lunedì 28 settembre 2020

Monica Kristensen, “L’expédition”

                                                                    vento del Nord

       cento sfumature di giallo

        in altre lingue


Monica Kristensen, “L’expédition”

Ed. Gaia, pagg. “72, Euro 8,49 formato kindle

    87° parallelo Nord. Da questa posizione arriva una richiesta di soccorso all'ufficio del governatore dell'arcipelago Svallbard. Una spedizione di esploratori norvegesi diretti al Polo e composta da quattro uomini, una slitta e otto cani è  stata attaccata da un orso polare. É la situazione prevista perché si muova un elicottero con un poliziotto e un responsabile per l'ambiente- non si fa partire un elicottero come se fosse un taxi per una qualunque situazione di emergenza. Quando il poliziotto di Longyearbyen atterra sulla banchisa, è molto perplesso.  C'è qualcosa che non quadra in quello che vede e in quello che i quattro esploratori raccontano. Prima di tutto non c'è alcuna traccia dell'orso. Ci sono però quattro cani morti e tre agonizzanti, solo un cane sembra essere in condizioni migliori. Anche il musher, l'addestratore dei cani che fa parte del gruppo, sta molto male. La spiegazione fornita dagli esploratori è che la slitta con i cani è  caduta in un canale coperto da uno strato di ghiaccio sottile. Knut non è assolutamente convinto- sono cani resistenti a condizioni atmosferiche ben peggiori e poi hanno vomitato. E pure i sintomi del musher non sembrano essere quelli di una polmonite. Nonostante tutto gli altri tre uomini si rifiutano categoricamente di interrompere la spedizione. Soltanto il musher e il cane sopravvissuto vengono caricati sull'elicottero, mentre Knut, guardato con palese ostilità dai restanti tre, si fermerà sulla banchisa con loro in attesa di ricevere ordini dal governatore.


    È un peccato che "L'expédition" di Monica Kristensen non sia stato tradotto in italiano ("non ancora", speriamo). Perché è un ottimo romanzo oltre ad essere un ottimo e insolito polar. La Kristensen, lei stessa esploratrice polare, glaciologa, direttrice della stazione di ricerche nelle isole Svallbard, si muove in un ambiente che conosce molto bene sotto ogni punto di vista, sia quello geografico sia quello umano delle persone che si candidano per spedizioni di cui non sempre sono all'altezza.
    La tensione narrativa ne "L'expedition" è fortissima. La corsa contro il tempo, elemento comune della maggior parte dei romanzi polizieschi, qui si svolge in un contesto particolare: la gara per arrivare al Polo Nord ha come avversari sia qualcuno di molto ambizioso che è disposto a tutto per raggiungere il suo scopo, sia la Natura stessa- un amico/nemico che, se sottovalutato, è ancora più pericoloso. E il movente delle azioni criminali è uno dei classici moventi delle antiche tragedie in cui i personaggi erano spinti da odio, gelosia, desiderio di vendetta, ambizione sfrenata. È  l'ambizione in questo caso,  un ideale di superuomo che sbaraglia le difficoltà e i pericoli e vince su tutto, anche su se stesso.


    La spedizione era formata da due avvocati rampanti, amici da sempre, e da altri due uomini che paiono non avere nulla in comune con loro- un professore di musica e il musher. Come sono finiti il professore e l'addestratore di cani a fare parte della spedizione che sembra essere un poco raffazzonata, improvvisata, non curata nei dettagli, non coperta da un'assicurazione adeguata?
     I filoni narrativi che seguiamo sono tre: uno tratta di quello che succede a Longyarbyen dove il musher è ricoverato in ospedale e sottoposto a esami clinici, dove si cerca di appurare anche cosa abbia fatto star male il cane; un altro filone è  il racconto, fatto in prima persona dalla moglie dell'avvocato (che è di fatto il capo della spedizione), dei retroscena, ad iniziare dai giorni lontani in cui il marito Karsten, molto giovane, già mostrava l'arrivismo che era il lato più in vista del suo carattere, per arrivare all'idea di questa sfida posta a se stessi, di raggiungere il Polo Nord sulle orme dei grandi esploratori del passato e poi alle difficoltà incontrate nel trovare degli sponsor che finanziassero l'impresa a costi proibitivi, fino ai segreti più inconfessabili di quello che avevano escogitato.
Il filone principale è naturalmente quello che succede ora dopo ora lassù sulla banchisa dove Knut non riesce a capacitarsi dell'ostinazione con cui Karsten, il suo amico (che peraltro sta malissimo) e il professore sì intestardiscono nel voler proseguire verso il Polo.



    “L’expédition” è una insolita versione di ghiaccio del modello del giallo della "stanza chiusa". Perché sembra quasi verificarsi il caso di "...e poi non rimase nessuno", perché non sappiamo a chi prestare fede (abbiamo gli stessi dubbi di Knut), perché in definitiva temiamo che sia la Natura stessa- il grande gelo e il suo messaggero, l'orso polare,- a commettere il crimine finale avendo la meglio su chi non l'ha rispettata.
    Un libro ideale da leggere nei giorni soffocanti d’estate, ci fa provare un senso di gratitudine per il caldo. Un libro di cui è impossibile interrompere la lettura. 




