Voci da mondi diversi. Gran Bretagna e Irlanda
cento sfumature di giallo
Il Noir in
Festival a Milano, un altro evento letterario per gli appassionati lettori.
Incontro la scrittrice inglese Lisa Jewell al Teatro dei Filodrammatici, prima
della presentazione del suo libro, un thriller psicologico dalla forte
tensione. Lei indossa la mascherina, io pure- un tocco di mistero, diciamo
così…
La caratteristica dei suoi romanzi, la
loro vera particolarità, è che non fanno paura ma sono inquietanti. Non ci sono
delitti, o almeno, ce ne sono pochissimi e non ci sono scene di violenza
fisica, non c’è indagine poliziesca, forse potremmo definirli thriller
psicologici. Come è arrivata a scrivere questo genere di romanzo? Come è
iniziato tutto?
Quando ho incominciato a scrivere- era il
1996-, i primi romanzi che ho scritto erano commedie romantiche. Poi, con il
passare degli anni, è cambiata la mia vita, io sono cambiata- non scrivevo di
relazioni sentimentali ma di famiglie, di misteri di famiglia. Stavo scrivendo
un libro che aveva per protagonista un uomo che si era sposato tre volte e
aveva dei figli da mogli diverse, all’improvviso mi sono resa conto che avevo
perso ogni interesse per le dinamiche famigliari e…ho ucciso qualcuno: non
avevo mai ucciso nessuno dei miei personaggi prima di allora. Questa cosa mi ha
aperto una porta verso temi più scuri, più disturbanti. Volevo che i lettori
non sapessero di chi fidarsi, che i lettori non sapessero a che punto era
l’azione. Io stessa non so molto dei personaggi prima di scrivere.
Nei suoi libri c’è una forte tensione.
Come riesce a mantenere la suspense,
fin dalla prima pagina?
Penso che, come scrittore, non sono molto
lontana dall’esperienza del lettore su quello che so della storia che si sta
svolgendo. Ho solo delle vaghe nozioni del luogo- in questo romanzo avevo bene
in mente la grande casa sul Tamigi, la gente molto ricca che vi abitava e,
insieme, l’anonimità dell’area. Sapevo quale era l’atmosfera che volevo creare.
Non sapevo che cosa succedeva finché non me lo ha detto il mio personaggio
Henry. Infatti non ho mai in mente l’intero libro e poi tengo per me le
informazioni che ho, in modo che per il lettore arrivino come una scoperta.
Ecco, magari io sarò un capitolo avanti al lettore nella conoscenza della
storia.
Ne “La famiglia del piano di sopra” ci
sono tre filoni, un narratore in prima persona in uno di questi filoni ed è una
voce maschile. Come mai ha scelto Henry come narratore?
Prima di tutto ho deciso che volevo
scrivere della casa, di qualcosa di male che avveniva là dentro, di bambini che
scappavano a piedi nudi via dalla casa, ma non sapevo da che cosa scappassero.
Avevo bisogno di qualcuno che era stato là e mi dicesse che cosa era successo.
Poteva essere chiunque, ma Henry si è fatto avanti. E poi cerco di mescolare i
punti di vista- gli altri due filoni sono centrati su delle donne, volevo una
voce diversa, maschile.
Da dove trae l’idea per incominciare?
Voglio dire: c’è una specie di setta ne “La famiglia del piano di sopra”, una ragazza
che scompare in “Ellie all’improvviso”: ha letto qualche notizia simile sui
giornali? E’ dalla cronaca che trae delle idee?
Mi interessava l’idea delle sette che
affascinano le persone,
così che queste consegnano la loro autonomia a qualcuno
che ha carisma ma nessuna qualità speciale. È straordinario come ci sia della
gente che si lascia sottomettere da un altro essere umano. Ho sempre avuto un
orecchio attento a queste storie- per il romanzo “Ellie all’improvviso” avevo
in mente la notizia di una donna che era stata prigioniera per 30 anni a Londra
e poi era riuscita a scappare ed Ellie, in effetti, in un primo momento veniva
rapita da un uomo, poi ho cambiato tutta la trama. E, tornando alle sette, è
stupefacente come la gente creda a chi gli dice che renderà la loro vita
perfetta.
