sabato 12 luglio 2025

Katrine Engberg, “Il tempo della fine” ed. 2025

                                                                          vento del Nord

     cento sfumature di giallo

Katrine Engberg, “Il tempo della fine”

Ed. Marsilio, trad. Claudia Valeria Letizia, pagg. 422, Euro 20,00

 

  È febbraio quando un giovane uomo si uccide gettandosi sotto un treno in corsa. Si chiamava Daniel Leon.

  La trama incomincia a scorrere a settembre, a Copenhagen. Liv Jensen ha lasciato il suo impiego in polizia e adesso lavora come investigatrice privata- risolvere misteri è la sua passione. Ed è proprio il suo ex capo della Squadra Omicidi che le chiede aiuto per risolvere un caso vecchio di tre anni prima quando un noto giornalista è stato ucciso nella sua casa. Era cresciuto nel Nord della Danimarca dove viveva ancora suo fratello, un allevatore di maiali. La loro famiglia abitava in una grande fattoria che il giornalista avrebbe voluto trasformare in un museo, contro il parere del fratello. L’aveva spuntata il fratello, la fattoria era stata venduta ed era stata trasformata in una distilleria di whisky.

   Anche Liv abitava nel Nord e, tornando a Copenhagen, ha trovato un miniappartamento in affitto presso la famiglia Leon, sì proprio i Leon di quel Daniel che è morto lasciando un padre malato e anziano e una sorella gemella. Daniel era stato accusato di aver ucciso la moglie che lo aveva lasciato e, prima del suo suicidio, era stato per anni ricoverato in una struttura per malati mentali.


     Un altro personaggio ancora deve essere introdotto, un rifugiato iraniano che ha un’autofficina nel cortile della casa dei Leon. È un uomo con un certo fascino che vive in un barcone ed è specializzato nella riparazione di auto d’epoca. Quando viene trovata morta una donna che gli ha portato a revisionare la sua Mini 1000, è lui il primo ad essere sospettato, perché è l’ultima persona ad averla vista viva e perché anni prima aveva avuto una relazione con lei. È un uomo che ha sofferto molto, che ha ricordi della fuga tra le montagne, che sa benissimo come vengano torturati i prigionieri nelle carceri dell’Ayatollah- come è stato torturato suo padre-, c’è un filo invisibile che lo collega alla sorte dei nonni di Hannah e Daniel Leon che viene raccontata in intermezzi ambientati nel 1943, in piena guerra mondiale.

    Leon- un cognome che dovrebbe anticiparvi almeno una parte della loro storia. È una storia di particolare interesse perché rivela dei segreti di una Storia più ampia. Nell’algida Danimarca, che pensavamo fosse neutrale durante la guerra, c’erano dei bunker tedeschi costruiti lungo la sua costa settentrionale, così come c’erano navi tedesche che intercettavano le imbarcazioni degli ebrei che avevano investito i loro risparmi per pagarsi la fuga verso le coste della Svezia, verso la libertà.


Ma come il filone di questa storia di famiglia si intrecci con quelle del nostro tempo, con la scia di omicidi che in apparenza sono scollegati tra di loro, è una sorpresa intrigante che getta un'ombra oscura su persone e istituzioni.

    “Il tempo della fine” è il primo di una serie di libri che hanno Liz Jensen per protagonista e aspettiamo quelli seguenti per mettere a fuoco una investigatrice di cui sappiamo poco, di cui solo alcuni tratti vengono accennati e molti sono accennati. Piccola di statura, individualista, una compagna con cui ha un rapporto forse in crisi, un piccolo segreto sul perché abbia lasciato il corpo di polizia. Vorremmo conoscerla meglio, almeno come conosciamo il paesaggio del nord della Danimarca, brullo e spazzato dal vento, sotto un cielo basso e infinito.

