lunedì 28 febbraio 2022

Silvia Truzzi, "Il cielo sbagliato" ed. 2022

                                                              Casa Nostra. Qui Italia

                   

Silvia Truzzi, "Il cielo sbagliato"

Ed. Longanesi, pagg. 380, Euro18,00

    Due bambine nascono lo stesso giorno, a Mantova, il giorno dell’armistizio che mette fine alla guerra del 1914-1918. Una è molto povera e sarà una donna molto bella, pur con il marchio infamante e ingiusto di ‘bastarda’. L’altra appartiene ad una famiglia molto ricca, non ha ricevuto il dono della bellezza ma quello della bontà. Una resta orfana appena nata, ha solo una nonna (cattivissima) ad occuparsi di lei. L’altra cresce con tre fratelli, coccolata perché unica bambina. Una sarà costretta dalla nonna a chiedere l’elemosina sulla gradinata di Sant’Andrea, l’altra cercherà di farle accettare una moneta.

    Sembra l’inizio di una favola, tutti gli elementi ci sono- Dora è come Cenerentola, la nonna è la strega cattiva, quando Dora, a solo sette anni, è presa come servetta in casa Benedini, la signora Agata assume il ruolo di una perfida matrigna, ma, per fortuna, le due bambine Benedini non si comportano con alterigia nei confronti di Dora. Anzi, Adele, che ha solo un anno più di lei, diventerà una vera amica. E Irene, la bambina ricca che le faceva l’elemosina diventerà sua cognata. Perché sì, la Cenerentola di “Il cielo sbagliato”, sposerà uno dei due fratelli (ricchi, va da sé) Arrivabene. La sua bellezza, bionda, con grandi occhi azzurri, un corpo splendido, è il passaporto di Dora per la scalata sociale. Dino Benedini, imprenditore dalle ampie vedute, antifascista con la tessera del partito (indispensabile per poter lavorare), ha preso a cuore la sorte della bimba che, in fuga dalla nonna, per poco non moriva assiderata nel suo giardino. Mettendo a tacere le proteste della moglie, ha voluto che Dora crescesse e studiasse con le proprie figlie, le ha dato anche una piccola dote quando il pretendente si è fatto avanti.


     Se la trama del romanzo di Silvia Truzzi fosse soltanto la storia della ragazza povera e bella che entra a far parte di una cerchia di persone che l’avevano guardata- letteralmente- dall’alto al basso, sarebbe banale e troppo zuccherosa. Ma la storia di Dora si svolge in un arco di tempo che copre il periodo tra le due guerre, con la povertà generalizzata che segue la prima, i primi episodi delle squadracce nere (Dora assiste ad un pestaggio e ne è sconvolta), l’avvento di Mussolini al potere (e i protagonisti si schierano su due fronti, uno dei due fratelli Arrivabene ha la protervia dei seguaci del Duce, l’altro, il medico che sposa Dora, farà la sua resistenza nell’ombra, curando partigiani ed ebrei e Dino Benedini aiuta di nascosto a far passare in Svizzera gli oppositori del regime), la guerra in Africa (un amico di Dora ne ritorna sconvolto dall’uso illecito dei gas), l’alleanza con Hitler che porta alle leggi razziali e alla dichiarazione di guerra (memorabile la scena del bombardamento nel giorno di san Valentino del 1944). 


    La svolta privata della vicenda, nel giorno del bombardamento, coinvolge un nuovo personaggio, l’ufficiale della Wehrmacht che ha requisito per sé una delle ville della famiglia Arrivabene. La scrittrice stessa, nei ringraziamenti in chiusura del libro, dice qualcosa di cui molti lettori si sono certamente accorti- Alexander von Elsener è un omaggio a Martin von Bora, l’eroe della serie di Ben Pastor. Alexander ha il fascino di Martin, aitante, colto, musicologo, nobile anche se omette il titolo quando si presenta, parla perfettamente l’italiano, una casa editrice in famiglia. E antinazista, inseguito dalla Gestapo. Proprio come Martin. Un personaggio importante, anche se superficialmente sembra accentuare la tonalità rosa della vicenda, perché è il tedesco ‘buono’ che ci fa ricordare che i buoni e i cattivi ci furono su entrambi i fronti, e perché la storia d’amore in cui è coinvolto è una delle tante storie di guerra in cui le donne furono bollate come collaborazioniste, così umane, però.


     Mantova, infine, il grandioso e splendido personaggio del libro. Mantova, un po’ defilata, con i gioielli dei suoi palazzi (una scena romantica si svolge a Palazzo Tè nella sala dalla particolare acustica che permette bisbigli segreti), le sue piazze, le chiese, i dipinti, il lago, il clima afoso d’estate quando le zanzare non danno requie. Ma non solo: anche i sapori della sua cucina e i profumi dei suoi piatti caratteristici aiutano a creare l’atmosfera intorno a questa città che può sembrare una ‘Principessa addormentata’ (per restare nell’ambito delle favole) che deve essere risvegliata.

