Voci da mondi diversi. Stati Uniti d'America
il libro ritrovato
la Storia nel romanzo
E. L. Doctorow, “La marcia”
Ed. Mondadori, trad. Vincenzo
Mantovani, pagg. 365, Euro 18,00
Il 23 dicembre 1864 il generale
Sherman conquistava Savannah, in Georgia: era quasi la fine di quella “marcia
al mare” che era iniziata ad Atlanta, messa a ferro e fuoco in novembre, quasi
la fine della guerra civile che sarebbe rimasta per sempre la cicatrice
dell’America. Il romanzo è il racconto delle sessanta miglia di marcia,
protagonisti uomini del Sud e del Nord, schiavi, uomini e donne liberi,
soldati. Ma soprattutto la guerra con tutta la sua inesorabile crudeltà.
INTERVISTA A EDGAR L. DOCTOROW, autore de “La marcia”
“guerra! ecco una razza
armata ecco ora avanza! benvenuta/ la lotta, nessuno si rifiuta;/ guerra! per
settimane, mesi, anni, ecco una razza armata avanza e le va incontro.”
Era il 1861 quando Walt Whitman,
il bardo d’America, scriveva questi versi. Quattro anni più tardi il tono
sarebbe cambiato, dopo la carneficina, le distruzioni, gli incendi, dopo
l’assassinio di Lincoln, “bara che passi per
strade e sentieri,/ di giorno, di notte, una gran nube oscura la terra,”- e
in quella bara c’era non solo il corpo del presidente morto ma anche i cadaveri
delle vittime della guerra fratricida e l’innocenza stessa dell’America.
“La
marcia” di E.L. Doctorow è il romanzo degli ultimi mesi di guerra, dall’autunno
del 1864 alla primavera del 1865. Inizia con una fuga precipitosa, in uno
scenario che ricorda le pagine di “Via col vento”: masserizie caricate sui
carri, neri schierati ai piedi della scalinata, colonne bianche di una casa del
Sud sullo sfondo, senso di incredulità davanti a quanto sta accadendo. E una
nube che rosseggia, il terreno che manda vibrazioni sotto i piedi dei 60.000
uomini del generale Sherman che avanza. “Arrivano, sono in marcia. E’ un
esercito di cani arrabbiati comandati da questo apostata…”
Non c’è un personaggio principale nel romanzo di Doctorow: la guerra è
la protagonista. Guerra insieme alla sua sorella Morte. Dentro la guerra si
muovono delle persone, militari e civili, tutti del Sud questi ultimi,
soprattutto soldati e generali dell’Unione i primi. Anche se poi- e questo è
uno dei temi del romanzo, a sottolineare la crudeltà peculiare di una guerra
civile- c’è chi cambia schieramento, chi riveste i panni dell’altra parte: ci
sono cittadini del Sud che simpatizzano con l’Unione, soldati che scambiano la
propria divisa con quella di un morto per salvarsi la pelle. Ci sono “i grigi”
e ci sono “i blu”, secondo il colore dell’uniforme, ma c’è differenza nell’uomo
nudo che è sotto quei panni e che finisce sotto i ferri del dottor Sartorius
nell’ospedale da campo? E’ possibile distinguere se appartengano a soldati
confederati o unionisti le membra amputate che si accumulano fuori della tenda
ospedale? Non a caso si chiama Sartorius il medico di origine tedesca che vede
nella guerra- con i suoi occhi colore del ghiaccio- una splendida opportunità
di esercizio clinico. Sartorius che taglia gambe e braccia come il sarto taglia
i tessuti. Un filone, questo degli abiti, che ritorna in due personaggi
voltagabbana, Arly e Will, in prigione perché disertori, poi tra le fila degli
unionisti, sempre fiutando il vento, nel caso sia necessario rivestire
nuovamente la divisa confederata. Arly farà un cambiamento d’abito finale,
quando prenderà persino il nome del fotografo incontrato per caso e morto
d’infarto. Per poi, sfruttando un mestiere non suo, attentare alla vita del
generale Sherman.