    Parlando del suo libro la scrittrice ha detto che è in parte la storia della sua famiglia quella che ha raccontato nel romanzo. L’idea le è venuta quando sua madre le ha consegnato un rapporto della polizia svedese, datato 6 ottobre 1942, su una coppia di ebrei che avevano attraversato lo stretto di Øresund nascosti su di un peschereccio. Erano i suoi nonni in fuga dal nazismo e la nonna era incinta di suo padre.


 

   

 

 

    

mercoledì 2 luglio 2025

Chiara Valerio, “La fila alle poste” ed. 2025

                                                                         Casa Nostra. Qui Italia

       cento sfumature di giallo

Chiara Valerio, “La fila alle poste”

Ed. Sellerio, pagg. 366, Euro 16,00

    Chiara Valerio ritorna a Scauri nel romanzo che è ‘quasi’ un seguito di “Chi dice e chi tace”. ‘Quasi’ perché non è propriamente un seguito delle vicende del libro precedente e non è Chiara Valerio che ritorna a Scauri, sono i suoi personaggi che non si sono mai mossi da Scauri, la piccola città di mare tra Roma e Napoli. E così li ritroviamo tutti, l’avvocato Lea Russo con le due figlie e il marito, Mara che era stata la compagna di Vittoria, Filomena e Mimmo e l’avvocato che era stato il marito di Vittoria e Rebecca e anche il gatto dal nome improbabile di Gallina nera e altri ancora che non ricordavamo o non avevamo conosciuto.

Perché, nonostante l’io narrante sia sempre Lea, i due protagonisti sono altri- sono Scauri stessa, da cui ci si allontana e a cui si ritorna, e Vittoria, morta ormai da tre anni, presente assente, indimenticabile Vittoria, punto di paragone, Vittoria che non finisce di stupire, di cui tuttora si scoprono segreti, da parte della quale viene recapitato un regalo- adesso, dopo tre anni- a Lea.


    Succede così nelle piccole città che sono poco più che grandi paesi- volete sapere le novità, i pettegolezzi, i fatti degli altri? Mettetevi in fila allo sportello delle poste e, nell’attesa, c’è poco che resti nascosto, verrete a conoscere sia quello che volete sapere e sia quello che preferireste non sapere affatto.

È la fine di novembre. Scauri ha quell’aria un po’ grigia e abbandonata che hanno tutti i paesi di mare sul far dell’inverno. Succede una cosa strana, a Scauri, ne parlano tutti quelli che sono in fila alle poste- c’è qualcuno che ruba le vongole che, da che mondo è mondo, vengono messe a spurgare lungo la spiaggia, la ridda di supposizioni su chi sia il colpevole si incrocia.


E poi c’è ben altro, c’è una notizia sconvolgente e drammatica, un altro colpevole su cui puntare il dito. Una bambina è stata ammazzata. Tutto sembra indicare che sia stata la mamma ad ucciderla, però non si trova l’oggetto con cui è stata colpita. La piccola Agata era nata con il forcipe e ne aveva derivato danni permanenti. Il padre della bambina si era rivolto a Lea perché prendesse la difesa della moglie, ma erano intervenuti anche due avvocati di Roma.

    Sono queste le due esili tracce lungo le quali si svolge il romanzo. Sono come due indagini dal peso diverso che danno modo di scoprire verità nascoste e insospettate, e a queste però si aggiunge un’altra indagine interiore che ha a che fare con i sentimenti e con le pulsioni amorose. L’attrazione che Lea provava per Vittoria non è mai finita, è quasi un’ossessione dentro di lei, la spinge a porsi delle domande sul suo rapporto (molto felice peraltro) con il marito, un uomo quasi incredibilmente buono, intelligente e comprensivo, la porta ad avvicinarsi a Rebecca che era stata compagna, pure lei, di Vittoria. È come se Vittoria, così sicura di sé, così spavalda, così incurante del giudizio altrui, avesse dato coraggio ad altri che avevano vissuto amori considerati proibiti e che ora riescono a parlarne e a viverli sotto un’altra luce.