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sabato 26 febbraio 2022

Narine Abgarjan, “Simon” ed. 2022

                                                    Voci da mondi diversi. Armenia

           love story

Narine Abgarjan, “Simon”

Ed. Brioschi, trad. Claudia Zonghetti, pagg. 352, Euro 20,00

 

    Ad Ajinants Melan’ja era morto il marito.

Questo l’inizio del nuovo, atteso romanzo di Narine Abgarjan, dopo il bellissimo “E dal cielo caddero tre mele”. Bellissimo pure questo.

    Simon è morto, aveva 79 anni, una bella età per morire.

Cinque donne lo piangono, cinque donne rendono onore al feretro. Una è la moglie. Le altre quattro sono donne che lui ha amato e che lo hanno amato, donne nella cui vita Simon è entrato in un momento per loro di tristezza, di disperazione, di solitudine, di insicurezza, salvandole, aiutandole in una maniera di cui lui stesso non era neppure pienamente consapevole.

Sil’vija. Sof’ja. Eliza. Susanna.

Il romanzo è la storia di ognuna di queste donne, una storia a sé, ma fino ad un certo punto. Perché abitano tutte a Berd, un paesino in Armenia dove tutti si conoscono, dove si sente ogni tanto un forte profumo di mare che viene su dalla forra. Ma l’Armenia non si affaccia sul mare.


    Sil’vija, Sof’ja, Eliza, Susanna, sono tutte donne malmaritate, con l’eccezione di Sof’ja.

 “Ha sposato la persona sbagliata”, dirà un medico al padre di Sil’vija che si era innamorata a prima vista di Romik e tuttavia, dopo il matrimonio, non erano riusciti ad avere un rapporto prima che fosse passato un mese. Lui l’aveva fatta rinchiudere in manicomio e le aveva portato via la figlia.

Poi era arrivato Simon.

    La prima tragedia nella vita di Eliza era stata la morte del fratellino quando questo aveva due anni, nel tremendo anno della fame. La madre si era trovata davanti ad una scelta (ricordiamo l’agonia di questa scelta ne “La scelta di Sophie” di William Styron) e non si era più ripresa. Eliza era andata sposa giovanissima ad un uomo che aveva già un’amante, che avrebbe continuato a frequentare anche dopo, e ad Eliza la storia con il marito aveva lasciato “una sensazione di inutilità e futilità”. Quando poi i figli erano partiti per l’estero, Eliza non aveva più avuto motivo di vivere.

Poi era arrivato Simon.


   Sof’ja si era sposata perché voleva mettersi l’abito da sposa. Viziata perché unica figlia femmina, il suo matrimonio era felice tranne che per la mancanza di figli. Il marito si era allontanato per lavoro e lei lo avrebbe raggiunto, avrebbero incominciato una nuova vita in cui nessun curioso avrebbe fatto domande indelicate.

   Poi era arrivato Simon.

   La storia di Susanna si intreccia con quella di Melan’ja, la moglie di Simon. Perché Simon e Susanna sognavano il matrimonio, poi era successa quella cosa bruttissima che aveva disonorato Susanna, e Simon si era tirato indietro. Una vita tristissima, quella di Susanna, prima e dopo il matrimonio ‘d’onore’.

    Poi era arrivato Simon.

Di nuovo. E ‘le aveva scaldato il cuore’. Perché Simon aveva la dote rara di infondere serenità, di far sparire i fantasmi del passato.

    E Simon? È lui che apre il romanzo ed è lui che lo chiude in un capitolo di grande ironia. “A Simon il suo funerale non stava piacendo per niente”, Simon pensa al film “Quattro matrimoni e un funerale” e non sa se debba ridere o piangere. Ma di che cosa stanno parlando quelle donne? Lui, lui le avrebbe salvate?


Che grande, quest’uomo che, sì, è un donnaiolo e qualunque moglie farebbe quello che fa Melan’ja che tiene da parte una riserva di piatti sbeccati da scagliargli contro in una delle scenate che gli fa a intervalli puntuali, però è un donnaiolo con una riserva d’amore infinita, è delicato, è gentile, è generoso.

E che grandi queste donne. Perché il romanzo di Narine Abgarjan è un inno alla resilienza femminile, alla loro capacità di sopportare e di andare avanti. E alle donne di Simon, a queste grandi donne, si deve aggiungere un altro personaggio femminile indimenticabile, Vardanus Occhistorti il cui soprannome dice tanto sul suo aspetto, e meno male che non la chiamano ‘la Scema’. Vardanus, sorella di latte di Eliza, passa da una storia all’altra, perché è sempre presente dove c’è bisogno di lei. Non ha testa ma ha cuore Vardanus. Lei, che è fuori dal gioco dell’amore, distribuisce amore a piene mani, in maniera simile e diversa da Simon.