Generale Sherman |
Non era un’impresa facile quella di
Doctorow, di accostare nella sua narrazione uomini consegnati alla Storia e
personaggi fittizi. Per questi ultimi Doctorow sceglie un campionario vario,
per lo più femminile- la madre che impazzisce dal dolore, la donna non
giovanissima che si innamora del dottor Sartorius e lo segue come infermiera,
la schiava dalla pelle bianca che si traveste- ancora il tema degli abiti- da
tamburino per unirsi alle giubbe blu in marcia e poi indosserà la mantellina da
infermiera. La nera bianca si chiama Pearl, figlia illegittima del padrone
della piantagione, e a noi viene in mente la più famosa figlia illegittima
della letteratura americana, la
Pearl de “La lettera scarlatta”, mentre nella domanda di
Sherman afflitto dal ricordo della morte del figlio, “dov’è il mio tamburino?”,
c’è un’eco della domanda di re Lear nel fragore delle dispute, “dov’è il mio
buffone?”.
Doctorow cerca di non attribuire
parole ai personaggi reali del romanzo- di Sherman troviamo la frase famosa del
messaggio inviato a Lincoln, “è un onore presentarvi come dono natalizio la
città di Savannah”, ma in genere seguiamo i suoi pensieri che sono quelli del
militare stratega che, pur rammaricandosi dell’incendio di Columbia, pensa
“così il Sud è stato punito”, dell’uomo ambizioso che vince la paura della
morte confidando nell’immortalità che la Storia può conferirgli e che tuttavia, colpito
nell’intimo dalla morte di un altro suo figlio, chiede con angoscia blasfema,
“Oh, Signore, sei forse invidioso anche tu?”.
Abramo Lincoln non poteva essere
il grande assente in un romanzo sulla guerra civile americana e Doctorow evita
il rischio di un’immagine di cartapesta facendolo apparire in una brevissima
scena finale- un uomo di cui Sartorius nota “la bellezza sgradevole”,
terribilmente invecchiato da quei quattro anni di guerra, l’ombra di quello che
era.
A libro terminato quello che resta nel
lettore è il quadro della guerra come lo vede il personaggio “esterno” alla
vicenda, il giornalista inglese Pryce. Non la guerra come avventura e neppure
la guerra per una grande causa, ma guerra “allo stato puro, un massiccio e
irragionevole furore privo di ogni causa, ideale o principio morale”.
Un’ecatombe che solo l’uomo di guerra Sherman può considerare in altra maniera,
quando rimpiange la fine della marcia: “penso a lei con nostalgia, non per il
sangue e la morte di cui è stata causa, ma per il significato che ha elargito
alla terra che abbiamo calpestato”. E quando, nella scena in chiusura del
romanzo, Pearl e il giovane Stephen escono dal bosco a rivedere il sole, sono
come Dante e Virgilio che risalgono dall’Inferno “a riveder le stelle”.
Stilos ha intervistato Edgar L.
Doctorow, che è nato a New York nel 1931 ed è diventato famoso nel 1975 con il
romanzo “Ragtime”.
Nel suo romanzo viene detto che quella che si sta combattendo è una
guerra che viene dopo una guerra e che precederà una guerra: è questo il motivo
che l’ha spinta a scrivere il libro- la condizione di guerra perenne in cui
viviamo?
Ho iniziato questo libro nel 2003 e in quel
momento era l’unico libro che potevo scrivere. Ci avevo pensato per vent’anni, leggevo
libri di storia e mi rendevo conto che la guerra civile era stata una guerra
sui generis e che sarebbe stata materiale adatto per un romanzo. Gli scrittori
hanno sempre molte idee per un romanzo, ma molte di queste idee sarebbe bene
non trovassero mai una forma, che restassero lì dove sono, perché non sono
buone. E’ necessario che si abbia un senso delle possibilità di quello che si
può fare e poi ci sono delle idee che a un certo punto balzano fuori e ti
dicono, ‘Questo è il momento.’ Mi capita di provare dei forti sentimenti che
non capisco del tutto, mi vengono in mente delle immagini, delle frasi di
musica, un’eccitazione mentale non da me richiesta. Guardavo una foto del
generale Sherman in piedi davanti ad una tenda insieme ai suoi soldati e in
quel momento ho avuto la netta sensazione che dovevo iniziare a scrivere: il
libro si è proposto a me.