 

venerdì 25 settembre 2020

Håkan Nesser, “Gli occhi dell’assassino” ed. 2020

                                                                     vento del Nord

      cento sfumature di giallo

Håkan Nesser, “Gli occhi dell’assassino”

Ed. Guanda, trad, C. Giorgetti Cima, pagg. 528, Euro 19,50

     Chi vive nella città di K., nel Nord della Svezia, o ci è nato e non ha alternative o, se invece ha scelto di stabilirsi lì, deve essere in fuga da qualcosa. Perché mai, altrimenti, abitare in un buco di città dove già a novembre la notte cala alle 4 del pomeriggio e la temperatura può scendere a 26° sotto zero? Più di un personaggio nel nuovo romanzo di  Håkan Nesser è fuggito da qualcosa, da un passato che in genere è abitato dagli spettri dei morti- per una guerra, per un incidente, per un omicidio.

“Gli occhi dell'assassino” è un mystery in una doppia ‘stanza chiusa’, perché tutti i personaggi coinvolti lavorano o studiano nella scuola- un ambiente ristretto, dunque,- e vivono nella cittadina di K., un secondo ambiente chiuso. È  come una scatola dentro una scatola. E la novità del romanzo di Nesser è la molteplicità delle voci- due professori, la consulente scolastica, una studentessa, la madre di questa.

    Il professor Leon Berger ha lasciato Stoccolma dopo che la moglie e la figlia sono morte affogate durante una vacanza in Tanzania. Lui è arrivato a K. su suggerimento di una  vecchia amica incontrata per caso che gli aveva segnalato un posto vacante nella sua scuola- il professore di svedese Kallmann era morto precipitando dalle scale in quella che veniva chiamata ‘la casa del tedesco’. Sarà proprio Kallmann il centro della trama del romanzo, lui e la sua morte misteriosa. Che cosa ci faceva di notte nella ‘casa del tedesco’? E che cosa ci faceva lì lo studente che aveva chiamato la polizia e i soccorsi?


Tutto di Kallmann era misterioso, non solo il suo passato. Aveva una personalità sfuggente, non guardava mai nessuno negli occhi perché diceva che era capace di vedere l'anima della persona che aveva di fronte. Era vero, come scriveva nel suo diario, che aveva ucciso sua madre a undici anni e che per questo il padre lo aveva mandato in Svizzera? era un tipo solitario, solo il professor Igor (altra voce narrante) aveva passato qualche serata con lui. E tuttavia era un professore carismatico, non per nulla gli studenti avevano proposto che venisse eretta una statua in suo onore. Nei suoi diari Kallmann parlava di due studenti in particolare, del ragazzo geniale che poi avrebbe trovato il suo corpo senza vita e di una ragazza, Andrea, una delle voci narranti.

     Gli avvenimenti della scuola, la quotidianità della vita di famiglia della consulente scolastica e della studentessa, l'elaborazione del lutto da parte del professor Berger che trova i diari di Kallmann facendo ordine nei cassetti della scrivania che era stata di questi, la fine di un matrimonio, l'inizio di nuovi amori, flashback sulla vita della madre di Andrea- tutto questo ci viene raccontato in un'alternanza di voci insieme ad una cronaca di sconvolgenti episodi di violenza nella scuola da parte di un gruppo di naziskin. Finché un ragazzo viene trovato morto impiccato e intanto si moltiplicano le voci sulla ‘casa del tedesco’ intorno a cui aleggia un’atmosfera sinistra.


    C'è aria di soffoco in questa cittadina del Nord, aria di cose non dette, di verità sepolte, di identità cambiate. Qual era il vero nome di Kallmann? Chi si nasconde dietro l’iniziale V. che appare ripetutamente nei suoi diari? Perché Kallmann lo pedinava?

Gran parte dei fatti si svolge tra il 1995 e il 1996, anche se bisogna scavare più lontano per capirli. E la soluzione dei misteri sarà svelata solo nel 2015 in un finale che, però, non ci soddisfa pienamente.

      La pluralità delle voci narranti con l'aggiunta di quella del personaggio chiave, che si esprime nelle pagine del suo intrigante diario pieno di stuzzicanti ed enigmatiche allusioni, vivacizza la trama che tenderebbe altrimenti a languire. Confessiamo di sentire la mancanza dell'umorismo di Gunnar Barbarotti, l’ispettore svedese di origine italiana protagonista dei precedenti romanzi di Håkan Nesser.




 

mercoledì 23 settembre 2020

Fattaneh Haj Seyed Javadi, “La scelta di Sudabeh” ed. 2019

                                                                Voci da mondi diversi. Iran

                                                                   love story

Fattaneh Haj Seyed Javadi, “La scelta di Sudabeh”   

Ed. Brioschi, trad. A. Vanzan, pagg. $62, Euro 18,00

 

     Non è Sudabeh la protagonista del libro che porta il suo nome nel titolo, è sua zia Mahbubeh, una donna ormai anziana a cui si rivolge la madre di Sudabeh perché racconti alla figlia la storia della sua vita. E chissà che questa ne possa trarre un insegnamento, che la faccia desistere dal proposito di sposare un uomo lontano da lei non solo per estrazione sociale, ma anche per cultura.