Inizia una storia nella sua mente con un
fatto o con un personaggio?
È diverso per ogni libro. L’idea de “La
famiglia del piano di sopra” è nata a Nizza dove ero in vacanza con la famiglia
nel 2017. Stavamo pranzando in un ristorante sulla spiaggia, era una spiaggia
privata, e ho visto passare una donna, magrissima, con due bambini. Andava alle
docce che erano riservate ai clienti della spiaggia e lei chiaramente non lo
era. Sentivo che aveva una storia dietro di sé e avevo la sua immagine in
mente, la vedevo bambina che scappava da Chelsea a piedi nudi. Quella donna
sarebbe diventata Lucy nel mio romanzo e io dovevo scoprire chi era Lucy e
perché era scappata.
Ogni
libro è diverso. Può nascere da un luogo, da una persona, da un sentimento e
però so quale è l’idea giusta quando mi viene in mente.
Ha già anticipato qualcosa della
risposta a questa domanda che sto per farle, avevo pensato di chiederle se,
quando inizia a scrivere, ha già in mente tutto il libro.
No, se sono fortunata posso avere in mente
i primi capitoli. Una volta la cosa mi angosciava, volevo programmare la
vicenda in capitoli ben precisi. Adesso non mi spavento più. Trovo a mano a
mano che vado avanti la storia che voglio scrivere.
Di quale dei personaggi de “La famiglia
del piano di sopra” è stato più difficile scrivere?
Libby. Non l’avevo pensata. C’era però
questa grande casa che qualcuno doveva ereditare e cercare di scoprirne il
segreto. E volevo scrivere di una ragazza del Millennio che doveva lavorare più
duramente di quanto abbiamo fatto noi a suo tempo. Era un personaggio che mi
serviva, una ragazza innocente e pura gettata in questa storia gotica. Una
ragazza forse un poco noiosa ma che ha fatto cose interessanti.
Le famiglie e i loro problemi sono al
centro dei due suoi romanzi che ho letto: le famiglie sono il soggetto
migliore?
Sì, scrivo di famiglie e di case: le
famiglie vivono nelle case, ho sempre l’idea delle porte chiuse e chissà che
cosa succede dietro queste porte chiuse. La vita vera è là, dietro le porte,
fuori è teatro.
Le
famiglie offrono uno spunto per dinamiche infinite- fratelli, gelosie tra
fratelli, nipoti, genitori, coppie, famiglie disfunzionali. Tutto, tranne
famiglie felici.
Il romanzo ha un finale che sembra
essere in sospeso. Scriverà un seguito de “La famiglia del piano di sopra”?
Sto proprio scrivendo il seguito de “La
famiglia del piano di sopra”. Sarà “La famiglia che resta” e ci saranno
parecchie storie- Henry che va in cerca di Phinn, Lucy che finalmente può
comprarsi una casa e vivere tranquilla, ma un giorno si trova davanti Rachel,
la vedova di Michael, e deve fuggire di nuovo, e un sacco con delle ossa (sono
di Birdie) che viene ritrovato nel Tamigi. E ci sarà una grossa novità:
introdurrò un detective, Samuel, per risolvere questo cold case. Però lascerò nel vago i dettagli più polizieschi.
Avevo detto all’inizio che una
particolarità dei suoi romanzi è l’assenza della polizia: come mai?
La polizia è sempre rimasta fuori dai miei
romanzi perché sono pigra e non ho voglia, non mi interessa, di fare ricerche
sulle procedure poliziesche. Sono dettagli importanti e se non si è precisi il
romanzo è debole. Ma Samuel mi è simpatico, ha assunto un ruolo importante, non
riesco a smettere di pensare a lui. E così finalmente ci sarà un detective.