      Si avvicina l’8 marzo, la festa delle donne. Questo è il libro perfetto da leggere e da regalare.

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giovedì 24 febbraio 2022

Max Gross, “Lo shtetl perduto” ed. 2022

                              Voci da mondi diversi. Stati Uniti d'America

      Diaspora ebraica
     ucronia

Max Gross, “Lo shtetl perduto”

Ed. e/o, trad. Silvia Montis, pagg. 406, Euro 25,76

    Uno shtetl? Perduto? Quanti ‘goy’, non ebrei, sanno ancora che cosa era uno shtetl? E in che senso perduto?

Ce lo dice Max Gross, giovane scrittore americano, in questo romanzo tra ucronia, commedia, Storia vera e Storia possibile o impossibile.

    Supponiamo che un villaggio ebreo, in un’area lontana dalle vie di comunicazione in Polonia, non registrato su nessuna mappa (le motivazioni per questo ci verranno date nel corso del romanzo), sia sfuggito a tutti i rastrellamenti, si sia sottratto a quella enorme tragedia che è stata la Shoah.

    Immaginiamo un personaggio del tipo di John di “Coraggioso nuovo mondo” di Huxley, di Candide, di Gulliver, dello yankee di Mark Twain, precipitato però, non come questo in un mondo passato ma nel nostro mondo contemporaneo dopo essere rimasto ancorato ad una realtà vecchia di cento anni- si chiama Yankel Lewinkopf questo personaggio, il mamzer, il bastardo, il giovane di cui lo shetl può fare a meno (nel caso gli succeda qualcosa), protagonista de “Lo shtetl perduto”.


   Il romanzo inizia, però, con una storia di amore che amore non è, piuttosto di un matrimonio improbabile fin dall’inizio, tra la bellissima Pesha e Ishmael. Un legame così infelice che, a torto o a ragione, dopo scene da tragicommedia, Pesha chiede il divorzio. Lui glielo rifiuta. Lei lo ottiene e poi fugge da Kerskol per sottrarsi alle sue ire. Scompare anche lui, il marito. E se l’avesse uccisa? Bisogna denunciare il fatto alle autorità.

   Ecco che entra in campo il mamzer che viene mandato nella città più vicina a seguito della carovana di zingari che gli faranno strada.

   Le avventure di Yankel in città sono un piccolo romanzo a sé, esilaranti, ricche di humour- in un certo senso la scoperta di un mondo che Yankel non ha gli strumenti per capire, a cui non è stato preparato attraverso passaggi graduali, è una scoperta anche per noi lettori attraverso la lente dell’ingenuità e della curiosità. Le automobili, prima di tutto. Come fanno a spostarsi da sole? E poi tutto, proprio tutto. Televisori e telefoni, lavatrici, capi di abbigliamento a dir poco scostumati all’occhio di Yankel, Coca-cola e il cibo che gli viene offerto (lui non si azzarda a mangiare nulla: sarà kosher? e che cosa significa kosher, ribattono gli altri) e tutte le centinaia di cose a cui siamo abituati e a cui neppure facciamo caso. La lingua, poi. Yankel parla yiddish, ha solo imparato a memoria un paio di frasi in polacco.


   Finirà che, per un incidente, Yankel è ricoverato in ospedale e diventa oggetto di studio da parte dei medici, proprio come, in seguito, l’intero shtetl diventerà oggetto di studio, quando, in una scena grandiosa, quello che pare un uccello di ferro riporta Yankel a Kerskol. È forse il Messia l’uomo barbuto che lo accompagna?

    Immaginiamo un intero paese che non sa nulla di Ben Gurion, di Israele, di Trump. Non sa niente di niente. Tantomeno sa di Hitler e dello sterminio degli ebrei. Questo è il punto cruciale del libro. Perché la grandiosità del Male è incomprensibile per i buoni ebrei di Kerskol. Yankel aveva liquidato la faccenda giudicandola impossibile- ma come? non ci sono più ebrei in Polonia? in Europa? Solo il sopravvissuto con i numeri tatuati sul braccio (un altro piccolo romanzo dentro il romanzo), che arriva in paese e racconta storie che spaventano i bambini, riuscirà in parte a convincerli. Solo le fotografie delle cataste di cadaveri ci riusciranno. E qualcuno finirà quasi pazzo dopo aver appreso della Shoah.


   Si metteranno in moto i meccanismi per colmare i cento anni di arretratezza per portare Kerskol nella contemporaneità. È davvero a loro vantaggio?