È  un Iran molto diverso da quello di oggi, quello cui ci parla Mahbubeh, un Iran di prima della Rivoluzione, del tempo in cui regnava la dinastia Pahlavi. E la vita dell'alta società di Teheran riflette in scala minore quella della corte. La famiglia di Mahbubeh è molto ricca, abita in una grande e splendida casa dove tutto, dai tappeti ai mobili, dalle suppellettili ai tessuti, è segno di buon gusto e raffinatezza. Mahbubeh, come la madre e le sorelle, non deve alzare un dito in casa. Uno stuolo di servitori, giardiniere, cuoca, cocchiere, la dada che si prende cura dei bambini, si occupa di tutto. La quindicenne Mahbubeh si innamora ed è la storia di questo amore che Mahbubeh racconta in tutti i dettagli che non ha dimenticato.


     L'amore dei quindici anni è uguale ovunque e in ogni tempo. È  il restare fulminati da uno sguardo, da dei riccioli neri, dal guizzare di un muscolo sottopelle. A quindici anni ci si innamora senza sapere nulla dell'altro, senza neppure averne sentito la voce e, quando la si sente, è come se parlasse un cavaliere di luce.
Il padre le aveva proposto due ottimi partiti ma Mahbubeh non li aveva neppure presi in considerazione. Lei voleva solo Rahim, il garzone del falegname. A merito del padre va detto che questi, accettando il consiglio di un saggio fratello, dopo aver fatto fuoco e fiamme aveva deciso di non opporsi, di non contrastare Mahbubeh con il rischio che questa facesse un colpo di testa e fuggisse di casa. Avrebbe regalato un negozio a Rahim e una casa alla figlia, le avrebbe anche dato una certa somma di denaro ogni mese. Lei però non avrebbe più potuto rimettere piede nella casa paterna.
La storia d'amore di Mahbubeh è  la prova (se mai ci fosse bisogno di prove) che 'due cuori e una capanna' non sono sufficienti. E la dura lezione che Mahbubeh imparerà è che l'infatuazione non è amore, che è  facile confondere l’una con l’altro, e le conseguenze sono drammatiche.



     La vicenda di Mahbubeh, tenera e poi tragica e poi dolce-amara, raccontata in prima persona, è una storia banale. Sarebbe uguale a tante altre se non ci fosse l'arricchimento dell'ambientazione iraniana con tutti i dettagli socio-culturali ma anche quelli colorati di abiti e stagioni. Entriamo nella dimora di famiglia di Mahbubeh e poi nella casa, ancora più piccola a confronto dell'altra, dove abita con il marito e la suocera, la seguiamo all'hammam, osserviamo la preparazione dei cibi quotidiani e di quelli di rito per le festività, accettiamo che, come stabilisce il Corano, un marito possa avere fino a quattro mogli e condividiamo la gelosia repressa di Mahbubeh.

     Anche se sappiamo bene come andrà a finire la storia dei due giovani sposi, la leggiamo di un fiato perché la protagonista ci fa rivivere non solo le sue esperienze ma le sue riflessioni, i suoi ripensamenti, il suo pentimento, la nostalgia, il rimpianto per quello che avrebbe potuto essere e non è stato. Mahbubeh ha cercato di spigolare la felicità nella sua vita 'dopo', nella consapevolezza di essere responsabile lei stessa di tutto quello che è accaduto a lei e a chi le è vicino. 

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lunedì 21 settembre 2020

Petina Gappah, “Oltre le tenebre” ed. 2020

                                        Voci da mondi diversi. Africa

biografia romanzata

Petina Gappah, “Oltre le tenebre”

Ed. Guanda, trad. S. De Franco, pagg. 348, Euro 19,00 

 

    C’è una lapide, nell’abbazia di Westminster, che recita: “Portato da mani fedeli per terra e per mare, qui riposa David Livingstone, missionario, viaggiatore, filantropo, nato il 19 Marzo 1813 a Blantyre in Scozia, morto 1 Maggio 1873 a Chitambo, Ulale.”

   Lo chiamavano Bwana Daudi, laggiù in Africa. E anche se “Bwana” era l’appellativo usato dai neri per rivolgersi ai bianchi in epoca coloniale in Africa, nel caso di David Livingstone, unito a quella storpiatura del suo nome, ha un che di affettuoso che va oltre al rispetto. David Livingstone era arrivato in Africa per la prima volta nel 1852, aveva scoperto le cascate Vittoria sul fiume Zambesi (era lui ad aver dato loro il nome della regina), sua moglie era morta in Africa e là era sepolta, lui ci era tornato una seconda volta, era stato dato per perso per ben tre anni fino a quando il giornalista Stanley lo aveva ritrovato. L’incontro tra i due, gli unici europei nel cuore dell’Africa, è diventato famoso, un tipico esempio dell’aplomb britannico nelle parole che Stanley gli aveva rivolto a mo’ di saluto, “il dottor Livingstone, suppongo”.