    Il passo della narrazione è diverso da quello di “Chi dice e chi tace” dove ci si aggirava in un perimetro più circoscritto di vicende e di sentimenti. Qui è come se camminassimo per le vie di Scauri, perdessimo la strada e ci avviassimo in un’altra direzione e, nel camminare, incontrassimo altre persone e facessimo altre esperienze e le paragonassimo a quelle già vissute.



lunedì 23 giugno 2025

Aslak Nore, “Gli eredi dell’Artico” ed. 2025

                                                                    vento del Nord

    cento sfumature di giallo

Aslak Nore, “Gli eredi dell’Artico”

Ed. Marsilio, trad. Giovanna Paterniti, pagg. 471, Euro 20,00

 

      L’esergo sono parole di Kim Philby, il famoso agente segreto britannico che prese la cittadinanza sovietica nel 1963: To betray you must first belong.

     Nel prologo, a Longyearbyen nelle Svalbard, una scena mozzafiato: una motoslitta arriva a gran velocità nei pressi della casa del Governatore, l’uomo che era in sella al veicolo cade pesantemente a terra. Fa in tempo a dire poche parole al governatore che si trovava lì: non doveva essere toccato, aveva bisogno di cure di emergenza, era stato avvelenato, si chiamava Zemljakov, Colonnello Vasilij Zemljakov. Aveva fatto poi il nome dei Falck, la famiglia di armatori che erano a capo della fondazione Saga con cui sovrintendevano alla conservazione degli archivi storici della Norvegia, e aveva aggiunto che loro, i Russi, avevano una talpa dentro la Saga, uno della famiglia.


    “Gli eredi dell’Artico”, secondo romanzo della serie iniziata con “Il cimitero del mare”, si annuncia dunque come un libro di spionaggio, oltre ad essere una saga famigliare, un’intrigante analisi politica nello scenario affascinante dell’estremo Nord, un tempo zona di scarso interesse ed ora di enormi possibilità con il cambiamento climatico in atto. Lo scioglimento dei possenti ghiacciai dell’Artico potrebbe garantire un passaggio a Nord che accorcerebbe di gran lunga il tempo di navigazione per gli scambi commerciali con l’Oriente.

    Le isole Svalbard, tra i 74° e gli 81° di latitudine Nord, a metà strada tra Groenlandia e Russia, sono un’area non incorporata della Norvegia, ma, per il trattato del 1920 che ne regola lo stato giuridico, gli altri 14 stati firmatari hanno il diritto di svolgere attività economiche e scientifiche nell’arcipelago, senza discriminazioni. E una Falck del ramo di Bergen della famiglia, Connie Knarvik (aveva cambiato il cognome negli anni ‘comunisti’ della sua giovinezza), possedeva delle terre con una miniera nelle isole- era quella Adventdalen che sarebbe diventata il pomo della discordia, ambita dai russi ma soprattutto da Alexandra Falck che offriva delle azioni della Saga per comprarsi il sostegno di Connie alla nomina di Presidente.


    La trama del romanzo è fitta di personaggi, di avvenimenti e di intrighi e il quadro è ampio, spazia dalle Svalbard alla Russia, alla Norvegia e al Medio Oriente. Sullo sfondo il naufragio del traghetto della Hurtigruten che era affondato nel 1940 causando la morte di 300 persone che erano a bordo, tra di loro anche Thor Falck. È difficile che delle verità che restano misteri per anni vengano del tutto alla luce. Nel caso della famiglia Falck ci sono ancora molte ombre, molti segreti, molti punti dubbi che suscitano contese e rivalità. Quando il testamento di Vera, vedova di Thor Falck, fa perdere alla nipote Alexandra non solo la nomina di Presidente della Saga ma anche l’avita dimora di Oslo in cui è cresciuta, si riaccendono gli odi e riprendono le lotte tra i due rami della famiglia.