Nel frattempo, mentre una piccola rivoluzione è in atto a Kerskol, la storia della fuggitiva Pesha (facile indovinare che cosa si sia ritrovata a fare per vivere) prosegue e arriva ad una conclusione, chiudendo il cerchio in un finale disturbante con il ricordo di una Yiddishland perduta.

     Offre molti spunti di riflessione, il romanzo ‘e se…?’ di Max Gross- sul senso di identità e appartenenza, sui valori o non valori della modernità, sulla religiosità e sulla lingua. Soprattutto mette in luce il pericolo di negare la tragedia del passato, perché, mentre scompaiono gli ultimi testimoni, l’enormità di quanto è accaduto può sempre più sembrare impossibile, un’invenzione di menti amanti del macabro.

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lunedì 21 febbraio 2022

Tarjei Vesaas, “Il castello di ghiaccio” ed. 2022

                                                               vento del Nord


Tarjei Vesaas, “Il castello di ghiaccio”

Ed. Iperborea, trad. Irene Peroni, postfazione di Luca Scarlini, pagg. 185, Euro 16,50

 

    Il Telemark. I più lo conoscono come uno stile di sci, chiamato anche ‘a tallone libero’. Una contea nel sud della Norvegia che deve il suo nome all’antica tribù germanica che lo ha abitato fin da epoca vichinga. La regione che ha mantenuto l’antica cultura norrena più di qualunque altra, contesa tra inglesi e tedeschi, durante la seconda guerra mondiale per gli impianti di produzione dell’acqua pesante, essenziale per la costruzione della bomba atomica.

    Due bambine di undici anni, Siss e Unn.

    Il castello di ghiaccio, una cascata che, col gelo, ha formato una gigantesca struttura con la forma di un castello.

   Un tempo fuori dal tempo.

   Intorno a questi elementi si costruisce la fiaba noir di Tarjei Vesaas, vincitore del premio del consiglio Nordico del 1964 e plurinominato al Nobel. Una fiaba che risveglia echi della Regina delle nevi di Andersen e, per venire a tempi moderni in cui giganteggia il grande schermo, “Frozen”, che si legge con il fiato (condensato in nuvolette di vapore) sospeso, con brividi di orrore (e di freddo) per una morte che immaginiamo chiusa per sempre in una capsula di ghiaccio.


    Unn è nuova nel paesino perso nel nulla. Abita con la zia, sua madre è morta poco tempo prima, si tiene lontana dai compagni di classe. Poi, un giorno, invita Siss ad andare a casa sua. Che cosa si dicono, le due bambine, chiuse nella stanzetta di Unn? Soprattutto, che cosa non si dicono? Perché Siss ritorna a casa spaventata- non sa bene neppure lei da che cosa- , con una paura che sembra inseguirla lungo la strada buia?

    Le ombre hanno incominciato ad addensarsi quella notte stessa, all’inizio di una amicizia che non fa neppure a tempo ad iniziare. La mattina dopo solo Siss è presente a scuola. La zia dirà che è uscita di casa come al solito, però a scuola non è mai arrivata. Incominciano le ricerche, nel buio e nel gelo, mentre le domande incalzano Siss che non sa nulla, che finisce per sentirsi male. Si ammalerà, mentre Unn non riappare.

    Il castello di ghiaccio è però, sia come realtà sia come metafora, il protagonista assoluto della fiaba. Tutti ne parlano, a scuola si progettava di fare una gita fin lì per vederlo. È sempre presente, nelle parole e concretamente, al centro di quattro momenti cruciali.


   Invece di andare a scuola, Unn è andata veramente nel castello di ghiaccio, fata morgana che attrae dentro la sua meraviglia scintillante- una trappola mortale.

   Le spedizioni di ricerca arrivano fino al castello di ghiaccio, non trovano nulla, non potrebbero. Di notte i giochi di luce sul ghiaccio si sono spenti, il buio avvolge il castello e il destino di Unn.

   Anche Siss va al magico castello. È una voce che la attrae? Lei difende con caparbia ostinazione la memoria dell’amica, non rinuncia alla speranza del suo ritorno. E tuttavia, quel ghiaccio che ha una sua voce negli scricchiolii e nei misteriosi boati, è anche una minaccia. E che cosa vuole indicare quel funesto uccello nero che scende in picchiata sul ghiaccio? Vede qualcosa, Siss?

   Infine tutta la classe si reca al castello, nel periodo più pericoloso, quando la massa di ghiaccio è percorsa dai fremiti della primavera che si avvicina. I giovani sono incoscienti, si sa…

   Avvolto in un’atmosfera di silenzio in cui le voci più forti sono quelle della natura, il romanzo di Vesaas è tante cose insieme- mystery, storia dello sbocciare di un’amicizia, di solitudine pre-adolescenziale, di diffidenza verso gli estranei, di un freddo interiore che pare essere il riverbero di quello esterno e poi di uno sciogliersi di tutti i grovigli e di tutte le sofferenze alla fine. Che cosa resta, di questa terribile esperienza? Non tutto ha una spiegazione, lo scrittore stesso preferisce lasciarlo nel mistero.