   “Oltre le tenebre”, il romanzo di Petina Gappah, ci parla di questo uomo la cui vita è entrata nella leggenda. L’ultimo viaggio di Livingstone è leggendario. “Portato da mani fedeli per terra e per mare”: 69 indigeni trasportarono la sua salma per nove mesi e per più di mille miglia, a piedi e tra innumerevoli pericoli, da Chitambo nello Zambia a Bogamoyo. E Petina Gappah ci parla di questo viaggio, raccontato da due servitori fedeli, la cuoca Halima e l’aspirante missionario Jacob Wainwright. E’ un’angolazione del tutto diversa e insolita, quella da cui conosciamo David Livingstone. Per Halima l’ossessione di Bwana Daudi per trovare le fonti del Nilo era del tutto incomprensibile. Un fiume scorre e continuerà a scorrere- a che cosa serviva ammazzarsi di fatica per trovarne la fonte? Per Jacob era incomprensibile quanto poco si fosse dato da fare Bwana Daudi per convertire i pagani.


Halima e Jacob sono agli antipodi. Halima non ha cultura, è una donna pratica e sensuale ed è lei che, dopo che tutti sono concordi sul fatto che Livingstone debba essere sepolto nella sua terra, suggerisce la soluzione per poterne portare il cadavere fino alla costa. Si dovrà fare per lui come per la cacciagione, eviscerarlo, e poi far seccare il corpo al sole per evitare i miasmi. È  bello pensare che il corpo del grande esploratore riposa in patria, ma che il suo cuore è rimasto in Africa. La realtà è meno romantica. Diciamo che una parte di lui “ha dovuto essere sepolta in Africa”.

Halima e Jacob parlano delle stesse persone e dello stesso viaggio, ogni loro racconto aggiunge qualcosa alla figura di quel capo-Bwana che aveva comperato Halima non per sé ma per darle la libertà. Aveva fatto lo stesso per altri, anche se poi si era servito dell’aiuto di quelli schiavisti che a parole condannava. La voce di Halima è più vivace, sembra che sprizzi energia e gioia di vivere. Halima parla di sesso e di uomini, di gelosie e tradimenti, di consigli pratici dati a quel capo che stava invecchiando- era meglio che tornasse a casa e si cercasse una moglie che gli scaldasse il letto.


    Jacob si sente superiore agli altri. È uno schiavo liberato che ha studiato in India, sa l’inglese e vuole diventare missionario. Si sente solo ad un gradino più in basso del venerato Bwana verso cui prova un sentimento complesso di ammirazione e di disapprovazione. Che sono poi sentimenti condivisi da altri del gruppo- non tutti sono spinti da una cieca fedeltà in questa missione irta di difficoltà, perché nessun villaggio li accoglierebbe volentieri, se sapessero che trasportano un morto. Un morto porta altre morti, porta sfortuna. Ed è proprio così.

   Ben 14 persone della scorta muoiono. In un momento chiave in cui vengono alla luce sentimenti nascosti, uno di loro griderà: “Bwana Daudi, Bwana Daudi, Bwana Daudi. Ma vi sentite? Perché è il vostro Bwana? Perché è il Bwana di qualcuno?” “Chi era per entrare nella mia terra? Stanley, Cameron, Speke, Grant, chi sono per andarsene liberamente nelle nostre terre?”.


E’ una pesante accusa contro l’uomo bianco e il colonialismo. E ancora, in un affondo che coinvolge Jacob, “Vorranno farci adorare il loro Dio, come se noi non ne avessimo uno”. E Jacob, che detesta essere nero, che vorrebbe essere come i bianchi, non lo sarà mai.

    Anche “Mentre giacevo” di Faulkner e “Ultimo giro” di Graham Swift raccontavano dell’ultimo viaggio di una bara o di un’urna. Qui, però, il messaggio del romanzo è più complesso. In un certo senso si ridimensiona una figura mitica, si parla di scoperte geografiche per parlare in realtà di colonialismo e della piaga dello schiavismo.

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sabato 19 settembre 2020

Petros Markaris, “L’omicidio è denaro” ed. 2020

                                              Voci da mondi diversi. Penisola balcanica

                                                         cento sfumature di giallo

Petros Markaris, “L’omicidio è denaro”

Ed. La Nave di Teseo, pagg. 320, Euro 19,00, formato kindle 9,99

 

     Un inizio paradossale per il nuovo romanzo di Petros Markaris " L'omicidio è denaro". Uno shock di sorpresa per chi assiste alla scena nel libro e per noi che lo leggiamo. Si sta svolgendo un funerale, nella bara che viene depositata in una piazza di Atene non c'è, però, il corpo di un uomo ma il cadavere di un ideale: la Sinistra è morta. Morto il Re, viva il Re. Un nuovo Movimento dei Poveri sostituirà quello della sinistra. A condurre le esequie c'è Lambros, l'ex comunista che è diventato intimo amico della famiglia del commissario Kostas Charitos, tanto che il nipotino di Kostas, figlio di sua figlia Caterina, è stato chiamato Lambros in suo onore.
    Un inizio che ci scuote dal torpore della consuetudine e che introduce quello che è  il tema di fondo del romanzo- una presa di coscienza del divario sempre più grande tra Ricchi e Poveri, del fatto che i poveri non sono più soltanto gli ultimi della terra, gli immigrati, i nullafacenti, ma che a questi si sono aggiunti i giovani che hanno visto diminuire le possibilità di lavoro e coloro che appartengono alla fascia di età dei cinquantenni- gli ex borghesi che hanno perso il lavoro per la crisi economica e hanno poche speranze di esser assunti.