    Il romanzo di Aslak Nore è, però, ben altro che una vivace e interessante storia di famiglia. C’è una quadrupla corrente di suspense che segue dei filoni con molteplici implicazioni, alcune delle quali di grande attualità politica- chi sarà eletto, in definitiva, Presidente della Saga? Chi acquisterà la Adventdalen da Connie Falck? Chi è la talpa russa tra i Falck? È vera o falsa l’accusa di far parte della CIA fatta a Hans Falck preso prigioniero dai russi? E infine, la vera grande sorpresa del libro è l’identità di John Berg, il giornalista che aveva avuto un ruolo importante nel libro precedente. Come già era successo quando avevamo terminato di leggere “Il cimitero del mare”, l’ultima pagina de “Gli eredi dell’Artico” ci fa desiderare di leggere il seguito al più presto.

   Se cercate un thriller diverso dal solito e niente affatto banale, questa è la lettura per voi.



martedì 17 giugno 2025

Cristina Cassar Scalia, “Delitto di benvenuto. Un’indagine di Scipione Machiavelli” ed. 2025

                                                                     Casa Nostra. Qui Italia

       cento sfumature di giallo

Cristina Cassar Scalia, “Delitto di benvenuto. Un’indagine di Scipione Machiavelli”

Ed. Einaudi, pagg. 320, Euro 18,05

 

    Niente male essere accolti da un delitto nel nuovo commissariato di Noto dove il funzionario di Pubblica Sicurezza Scipione Macchiavelli è appena stato trasferito d’urgenza- le allusioni al motivo ricorrono in tutto il libro, possiamo benissimo immaginarli se suo padre neppure più gli parla, ci verranno confermati solo alla fine. E, per lo meno, il fatto che debba subito essere operativo distoglie Scipione da rimuginare sulla ‘punizione’.

    Perché la punizione era già iniziata con il viaggio in treno da Roma- è il 1964, niente treni ad alta velocità, men che meno autostrade che portino sull’isola, era stato un viaggio infinito. Per arrivare a Noto. Una cittadina bellissima con gli edifici in pietra dorata, i balconi sorretti da quelle figure mitologiche o grottesche, l’arco di ingresso di cui i netini si vantavano come se fosse l’Arco di Trionfo- ma che era in confronto a Roma? Il freddo poi. Scipione non si aspettava quel freddo sotto Natale. Non immaginava che non ci fosse riscaldamento nelle case ma solo qualche vetusta stufetta elettrica. Non aveva previsto che il suo alloggio sarebbe stato una stanza a pensione presso una coppia di coniugi di cui la moglie era assolutamente incapace di cucinare. Le uniche note positive erano state la competenza e la simpatia degli uomini della sua squadra, il maresciallo Catalano e il brigadiere Mantuso, e il ritrovare un amico come giudice a Siracusa.


    Scipione Macchiavelli era appena arrivato, dunque, quando una donna era andata a denunciare la scomparsa del marito, un funzionario di banca. Lei era bella, un poco sciupata, comprensibilmente perché aveva cinque bambini. Era solito allontanarsi senza avvisare, il marito? Aveva dei nemici? Be’, sì, perché il rispettabile funzionario di banca prestava soldi a usura, era uno strozzino, insomma. Aveva altre donne? Be’, anche…

   Cristina Cassar Scalia ha sostituito la protagonista siciliana doc dei suoi romanzi seriali, Vanina Guarrasi, con un commissario che viene da Roma e che ha un nome che si ritrova sulle pagine della Storia dell’antica Roma,

Vanina Guarrasi sullo schermo

la sua estraneità lo fa oggetto di curiosità e attenzione e dà spunto a brevi lezioni di dialetto siculo (a Scipione accade di non capire quello che gli viene detto) e di prelibatezze locali, da Catania l’ambientazione si sposta a Noto dove tutti sanno tutto di tutti ( a volte può essere utile ascoltare quello che tutti sembrano sapere), dove Scipione fa la conoscenza di una Principessa, di un Marchese e si stupisce del ‘don’ che precede qualche nome senza voler indicare un sacerdote ma per indicare rispetto.

    Una lettura attenta farà caso agli indizi che portano a scoprire chi ha commesso l’omicidio- non abbiamo mai avuto dubbi che la morte giustificasse l’assenza del notabile da casa-, la narrazione procede spedita, ricca di piccoli dettagli che la caratterizzano e la rendono molto piacevole, sorprendendoci con una Sicilia nella morsa del gelo dicembrino.