I confederati vengono sempre chiamati “i ribelli”: il punto del vista
nel romanzo è quello dei nordisti? perché è la questione dei terroristi che,
visti dall’altra parte, possono essere dei patrioti…
Sono sempre gli unionisti a chiamare i
confederati “i ribelli” Entrambe le parti avevano molti nomi gli uni per gli
altri. I confederati chiamavano gli unionisti “gli invasori”. Il Sud credeva di
combattere per la libertà: il fatto che avessero gli schiavi non sembrava loro
affatto contraddittorio e neppure ironico. Il Nord lottava per mantenere l’Unione
e per liberare gli schiavi.
Quindi la liberazione degli schiavi era un obiettivo secondario?
Sì, il partito
abolizionista era a sinistra di Lincoln. Lincoln, all’inizio, non era affatto
per l’abolizione della schiavitù, quello che lui pensava era offrire ai neri un
passaggio di ritorno in Africa. Lincoln arrivò gradualmente all’abolizionismo e
ci arrivò come manovra tattica per la guerra. Gli sembrava che creasse
un’autorità morale che gettava un’ombra sui confederati, e forse era anche sua
intenzione coinvolgere i neri in una guerra di resistenza. In un secondo tempo
ebbe coscienza che la schiavitù è un Male e che il Presidente degli Stati Uniti
è la persona che deve denunciarlo.
Fatta eccezione per Pearl, la nera bianca, non ci sono quasi personaggi
neri nel romanzo. Spesso si parla di loro come di un peso: ci sono stati dei
neri che hanno combattuto ufficialmente a fianco dell’Unione?
C’erano delle truppe di neri ma non erano
con il generale Sherman. Sherman era un razzista, pensava che i neri fossero un
impedimento per l’esercito. Quando gli fu chiesto perché non impiegasse i neri
come soldati ma solo come inservienti, disse che non pensava potessero essere utili
come combattenti. Sherman non aveva alcuna considerazione per le loro capacità.
Il motivo per cui Sherman combatteva era perché considerava i confederati come
dei traditori: non gli importava nulla se avessero o no degli schiavi.
Quando il romanzo ha iniziato a prendere forma nella sua mente, come ha
deciso a quali personaggi avrebbe dato vita?
Non è stata una scelta consapevole, è
difficile da far capire, ma ogni personaggio mi è apparso nella sua interezza,
con tutti i dettagli al posto giusto. Gli scrittori scrivono perché gli altri
spieghino quello che loro scrivono. C’è stata una cosa che mi ha aperto la
strada: mi sono trovato a scrivere in terza persona. La maggior parte dei miei
libri ha un narratore fittizio che parla con la sua voce- una specie di
ventriloquo. Nella prima scena di questo libro ci sono parecchie persone ed è
questo che mi ha impegnato ad una voce autoriale di un narratore onnisciente.
Una volta che ho stabilito il rapporto con il soggetto ho permesso che mi
apparissero i personaggi. Ad un certo punto ho deciso che questo era il mio
“romanzo russo”, perché ci sono tanti personaggi che si muovono in un ampio
spazio.
Ho osservato che i personaggi che non sono soldati sono principalmente
donne: un modo per dare voce alle silenziose co-protagoniste della guerra?
Sapevo che quello che c’era di diverso in
questa campagna militare era che i civili furono portati dentro la guerra. Era stata infranta la separazione tra militari e
civili: il motivo era che Sherman aveva dato ordine che i suoi soldati
prendessero dalla popolazione del posto quello di cui avevano bisogno. E così i
soldati bruciavano le città che facevano resistenza, entravano nelle case,
razziavano, seminavano distruzione e le persone che erano state liberate o
coloro che avevano perso la loro casa si univano alla marcia. La marcia era
l’unica sicurezza: la sicurezza non era più nella terra ma ormai era lì, con i
soldati dell’Unione in marcia. E allora le donne dovevano diventare personaggi
di rilievo nel romanzo.
Per quello che riguarda i personaggi storici, come ha proceduto per
“crearli”, perché non apparissero falsi?
Per il generale Sherman avevo letto le sue
memorie e così attraverso quelle pagine ho sentito la sua voce e poi ho letto
altri libri su di lui. Però questo libro è il mio ritratto di lui. Quello dello scrittore è un lavoro come quello
del pittore: c’è il soggetto e c’è il quadro e non sono uguali. Sherman era un
uomo teso, molto nervoso, soffriva di alti e bassi di umore, di quella che oggi
si chiamerebbe sindrome bipolare, era un maniaco depressivo, pare abbia avuto
un esaurimento nervoso ad un certo punto. Lo Sherman che io dipingo è la mia
impressione su di lui.
