiriti, o i fantasmi- del padre (si era ritirato in un monastero, sembrava dovesse morire, ma aveva vissuto ancora a lungo), della quinta sorella- e poi il settimo figlio, ripudiato dalla madre perché gay, che ci parla di una esperienza di allontanamento in un paese di cui non conosce la lingua, di un amore che diventa tossico e che finisce molto male,


di spiagge sul mar Baltico che non hanno niente di simile a quelle della sua isola, di un sottomarino che sembra una balena piaggiata, di un ritorno e di una valanga di ricordi. Possiamo leggere un frammento di una storia raccontato da un personaggio (quella dei due librai che si tenevano per mano di nascosto e della loro libreria che era una copertura per incontri politici) e poi la rileggiamo da un altro punto di vista e poi andiamo in cerca di indizi della stessa storia in altri racconti.

    È un metodo narrativo intrigante che porta alla luce una molteplicità di problemi- dalla pesante discriminazione nei confronti delle donne a quella, altrettanto pesante, di chi ha inclinazioni sessuali diverse, dalla corruzione al Terrore Bianco, che durò dal 1947 al 1987, durante il quale moltissimi cittadini scomparvero o vennero uccisi.

    È un libro da leggere, sarete conquistati dalla vivacità della narrazione, da come le cinque sorelle dai nomi simili prenderanno vita in un’ottima caratterizzazione, da quel miscuglio di vita reale e fantastica.