 Se volessi dare un giudizio, direi ‘senza infamia e senza lode’, piacevole per l’appunto.



lunedì 9 giugno 2025

Georgi Gospodinov, “Il giardiniere e la morte” ed. 2025

                                          Voci da mondi diversi. Bulgaria



Georgi Gospodinov, “Il giardiniere e la morte”

Ed. Voland, trad. G. Dell’Agata, pagg. 208, Euro 18,05

 

    “Mio padre era giardiniere. Ora è giardino.” 

Ci può essere una frase più bella di questa per iniziare un libro che è un’elegia per il proprio padre morto? Perché, se non fosse per quel tempo al passato che diventa presente in un cambiamento di stato, è un’immagine di vita e di colore quella che si presenta ai nostri occhi di lettori. E attenua la tristezza.

   Una morte è sempre triste, lo è di più se la persona che ci lascia era un padre molto amato. È più che triste, è straziante se un figlio deve assistere impotente alla sofferenza del padre, al suo declino fisico, alla sua immagine presente che si sovrappone a quella del passato in cui era un uomo dal fisico imponente. “Non è niente di grave”, era la frase preferita dal padre per minimizzare le difficoltà, sono le parole che dice anche quando ormai sta molto male.


    Queste pagine che lo scrittore dedica al padre, che donano immortalità al padre, sono colme di ricordi, passano da quelli di un tempo più lontano a quelli di un tempo più recente con l’insorgere e il progredire del tumore, raccontano brevi aneddoti, fissano con un flash episodi di vita passata, frasi dette e rimaste nella memoria- come quando, capovolgendo una frase di Dostojevskij, suo padre aveva detto che loro, in Bulgaria, pensavano di essere felici perché non sapevano quanto erano infelici. E allora la storia di famiglia si arricchisce inevitabilmente della storia della Bulgaria in epoca sovietica, con la scarsezza di beni, con l’impossibilità di viaggiare e conoscere  altri paesi. Li avrebbe conosciuti, suo padre, altri paesi, tramite il figlio diventato scrittore a cui chiedeva di portargli lamette da barba dalla Germania.

    Un figlio scrittore e un padre che teneva un diario del suo giardino, delle semine, delle fioriture, dei raccolti e- con molta precisione- delle innaffiature. Nell’ultima pagina le parole erano scritte abbreviate- doveva soffrire veramente parecchio per risparmiare sulle parole.


È il giardino il filo conduttore del romanzo, giardino vero che segue il padre da una casa all’altra dovunque si trasferiscano, che è un piccolo spazio di felicità quando hanno una sola stanza per quattro in un appartamento con altre famiglie, e giardino metaforico, simbolo della vita che continua, che deve morire per poter rinascere. Giardino  come promessa di futuro, anche se La morte è un ciliegio che matura senza di te.

   Amore e morte, l’eterno binomio. Qui, però, non è Eros ma l’amore di un figlio per un padre che ha saputo meritarsi questa dichiarazione di amore, è l’amore di un padre che, nel coraggio e nella dignità con cui affronta la morte, sembra quasi voler risparmiare di dare un dolore al figlio. Il libro è occasione, dunque, per una riflessione sul ruolo paterno e sul rapporto tra genitore e figlio, sulla caducità della vita e sulla rielaborazione di un lutto, su come affrontare un’assenza e accettare il passaggio del testimonio.

    Un libro bellissimo nella sua dolce tristezza.



   

venerdì 6 giugno 2025

Guđrún Eva Mínervudóttir, ““Reykjavík, Amore”. ed. 2025

                                         Voci da mondi diversi. Islanda



Guđrún Eva Mínervudóttir, ““Reykjavík, Amore”.