Nella scena in
cui Lincoln appare, Lincoln è qualcuno che ha assorbito dentro di sé l’intera
tragedia della guerra. Lincoln, inoltre, aveva un aspetto strano: di lui si è
detto che aveva il morbo di Marphan, una sindrome diagnosticata molto dopo la
sua morte, nel 1895, caratterizzata da un allungamento degli arti, delle dita
delle mani prima di tutto. “La marcia”, tuttavia, è un lavoro di immaginazione,
non un documentario storico. Penso ai personaggi storici come a persone che non
hanno realtà maggiore di quelli fittizi: per me esistono allo stesso livello.
Nel romanzo la fotografia e i fotografi giocano un ruolo importante: è
per sottolineare che la guerra civile americana fu la prima guerra documentata
su rullino?
Sì, è stata una guerra molto fotografata,
ma se si guardano le fotografie, tutte le persone ritratte sono immobili: i
soldati sono in posa o sono morti, non sono mai ripresi in azione, perché ogni
scatto richiedeva una lunga esposizione. Mettevano alle persone da fotografare
una specie di morsa dietro il collo perché non potessero muoversi. C’è una
documentazione fotografica enorme sui luoghi di distruzione. Per esempio ci
sono foto di Columbia dopo l’incendio che sembra una città bombardata durante
la seconda guerra mondiale. E tuttavia il mio personaggio-fotografo è nato
perché ho visto la foto di un carro di un fotografo al seguito dell’armata e mi
sono reso conto che i fotografi seguivano le campagne di guerra, avevano
persino un certificato di autorizzazione. Qualcuno scatta fotografie e qualcuno
scrive romanzi: si fa la stessa cosa, si congela il tempo.
Nel romanzo il generale Sherman cita un paio di volte Shiloh: Shiloh è
stata la Waterloo
dell’esercito dell’Unione?
Sì, Shiloh
è stata una battaglia devastante, e fu dopo Shiloh che Sherman ebbe un crollo
nervoso. Era il momento in cui l’Unione stava perdendo, e anche seriamente.
Leggendo il nome Sartorius pensiamo a Faulkner che usò questo cognome
nei suoi romanzi e al cognome tedesco Schneider che vuol dire sarto, da cui
deriva: Sartorius è un chirurgo che taglia le persone come il sarto gli abiti,
con la stessa calma indifferente?
Il chirurgo come un tipo di sarto…sì,
Sartorius era un personaggio di un mio precedente romanzo, “L’acquedotto di New
York”, che si svolgeva dopo la Guerra Civile ,
in un mondo di boss politici molto corrotti. Sartorius sperimentava nel
mantenere in vita dei vecchi ricchi: non faceva qualcosa di moralmente
giustificabile, la sua curiosità scientifica lo portava a superare la linea tra
Bene e Male. Però aveva avuto una carriera onorevole durante la Guerra Civile. E io avevo un
obbligo morale verso di lui: dopo averlo mostrato in luce negativa volevo farlo
apparire all’opera in maniera positiva in questo romanzo.
C’è un dettaglio che colpisce perché sottolinea i cambiamenti avvenuti
nella tecnologia: la notizia della morte di Lincoln fu tenuta segreta sul luogo
della guerra, e fu possibile perché solo il generale e il telegrafista ne erano
informati. Tutto sommato, però, è una manipolazione della verità- potrebbe
accadere qualcosa del genere ai nostri giorni?
Sherman sentiva che doveva aspettare a dare
la notizia, altrimenti le truppe sarebbero uscite dal suo controllo. E lui
voleva impedire questo. Sherman era sprezzante della stampa, per lui i
giornalisti erano delle spie, temeva che fossero lì per captare informazioni e
passarle al nemico, era paranoico. La morte di un presidente è uno shock
incredibile. Quando è morto Kennedy la notizia ha fatto il giro del mondo in un
baleno. Naturalmente a Washington tutti sapevano della morte di Lincoln, il
teatro era pieno di gente, ma avevano solo il telegrafo per una comunicazione
istantanea e quindi la diffusione delle notizie poteva essere controllata. Oggi
non sarebbe assolutamente possibile tenere nascosta una notizia del genere.
la recensione e l'intervista sono state pubblicate sulla rivista Stilos
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