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sabato 19 febbraio 2022

Drago Jančar, “E l’amore anche ha bisogno di riposo” ed. 2022

                                                         Voci da mondi diversi. Slovenia

la Storia nel romanzo


Drago Jančar, “E l’amore anche ha bisogno di riposo”

Ed. La Nave di Teseo, trad. Darja Betocchi, pagg. 400, Euro 19,00

 

    Entriamo in una fotografia, invece che nello specchio di Alice, quella che vediamo sulla copertina del romanzo di Drago Jančar.

    Una strada in una cittadina slovena che sappiamo essere Maribor, diventata Marburg an Drau dopo l’occupazione militare della Jugoslavia da parte della Germania del Reich. Due ragazze, di schiena. Una con le trecce scure, l’altra bionda. Un ragazzo con una bicicletta si intravvede dietro di loro. La ragazza bionda ha il viso girato- guarda l’ufficiale nazista che sta passando sulla loro destra. Crede di conoscerlo. Non è forse Ludek, quello che, sulle piste da sci, l’aveva aiutata a rialzarsi, quando lei era ancora una bambina? E ora Ludek indossa la divisa delle SS. Il libro che stiamo per iniziare ci racconta la storia di Sonja, la ragazza bionda, di Valentin, lo studente di geodesia di cui è innamorata, di Ludek che ha in mano il loro destino e quello delle loro famiglie, della Slovenia durante la seconda guerra mondiale.

    È tarda sera- il primo di maggio-/ una sera di maggio- tempo d’amore./ Chiama all’amore un canto di tortora,/ là dove i pini profumano il bosco.

I versi del poeta ceco Karel Hynek Mácha sono il leit motiv che percorre tutto il romanzo, punteggiando i momenti di questa storia d’amore e di guerra.


Versi che ricordano dapprima momenti di felicità e diventano poi il simbolo struggente di una primavera ormai passata e che non tornerà più per Sonja e Valentin- torneranno a cantare le tortore ma non per loro due. Perché allora era il 1940, lei, figlia di un noto medico chirurgo di Maribor, studiava medicina a Graz, lui frequentava l’università a Lubiana. Poi c’era stata l’annessione alla Germania di tutta la parte settentrionale della Slovenia, e, quando la ragazza bionda della foto crede di riconoscere l’ufficiale nazista, il suo innamorato è rinchiuso da mesi nelle carceri della Gestapo, arrestato perché un ‘bandito’, un partigiano. E Sonja riesce a farsi ricevere dall’Obersturmführer Ludwig Mischkolnig, nella sua ingenuità pensa di potergli chiedere un piacere in memoria di un incontro casuale sulla neve, di un’operazione al ginocchio fattagli da suo padre, ma nessuno dà niente per niente. C’è un prezzo da pagare.

    Ludek ha seguito un percorso opposto a quello di Valentin. Valentin è salito sui monti per unirsi alla resistenza, Ludek ha cambiato nome, germanizzandolo in Ludwig per diventare un fervente nazista. Ludwig come Beethoven, ma il cognome? Quando lo aveva operato, il padre di Sonja aveva ironizzato su quel cognome che, nella sua radice, significava ‘topo’. Il ragazzo Ludek, che era appassionato di pesca e che non aveva cuore di dare il colpo finale ai pesci quando guizzavano appesi all’amo, ora, diventato Ludwig, che parla un tedesco perfetto, non batte ciglio davanti alle torture e alle fucilazioni dei detenuti nelle prigioni. Ed è un sentimento strano di gelosia, quello che prova per il giovane che ha conquistato l’amore della bella ragazza bionda.

Maribor

     Una sera di maggio- tempo d’amore, ma ora è tempo di guerra, l’amore…riesce a resistere l’amore davanti al tormento del dubbio, della frase detta da Ludwig nel mandarlo via? La guerra trasforma tutto e tutti, la vicenda romantica diventa tragica, l’attenzione dello scrittore si sposta su un quadro più ampio, quello della guerra, della germanizzazione della Slovenia, delle deportazioni, della resistenza, degli eccessi dall’una e dall’altra parte, dei bombardamenti degli Alleati, dei campi di prigionia per i collaborazionisti.

   Tutte le guerre sono diverse le une dalle altre.

   Tutte le guerre sono simili.

    Diverse le motivazioni ma, in fin dei conti, uguale lo stivale dell’oppressore sulla faccia dell’oppresso, come nell’immagine di Orwell in “1984”.

   Simili anche le azioni di guerriglia dei partigiani. Uguali le rappresaglie.