Ed. Iperborea, trad. Silvia Cosimini, pagg. 252, Euro 18,00

 

    Il titolo dell’edizione italiana del libro della scrittrice islandese Guđrún Eva Mínervudóttir dice già tanto: “Reykjavík, Amore”. Sono cinque racconti ambientati nella capitale che parlano d’amore. Pensiamoci un poco, quante forme di amore ci possono essere. Tante, con tante sfumature. Cinque donne, cinque storie e nell’ultima di queste riappaiono dei personaggi che abbiamo già conosciuto, quasi a sottolineare una circolarità, un’atmosfera comune.

    Guđríđur, Hildigunnur, Jóhanna, Sara, Magga- alcuni di questi nomi, come quasi tutti i nomi maschili che troviamo nel libro, sono per noi insoliti. Di uno ci viene detto il significato, insolito anche questo- Hildigunnur vuol dire ‘battaglia-battaglia’.

La prima, Guđríđur, mette a confronto la sua famiglia disordinata con quella del marito e, dopo la morte prematura della madre, ricorda la dolcezza di una mattina quando lei era bambina e la mamma l’aveva aiutata a fare il bagno. Dopo, lei era corsa da sola a casa della zia- che cosa c’era di così speciale per lei in quel ricordo? C’era ‘l’equilibrio perfetto tra premura e indipendenza, tra intimità e libertà’. C’era l’amore di una mamma che era stata capace di innamorarsi di un immigrato del Nord Africa ma di restare abbastanza lucida da troncare la relazione appena iniziata quando si era accorta che lui ne avrebbe approfittato.


La seconda, ‘battaglia-battaglia’, resta affascinata da un missionario texano con i capelli rossi; la terza, Jóhanna, pur essendo felicemente sposata, si sente attratta dallo zio narcisista della sua amica (lui morirà in Cecenia subito dopo averle scritto una mail in cui le chiedeva di non dimenticarlo mai).

Sara, invece, si chiede se ci sia qualcosa in lei che attragga la violenza, qualcosa in lei che tiri fuori il peggio delle persone. Avrà due figli da due uomini diversi, entrambi violenti, uno di loro la lascerà con una zoppìa permanente e Sara troverà finalmente un amore tranquillo tra le braccia di una donna.

E poi l’ultimo racconto, forse il più bello, di certo il più straziante perché la Morte aleggia in tutte le pagine- sta morendo Magga, così indebolita da non riuscire a fare le scale per salire nel suo appartamento, e sta morendo il suo padrone di casa che abita all’ultimo piano e passa le giornate ascoltando musica d’opera. Magga non si fa illusioni, eppure è ancora attaccata alla vita e coglie quello che la vita le può dare, un ultimo legame d’amore con un uomo semialcolizzato che però è gentile e delicato con lei. Fanno insieme fronte comune contro i due missionari e sì, uno di loro è il texano con i capelli rossi che già abbiamo conosciuto e che parla un linguaggio vuoto per Magga. La scena finale è superba, scanzonata, pungente, irriverente, trionfale.


     È l’amore, nelle sue più varie accezioni che comprendono anche quello per una gatta, il vero protagonista del romanzo. E non è necessario che l’amore sia sempre felice, è sufficiente saperlo cercare, lasciarlo entrare nelle nostre vite senza lasciarsi soggiogare se questo si rivela un amore sbagliato. Perché questi racconti scritti da una donna, con protagoniste donne e rivolti certamente a lettrici più che a lettori, non mettono gli uomini, i compagni, i mariti, gli amanti in buona luce. Facendo eccezione per Soti, che non ha un lavoro, che beve e che fuma troppo, che è l’ultimo da cui potremmo aspettarci doti positive, gli altri sono mariti o padri scomparsi che non si sono presi le loro responsabilità, oppure sono uomini violenti che hanno bisogno di sentirsi superiori picchiando le loro donne. A quanto pare sono le donne che sono capaci di amare, più degli uomini.

     La narrativa di Guđrún Eva Mínervudóttir scorre piana, con una semplicità e una vivacità molto piacevoli, con un occhio al quotidiano, sia nelle mini vicende che ci racconta, sia negli scorci di paesaggio cittadino, con la neve grigia che si scioglie al tepore del primo sole.