     Sul filone narrativo a sfondo socio-economico si innesta quell'altro più noir degli omicidi su cui Kostas dovrà indagare e la novità del romanzo è che la regia dei due filoni è affidata a due protagonisti diversi, Lambros e Kostas.  Che gli omicidi abbiano a che fare con i soldi è subito chiaro quando si scopre l'identità di chi è stato ucciso. Il primo morto è un arabo saudita (ormai sono gli arabi degli Emirati i nuovi magnati), il secondo è un cinese (chissà che ne pensa Mao, se è in qualche aldilà da cui vede come è  cambiata la Cina), il terzo è un greco. I primi due avevano in programma di investire soldi in Grecia- costruendo dal nulla una località turistica l'uno, comprando e ristrutturando appartamenti da affittare il secondo. Il terzo aveva anche lui a che fare con gli investimenti e aveva scritto degli articoli sulla follia che portava ad uccidere chi avrebbe potuto tirare fuori la Grecia dalla crisi che la stava affossando. Le modalità degli assassinii è sempre uguale, l'arma è un coltello, la firma dell'assassino è una canzone che i rari testimoni hanno sentito: "che te ne fai dei soldi, non hanno anima/ e se li amerai ti porteranno malasorte e rovina".
   Quello che apprezzo sempre di Petros Markaris è la sensibilità che mostra verso le problematiche economiche e sociali della realtà in cui vive, anzi, in cui viviamo, perché la situazione in Grecia non è molto diversa da quella italiana. Non è un caso che l'Italia sia tirata dentro come esempio da seguire in questo suo romanzo. Il Movimento dei Poveri voluto da Lambros viene avvicinato a quello delle Sardine. C'è  una sorta di passaparola in termini elogiativi del movimento italiano e c'è anche un personaggio italiano che prende la parola durante una delle manifestazioni che, per restare pacifiche, assumono sempre più un carattere quasi folcloristico.
    C'è poi l'altra caratteristica dei romanzi di Markaris che lo differenzia dai romanzi di genere del momento ed è quel filone intimistico-familiare che offre uno squarcio di quotidianità. La famiglia di Kostas si è allargata- figlia, genero, amici, lo zio Lambros si uniscono a Kostas per gustare i manicaretti della moglie. Adriana può soddisfare il suo più o meno conscio desiderio di protagonismo preparando la zuppa di fagioli da distribuire gratuitamente ad un incontro del nuovo Movimento in cui le varie componenti offriranno il piatto dei poveri del loro paese (è la panzanella per gli italiani).
Se ci sono meno battibecchi divertenti tra Kostas e la moglie, è perché il piccolo Lambros reclama l'attenzione di tutti.
                                           
Kostas sullo schermo

Ecco, forse c'è un po' troppa vita di famiglia nel romanzo di questo autore la cui cifra narrativa è la predilezione per le tinte stemperate. Markaris non ama la violenza e neppure la descrizione della violenza. Non c'è mai una forte tensione nei suoi libri, né una azione convulsa. Più che rivolgere la nostra attenzione alla caccia all'assassino sintonizziamo le nostre antenne sulla frequenza di quelle dello scrittore che riescono a cogliere ogni segnale di disagio.  

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giovedì 17 settembre 2020

Paul Scott, “Il gioiello della corona” ed. 2020

                                  Voci da mondi diversi. Gran Bretagna e Irlanda

            love story

       la Storia nel romanzo



Paul Scott, “Il gioiello della corona”

Ed. Fazi, trad. S.Bortolussi, pagg. 444, Euro 19,00, formato kindle 9,99

 

    "Che cosa c'è in un nome? quella che chiamiamo rosa avrebbe un profumo altrettanto dolce con qualunque altro nome", dice Romeo a Giulietta per rivendicare il suo amore aldilà dell'inimicizia tra le loro due famiglie.  Non è vero. Ascoltate questi due nomi: Harry Coomer e Hari Kumar. Pronuncia molto simile, scritti in maniera diversa, i due nomi dello stesso uomo nella versione inglese e in quella indiana. L'uomo dalla pelle scura arrivato in Inghilterra con il padre rimasto vedovo quando aveva solo due anni, lo Harry Coomer che aveva frequentato una delle migliori scuole inglesi, che parlava un inglese non solo perfetto ma "upper class", non è più lui quando, dopo il suicidio del padre e la scoperta che questi aveva perso tutti i soldi, ritorna in India. Adesso si chiama Hari Kumar (anche se fatica a riconoscersi con questo nome), non sa una parola di hindi, vive in casa della sorella di suo padre a Mayapore, ed entrambi devono fare affidamento sulla carità del cognato della zia. Hari non sa più chi è, è diventato invisibile, non riconosciuto dagli indiani come uno di loro e, ancora peggio, disprezzato dalla comunità inglese in India perché 'nero'.