   Simili i personaggi anomali che approfittano della loro posizione per esercitare soprusi- si trovano ovunque.

   Quanto al finale, il tempo d’amore di una sera di maggio è definitivamente passato. Povera Sonja. Povero Valentin. E Ludwig che vorrebbe tornare ad essere Ludek?

    Sono pagine molto belle che fanno vivere la Storia (quella alle nostre porte) in un bellissimo romanzo.

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mercoledì 16 febbraio 2022

Zhang Yueran, “Dieci amori” ed. 2022

                                                                 Voci da mondi diversi. Cina


Zhang Yueran, “Dieci amori”

Ed. Atmosphere, trad. Stefania Stafutti, pagg. 200, Euro 17,00

 

     Primo consiglio: non iniziate a leggere il libro di Zhang Yueran pensando di calarvi in un’atmosfera romantica da san Valentino, perché altrimenti non potete non restare delusi e del tutto spiazzati. Perché c’è ben poco di amore ‘sano’ e normale, insomma di quello che intendiamo per amore, nel libro intitolato “Dieci amori”.

   La scrittrice era giovanissima, poco più che ventenne, quando ha pubblicato in Cina “Dieci amori”. Nata nel 1982, fa parte della generazione dei figli unici, di quella generazione post-anni Ottanta che ha un nome ben preciso, balinghou. Sono i giovani cresciuti in un clima di apertura del paese, quasi che la Cina avesse fretta di dimenticare e di rifarsi dopo lo sconquasso del lungo e doloroso decennio di Mao, segnato dalla Rivoluzione Culturale.


Zhang Yueran appartiene ad una famiglia colta, suo padre era docente universitario, lei stessa ha studiato alla Shandong University e dopo alla Università di Singapore. E la sua cultura si sente, in questa raccolta di racconti. Si sente nelle scelte linguistiche, nell’uso delle metafore (sottilissime) e delle similitudini (spesso originali), negli agganci sfumati sia alla letteratura della tradizione sia a quella di matrice occidentale- una vaga aria di Poe o di un certo Oscar Wilde aleggia nelle novelle. Che sono, a dir poco, sconcertanti. Sempre sul limite di due mondi, quello reale e quello dell’aldilà da cui spiriti e fantasmi ritornano a colloquiare con i vivi che ne avvertono la presenza con chiarezza.


    Una ragazza, nel giorno del suo matrimonio, viene rapita dal fantasma del suo innamorato che si era suicidato; una moglie cede, una per volta, le sue ossa al marito artista che le usa per costruire un’arpa (ma si prende la sua vendetta, prima di morire); una figlia uccide il padre; un marito carica su una barchetta il corpo morto della moglie (chiedendo l’aiuto della figlia bambina); una ragazza tiene prigioniera (per amore!) la sorella in una stanza. Due racconti sono veramente intriganti- quello che ha per protagonista il nostro Pinocchio (abbiamo mai pensato quanto sia insensibile qualcuno fatto di legno?) a cui il naso ormai impedisce di muoversi, e quello più propriamente di fantasmi, con una sposa senza testa che si infila nel letto dell’imperatore- e uno, invece, posto in fine al libro, “Chi ha ucciso il mese di maggio?”, è decisamente diverso. Vi appare un fotografo e non il solito personaggio di un pittore ed è l’unico che termina con un messaggio positivo.

    L’amore, così come appare, si esprime sempre con violenza, e può essere violenza psicologica o fisica; spesso i legami d’amore nascono nell’infanzia e quasi sempre c’è del masochismo nelle ragazze che accettano i comportamenti maschili che le feriscono o le soffocano; così come la barriera tra il ‘qui’ e ‘l’aldilà’ è labile, lo è anche quella tra i due sessi- in un racconto il ragazzo amato appare vestito in jeans strettissimi ed una gonna, sovente i giovani sono bisex.


    Il libro di Zhang Yueran, tradotto benissimo da Stefania Stafutti che ne cura anche l’ottima postfazione di cui abbiamo sentito la necessità mentre leggevamo. Perché il sentimento che provavamo era di inquietudine, di perplessità, era come se qualcosa ci sfuggisse (ad esempio il significato dei nomi che capiamo grazie a questa postfazione), come se ci mancassero appigli culturali. Un libro che torneremmo a rileggere daccapo, dopo essere stati ‘illuminati’.

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domenica 13 febbraio 2022

Catherine Chidgey, “Vicinanza distante” ed. 2021

                                  Voci da mondi diversi. Nuova Zelanda

 seconda guerra mondiale

Catherine Chidgey, “Vicinanza distante”

Ed. e/O, trad. Silvia Castoldi, pagg. 586, Euro 18,52

 

     Dalle lettere del dottor Lenard Weber alla figlia Lotte. Francoforte 1946.