 

 

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martedì 3 giugno 2025

Keigo Higashino, “Delitto al mercato dei fiori di Tokyo” ed. 2025

                                           Voci da mondi diversi. Giappone

cento sfumature di giallo

Keigo Higashino, “Delitto al mercato dei fiori di Tokyo”

Ed. Piemme, Trad. Gaia Cangioli, pagg. 352, Euro 19,95

 

    Due prologhi con due mini vicende che naturalmente non sappiamo come saranno connesse con la storia principale del romanzo di Keigo Higashino, scrittore giapponese che ammiro per l’originalità delle sue trame.

Il primo prologo si apre con la descrizione di una tranquilla mattina di una famigliola- il padre esce per andare al lavoro e la moglie lo accompagna con la figlia piccola fino alla stazione. Sono quasi arrivati quando un uomo, con uno sguardo folle, si precipita su di loro con una sciabola insanguinata in mano. Uccide il marito e la moglie, la bimba sopravvive.

Il secondo prologo non è violento, ma è avvolto in una sorta di mistero. L’adolescente Gamō Sōta va controvoglia al mercato delle ipomee insieme ai genitori e al fratello. Lo fanno ogni anno per la festa di Tanabata, perché le ipomee sono un simbolo dell’estate. E dopo andranno a mangiare le anguille. È in questa occasione che Sōta incontra una ragazzina con cui fa amicizia- si scambieranno mail, inizierà a sbocciare un amore. Finché i genitori si intromettono e la ragazzina tronca ogni comunicazione, scompare letteralmente.


    Gamō Sōta resta uno dei protagonisti del romanzo, la ragazzina ricomparirà, ormai giovane donna, più avanti, quando capiremo anche l’importanza della prima scena di violenza. Compare sulla scena un’altra protagonista, all’inizio vero e proprio. Si chiama Akiyama Lino- a breve distanza di tempo muoiono suo cugino (si è suicidato e nessuno riesce a capire perché) e suo nonno. Il nonno era stato un ricercatore e adesso passava il tempo a coltivare la sua passione- letteralmente, perché coltivava fiori. L’ultima volta che Lino era andata a trovarlo, lui le aveva mostrato uno strano fiore giallo, dicendo che non sapeva che fiore fosse. Le aveva permesso di fargli una fotografia ma le aveva detto che non voleva la pubblicasse online sul blog di fiori e piante che lei teneva per lui. Ne parlava come se dovesse restare segreto, come se il fiore fosse in qualche modo pericoloso. Il nonno era morto assassinato e il fiore era scomparso.


    La vicenda procede coinvolgendo un gruppo musicale di cui faceva parte il cugino defunto di Lino, riappaiono sulla scena sia Gamō Sōta sia la ragazza che era stata il suo primo amore (suona la tastiera nella band ma scompare di nuovo dopo che Gamō Sōta le si è avvicinato), veniamo a sapere molto sulle piante, sulla creazione artificiale di nuovi semi, sulla rosa blu e sulla misteriosa ipomea gialla che una volta nasceva spontanea in natura e poi era scomparsa, sull’uso dei semi preziosi per alcuni (tanto da spingere ad un delitto?), ma anche sulle incertezze nella vita di Akiyama Lino che prometteva di essere una nuotatrice così brava da ambire alle Olimpiadi (perché aveva smesso di nuotare deludendo tutti, anche il nonno?) e in quella di Gamō Sōta, ingegnere nucleare che vede sfumare le possibilità di carriera dopo il disastro di Fukushima. Il finale, poi, offrirà la spiegazione della scena iniziale.


    Ancora una volta Keigo Higashino non ci delude, per la novità della trama, per la ricchezza delle problematiche dei personaggi (dovrei ricordare anche l’ispettore di polizia e il motivo personale che lo spinge a risolvere il caso), per i leggeri riferimenti alle tradizioni e alla cultura giapponese (mai così accentuati da trasformarli in voluto colore locale).