   Hari Kumar è uno dei due personaggi principali dell'affascinante romanzo di Paul Scott "Il gioiello della corona", primo libro di una quadrilogia che è stato ristampato con una nuova traduzione- l'edizione originale è del 1966. Un titolo che nasconde l'ipocrisia del colonialismo. È  l'India ‘il gioiello della corona’,  ma sono solo parole. L'India è un gioiello per la ricchezza che apporta all'Impero che non sarebbe mai diventato così potente senza sfruttarla. E tuttavia bisogna ammantare questo sfruttamento di perbenismo: è ‘il fardello dell'uomo bianco’, nelle parole di Kipling, quello di portare la civiltà nei paesi ‘barbari’ anche a costo di sacrifici.
    É  il 1942.  L'Europa è in guerra. I giapponesi sono sbarcati a Burma (l’odierno Myanmar). Gli indiani del Congresso, sotto la guida di Gandhi, li considerano come i possibili liberatori dal giogo inglese. Al grido di “Quit India”, Andatevene dall'India, scoppiano disordini in tutte le città, anche nell'acquartieramento di Mayapore, una fittizia cittadina nel Bengala dove si svolge il romanzo di Scott.
    Gli avvenimenti di quei giorni vengono raccontati da personaggi diversi e quindi visti da diverse angolazioni. La prima parte del libro è come un’introduzione all'episodio centrale, è una anticipazione del clima di minaccia e di violenza che incombe. Anche le parole che Edwina Crane, la non più giovane direttrice scolastica, continua a ripetere, “Non c'è niente che possa fare. Niente.”, potrebbero essere ripetute più tardi quando accade il peggio. L'automobile guidata da Miss Crane viene fermata da un gruppo di rivoltosi. L'insegnante che viaggia con lei muore. E Miss Crane aspetta i soccorsi, seduta sotto la pioggia sul ciglio della strada, stringendo il collega tra le braccia mentre le fiamme divorano l'auto. Così come dopo avvolgeranno la stessa Miss Crane nell'imitazione di un ‘suttee’- la vedova che si immola su un’India che non c'è più.

     Mentre iniziano ad esserci chiare la discriminazione che proibisce agli indiani l'ingresso nei locali frequentati dagli inglesi e la profonda frattura tra i bianchi colonizzatori che si reputano ‘la razza superiore’ (come i nazisti contro cui combattono) e i nativi indiani, vengono introdotti gli altri due personaggi, entrambi inglesi, vertici con Hari di un triangolo esplosivo- Miss Daphne Manners e il poliziotto Ronald Merrick.
    Goffa, con gli occhiali, orfana (come Hari), senza soldi (come Hari), ospite in India di una zia (come Hari, anche se lui si ribella al paragone), Miss Manners vive in casa di Lily Chatterjee, un'indiana liberale di alto rango, amica della zia.
     Succede quello che succede sempre nei conflitti razziali, quando si dà per scontato ed è universalmente accettato che l'uomo bianco si accoppi ad una donna indigena o di colore, ma è del tutto inammissibile che accada il contrario. Non c'è posto dove Hari e Daphne possano incontrarsi tranne che nella McGregor House di Lady Chatterjee e nei Bibighar Gardens- c'è un'altra storia dietro i Bibighar Gardens, un nome che ricorre per tutto il romanzo con la sua duplice allusione all'amore e alla violenza. È nell'oscurità dei Bibighar Gardens che, aizzati dalla scena di amore a cui hanno assistito, un gruppetto di facinorosi stuprano Daphne. Lei si rifiuterà di confrontarsi con i i ragazzi arrestati- è certa che non siano i colpevoli, ma uno di loro è Hari su cui si sfoga la gelosia selvaggia di Ronald Merrick, uno dei personaggi più odiosi di sempre.
                                            Passaggio in India
     A quarant’anni di distanza da “Passaggio in India” di Forster, uno stupro al centro del romanzo. Nel libro di Forster era uno stupro solo immaginato che portava ad un processo che scagionava l'accusato pur marchiandolo. Qui è uno stupro realmente subito che non porterà a nessun processo per mancanza di accusa, per difendere l’amore. Eppure in entrambi i romanzi lo stupro serve da detonatore per gli insanabili contrasti razziali e politici e diventa una metafora per la violenza che è stata fatta su un intero paese, non diversamente da quanto accade in altri romanzi più vicini a noi, “La ciociara” di Moravia o “La storia” della Morante.
    Si ha tempo di riflettere, leggendo “Il gioiello della corona”. Perché la vicenda è ripetuta nelle varie parti che gettano luce anche sugli altri personaggi indiani e inglesi- non solo l'odioso Merrick ma anche Mrs. Manners dalle ampie vedute che ci ricorda Mrs. Moore di Forster,  l’ equilibrato vice commissario che richiama Mr. Fielding di “Passaggio in India”. Non c'è un unico narratore e non c'è unico tono narrativo nel romanzo. Più lente e perfino troppo particolareggiate le parti più prettamente storico-militari-politiche. Ci sono flashback, lettere e, per finire, il diario di Daphne che la zia invia a Lady Chatterjee- un lascito prezioso, tragico e straziante per chi resta.