     Dal diario immaginario di Frau Greta Hahn. Febbraio 1943 e anni a seguire. Buchenwald.

     Dalle riflessioni intime di mille cittadini di Weimar (8 Km. distante da Buchenwald).

     Da un’intervista con l’ex Sturmbannführer delle SS Dietrich Hahn (funzionario amministrativo del campo di concentramento). 1954.

 

   Sono questi i quattro filoni, le quattro testimonianze che si alternano nel romanzo “Vicinanza distante” della scrittrice neozelandese Catherine Chidgey. Un romanzo per molti versi stupefacente, soprattutto per la capacità della scrittrice di parlarci dell’orrore dei campi di concentramento in maniera nuova, quando pensavamo- a quasi ottanta anni di distanza- che tutto fosse già stato detto e in ogni modo possibile. Perché tutto si svolge fuori del campo, in questo ossimoro di ‘vicinanza distante’ che concede ai personaggi di sapere facendo finta di non sapere, di far entrare quei ‘servi’ nelle loro vite chiudendo il cuore alla compassione, di godere di lussi in stridente contrasto con le privazioni dei prigionieri, di lottare per mesi contro la morte (Frau Hahn pensava si trattasse di una cisti e invece era ben altro) quando al di là delle recinzioni si moriva ogni giorno di malattie, di fame, come conseguenza di esperimenti medici, di lavoro forzato, di torture e atti di violenza: 56.000 il numero totale delle vittime alla fine della guerra.


   Buchenwald, un nome così bello (il bosco di faggi) per un luogo che è diventato sinonimo di disumanità e di morte e chissà che direbbe Goethe che amava sedersi sotto la grande quercia che è rimasta all’interno del campo (ha un significato che bruci dopo il bombardamento?). A otto kilometri da Weimar- i capitoli con le riflessioni dei mille cittadini di Weimar sono lo specchio dell’indifferenza di chi assiste e gira la testa. Anzi, si lamenta del puzzo che arriva dal campo, del cibo di cui non possono godere perché viene dato ai prigionieri. Il loro è un orrendo coro che non cessa neppure quando, dopo l’apertura del campo, vengono obbligati dagli americani ad entrarvi per un tour, continuando a negare.

    Il dottor Weber aveva dovuto divorziare dalla moglie ebrea e poi era stato deportato per aver avuto un nonno ebreo. Da giovane avrebbe voluto salvare il mondo, aveva inventato una macchina, il Vitalizzatore Simpatetico, che avrebbe dovuto curare il cancro con stimoli elettrici. In realtà non aveva funzionato, ma lo Sturmbannführer Hahn ne ha sentito parlare, fa venire Weber a casa sua, vuole che cerchi di curare la moglie Greta. Quello che Weber chiede in cambio sono notizie della moglie e della figlia- sono a Theresienstadt, stanno bene, gli dice Hahn.


     Greta Hahn è molto più giovane del marito, non era mai stata ammalata a Monaco, dove aveva sempre vissuto, ed ora si chiede se la sua malattia sia una punizione. È  un piccolo personaggio commovente e patetico, Greta Hahn. Piccolo in senso letterale, perché la malattia la consuma. Eppure Greta è l’unica che tratta con garbo il servo Josef (un testimone di Geova), quasi fosse un domestico normale, anche se si accontenta delle risposte del marito quando gli fa domande sul campo e su chi ci sia rinchiuso. Greta finge di aver fiducia nel dottor Weber anche quando sa che non le resta molto da vivere, perché ha capito che continuare a farlo venire è l’unica maniera per salvarlo. Prima di morire Greta traccia nella Bibbia un messaggio che è un regalo  per il dottore (lo capirà solo parecchio tempo dopo) e poi, quando il suo cuore smette di battere, è come se un angelo volasse sul campo aggrappato alle ali del falco pellegrino che nel suo delirio da laudano identificava con san Pellegrino, protettore degli ammalati di cancro, sognando di andare sulla sua tomba a Forlì.

Otto Barnewald

     Nella nota finale l’autrice specifica quali dei personaggi del libro siano reali. Alcuni appaiono con i loro nomi (c’è anche la Principessa Mafalda di Savoia), Dietrich Hahn è invece ispirato a Otto Barnewald che ricoprì a Buchenwald la posizione di Dietrich Hahn nel romanzo. Hahn insiste goffamente a giustificare tutto quello che ha fatto, sostenendo la sua preoccupazione per il benessere dei prigionieri- di tutto quello che accadeva non sapeva nulla. Barnewald fu condannato a morte nel processo di Dachau del 1947, ma in seguito la pena fu ridotta e venne rilasciato dal carcere nel 1954.

    Sono quattro punti di vista diversi su cui riflettere- qual è il limite della colpa? Qual è il peso di una traccia di bontà e di amore a confronto di quello della malvagità o dell’indifferenza?