     Un film per la BBC è stato tratto dal libro di Paul Scott. Lo potete vedere su YouTube. Anche se, come spesso avviene, estrapola la storia d'amore dal romanzo, ve lo consiglio. E naturalmente dovete leggere il libro.

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martedì 15 settembre 2020

Kiran Millwood Hargrave, “Vardø. Dopo la tempesta” ed. 2020

                                  Voci da mondi diversi. Gran Bretagna e Irlanda 

                                     la Storia nel romanzo

Kiran Millwood Hargrave, “Vardø. Dopo la tempesta”

Ed. Neri Pozza, trad. Laura Prandino, pagg.342, Euro 18,00

     Maren aveva sognato una balena arenata fra gli scogli sotto casa sua. Aveva sognato gli uomini che incominciavano a tagliarla prima ancora che fosse morta. Nel sogno sentiva nel naso il puzzo del grasso di balena che bruciava nelle lampade. Era il sogno di un cattivo presagio.

   La vigilia di Natale del 1617, al largo di Vardø nella Norvegia orientale che si affaccia sul mare di Barents, una burrasca improvvisa aveva affondato le barche che erano uscite a pesca. Quaranta uomini non erano più tornati. Quaranta uomini significava che il villaggio si era svuotato, che restavano vecchi, donne, bambini e il pastore della chiesa. Che, se non volevano morire di fame, le donne dovevano svolgere anche i compiti degli uomini. Uscire fuori in barca ad esempio. E la pesca era necessaria, si doveva far essiccare il pesce per avere delle scorte. Anche se era disdicevole- perfino il pastore chiudeva un occhio, fingendo di non vedere che una delle donne indossava per comodità i pantaloni del marito, pensando che in casi così estremi Dio avrebbe perdonato.

                                         memoriale a Vardo

   La storia che leggiamo nello splendido romanzo di Kiran Millwood Hargrave, è tutta vera tranne, naturalmente, quello che è appannaggio dello scrittore- poter inventare pensieri, rapporti personali, sentimenti e situazioni. È vera e documentata la burrasca, è vero l’arrivo di un sovrintendente scozzese inviato da Re Cristiano di Danimarca, un luterano integralista che vedeva nella legge sulla stregoneria, promulgata nel 1618, il pretesto e la possibilità di sbarazzarsi della popolazione sami che, abituata ad interpretare i segni della natura in una sorta di animismo religioso, rifiutava di obbedire alle riforme imposte dalla Chiesa Luterana.

    È un romanzo che ruota soprattutto intorno alle donne, “Vardø. Dopo la tempesta”. E ci addentriamo quasi scivolando su ghiaccio nelle case di queste donne, vibranti di un’atmosfera di pericolo- c’è chi è pronto a mal interpretare le rune di protezione incise su uno stipite o le figurine benaugurali impagliate nell’osso, case cupe perché senza finestre per non disperdere il calore, fredde perché solo le pelli di renna sul pavimento di terra battuta isolano dal gelo. Non ci si spoglia in queste case e neppure ci si lava. Il puzzo di pesce, di renne macellate, di sporco, resta incollato alle vesti e ai capelli. Si parla poco ed è più quello che non si dice che quello che viene detto. Si sparla molto. Soprattutto le donne della kirke, le solite beghine di tutte le comunità religiose, sono le più feroci nel cercare i peccati delle altre. E alcuni bersagli sono facilmente individuabili. La donna che ha la casa più bella e più grande del paese, Kirsten, così fiera, spavalda e indipendente, che non si lascia dettare legge da nessuno. Diinna, cognata di Maren, che ha la colpa più grande- quella di essere una sami. E nessuna donna vuole ricordare di essersi rivolta a lei quando aveva bisogno e non aveva altre speranze- come per riuscire a restare incinta.


   Queste donne sono state tutte rese vedove dalla burrasca, oppure hanno perso il fidanzato come Maren, e finisce che si formano due gruppi in paese: le donne che hanno conservato una indipendenza di pensiero e le donne della kirke- sappiamo che saranno queste la vera minaccia, quando il sovrintendente scozzese arriva a Vardø con la giovane moglie Ursa sposata a Bergen.

È una figura emblematica questa Ursa che arriva dalla “civiltà” con le pantofoline di velluto che si inzaccherano subito di fango, con un abito giallo che è come un vessillo colorato che svolazza nel vento che soffia dal mare. Maren le offre il suo puzzolente cappotto di renna per ripararsi e tener ferme le gonne e in questo gesto c’è un’anticipazione dell’amicizia amorosa che le unirà, dell’ala protettrice di Maren quando, per evitare il peggio, questa farà da schermo all’amica, quando indosserà lei stessa l’abito che da raggio di luce era diventato la prova di una colpa.

                                      il fuoco nel memoriale

   Dei pochi uomini del romanzo si salva solo il gentile comandante della nave che offre ad Ursa semi di anice da succhiare. Anche questo piccolo dono di consolazione è simbolico, più tardi Ursa condividerà i semi di anice con Maren. Il sovrintendente e il Lensmann di Vardø sono uomini duri e crudeli. Sono dei padroni che dicono di servire Dio contando i morti, estraendo a forza confessioni assurde di come le donne avessero scatenato la burrasca con l’aiuto di Satana…

   Leggendo il libro di Kiran Millwood Hargrave il nostro pensiero corre ai processi alle streghe a Salem (“Il crogiuolo” di Arthur Miller), a quelli in Italia (“La chimera” di Sebastiano Vassalli) nel 1692 e nel 1610- che secolo buio e spaventoso il seicento, con i processi alle streghe, anche se questi si sono ripetuti in altri tempi seppure sotto altre forme.

    Un monumento a Vardø, eretto nel 2011, ben quattrocento anni dopo i fatti, ricorda le novantuno vittime uccise per stregoneria. Di queste settantasette erano donne e quattordici, tutti sami, erano uomini.

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la recensione sarà pubblicata su www.stradanove.it




 

lunedì 14 settembre 2020

Samrat Upadhyay, “Buddha’s orphans” ed. 2010

                                                        Voci da mondi diversi. Nepal

                                                        love story

                                                      in altre lingue

Samrat Upadhyay, “Buddha’s orphans”

Ed. Mariner’s Book, pagg. 453, formato kindle Euro 13,10

   Kathmandu 1961. Un vecchietto con una barba a punta come quella di una capra trova un neonato abbandonato vicino al grande stagno di Rani Pokhari, suppone che la madre si sia suicidata buttandosi in acqua- diventerà un altro fantasma che si aggira su quelle sponde. Porta il bambino da Kaki, una donna che vende pannocchie con chutney, al mercato- sarà lei ad allevarlo. E a dargli un nome di buon auspicio, Raja, Re.

    Seguiremo la vita di Raja per più di mezzo secolo, fortunato nella sua sfortuna. Fortunato per non essere stato consegnato ad un orfanotrofio ma per aver ricevuto invece tutto l’affetto di Kaki. Fortunato anche per essere stato poi “adottato” dal benestante Ganga Da che con carte false lo sottrae a Kaki con il pretesto che offrirà a Raja la possibilità di andare a scuola, in realtà sperando di rallentare la follia della moglie che si è incapricciata del bambino e che, se si dedica a lui, ha episodi meno frequenti di stranezza paranoide.


    La fortuna di Raja continua: la sedicenne Nilu, che lo aveva conosciuto da bambino e poi lo aveva perso di vista, è innamorata di lui e ha deciso che solo lui può essere il compagno della sua vita. Si sposeranno, avranno un figlio… succederanno tante altre cose. La fortuna smetterà di arridere a Raja.

     Nonostante l’apparenza, non è Raja ad essere il protagonista di “Budda’s orphans”. È Nilu. E mentre incominciamo a disprezzare Raja per la sua indolenza, per la mancanza di senso di responsabilità, per lasciar lavorare Nilu senza dare il minimo contributo, per spendere soldi non suoi come fosse veramente un re prodigo, ammiriamo sempre di più Nilu per la sua resilienza, per la sua forza.

     Raja continua (e continuerà fino alla fine, quando ha superato la mezza età) a rimuginare sull’assenza della sua vera madre dalla sua vita, ma ha forse un’eredità migliore Nilu, orfana di padre e cresciuta con una madre che si asserragliava nella sua stanza, sempre ubriaca e drogata, succube di un giovane amante che ha sperperato tutti i suoi soldi e che ha cercato di molestare Nilu?

   Sono entrambi senza genitori, Raja e Nilu, orfani sotto gli occhi del Budda del grande tempio di Swayambunath che dall’alto di una collina domina Katmandhu, che tutto vede e tutto comprende. Che sembra osservare impassibile come Raja e Nilu si allontanino l’uno dall’altro per poi tornare insieme, ed essere di nuovo felici, affrontare un dramma che gli avrebbe risucchiato le forze e infine accogliere un altro piccolo orfano di Budda che ridarà loro la serenità.


   Un finale catartico, la ruota del Dharma ha fatto un giro completo, l’equilibrio si è ristabilito.

   Mi sono imbattuta nel romanzo di Samrat Upadhyay mentre cercavo un libro di uno scrittore nepalese dopo un mio viaggio in Nepal. E’ stata una ricerca difficile e ho trovato solo due scrittori, entrambi nati in Nepal ma che vivono all’estero- Upadhyay negli Stati Uniti e Manjushree Thapa in Canada.

   Non ho trovato quello che cercavo in “Buddha’s orphans”. I cenni alla storia del Nepal sono pochi e rari- si accenna al Re Mahendra e al Re Birendra, Raja prende parte a marce di protesta (una di queste manifestazioni è causa di una tragedia famigliare)-, ma è tutto superficiale, come visto dall’esterno. Ho ripercorso, con Raja e Nilu, le strade di Katmandhu, sono salita al grande tempio Swayambunath per accendere candele con Nilu. Ma avevo l’impressione di aggirarmi per Katmandhu con l’aiuto di Googlemaps, senza sentirne gli odori, senza assaggiare i piatti locali.

  Sarebbe stata la stessa cosa se “Buddha’s orphans” fosse stato ambientato in qualunque altra città orientale.