 

venerdì 11 febbraio 2022

Annabel Abbs, “La cucina inglese di Miss Eliza” ed. 2022

                    Voci da mondi diversi. Gran Bretagna e Irlanda

                                            biografia romanzata


Annabel Abbs, “La cucina inglese di Miss Eliza”

Ed. Einaudi, Trad. F. Aceto, pagg. 376, Euro 21,00

 

    Miss Eliza è esistita davvero. Si chiamava Eliza Acton, era nata nel 1799 e morì nel 1859- il 13 febbraio, tra pochi giorni ricorrerà l’anniversario della sua morte 162 anni fa. La voce di Wikipedia dice che è stata ‘una cuoca e una poetessa britannica’: immagino il furore di Miss Eliza se potesse leggere questa definizione di lei che aveva sempre reclamato di essere una poetessa, prima di tutto, e poi una cuoca, anzi forse una poetessa in cucina. Era diventata una cuoca per caso, spinta dalla necessità quando, dopo che il suo secondo libro di poesie era stato rifiutato e il padre aveva fatto bancarotta, era stato giocoforza per lei accettare la proposta del famoso editore Longman di scrivere un libro di ricette. Di necessità virtù, come si suol dire. Per scoprire che cucinare le piaceva molto, anche se non si riteneva appropriato per una signora affaccendarsi ai fornelli, che anche il cibo poteva diventare poesia, che un piatto che soddisfaceva il palato era un’opera d’arte.

     Prendete una cucina spaziosa, aggiungete un bel fuoco vivace e dieci padelle di rame ben rivestite, versateci dentro cinque stampi, sette cucchiai di legno, un buon servizio di lame d’acciaio, e un’aiutante brava e fedele.


    Entriamo quindi nel regno di Miss Eliza che ha uno scopo preciso- preparare i pasti per chi alloggerà nella loro casa che la madre ha dovuto rassegnarsi a far diventare una pensione. E la vera Miss Eliza, le sue vere ricette (di cui alcune possono essere consultate alla fine del libro) balzano fuori dal libro di Annabel Abbs che si avvale della prerogativa dello scrittore di aggiungere, di immaginare, di inventare dettagli che la biografia della poetessa non ha mai registrato.


I capitoli hanno tutti un titolo che è l’avvio per una ricetta, Sella di montone con salsina, Una buona soda cake, e si alternano fra due voci, quella di Eliza (una zitella un poco sfiorita, come sua madre continua a ricordarle), e la giovanissima Ann che tocca il cielo con un dito per essere entrata a servizio di Miss Eliza per cui avrà una vera e propria adorazione (sua madre è in manicomio, suo padre beve e ha perso una gamba in guerra).

    Quello di Annabel Abbs è un romanzo singolare. Prima di tutto è una gioia per il palato, perché seguiamo passo passo la preparazione dei piatti che sono spesso un miglioramento di tipiche ricette inglesi (Miss Eliza chiede agli amici di inviarle le ricette dei loro piatti preferiti), ma altrettanto spesso Miss Eliza improvvisa e inventa, assaggia e corregge il gusto, aggiunge spezie, chiede consiglio ad Ann che si rivela un aiuto prezioso.


    Il libro, però, non è solo un ricettario. È un quadro della società dell’epoca, con il profondo divario tra ricchi e poveri- quando Miss Eliza vede il tugurio in cui Ann viveva con padre e madre, ne è profondamente sconvolta, quando Ann si reca a trovare la madre al manicomio, il nostro cuore piange per lei, perché oggi noi sappiamo che la madre soffre di Alzheimer e non è pazza e perché indoviniamo l’orrenda realtà dietro i cancelli del manicomio-, tra uomini e donne. La letteratura ci ha già insegnato quanto fosse difficile per una donna discostarsi dal modello comune (pensiamo a Jane Austen, alle sorelle Bronte, a George Eliot che, più tardi, scriverà con uno pseudonimo maschile). Nel romanzo di Annabel Abbs all’infelicità femminile nel ritrovarsi forzata al matrimonio per motivi economici si aggiunge quella, molto concreta, di dover soggiacere alla lascivia maschile- può protestare la servetta Ann per il comportamento a dir poco disdicevole del colonnello mentre lei lo serve a tavola sotto gli occhi di una moglie che sa e fa finta di niente? Può correre il rischio di essere licenziata e far anche perdere un pensionante alla sua cara Miss Eliza?

   

la casa di Miss Acton

Il libro originale, “Modern Cookery for private Families” di Eliza Acton, pubblicato nel 1845, fu un grande successo.

   Per noi “La cucina inglese di Miss Eliza” è un libro delizioso- non ho altre parole che possano definirlo meglio. Ne consiglio la lettura sia a chi ama cucinare, sia a chi si tiene lontana dai fornelli (come me).

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