mercoledì 30 gennaio 2019

Mary Lovell, “Le sorelle Mitford. Biografia di una famiglia straordinaria” ed. 2018


                            Voci da mondi diversi. Gran Bretagna e Irlanda
        biografia


Mary Lovell, “Le sorelle Mitford. Biografia di una famiglia straordinaria
Ed. Neri Pozza, trad. M. Togliani, pagg. 638, Euro 21,25


 Le straordinarie sorelle Mitford.
      Nancy. La scrittrice.
      Pamela. La nobildonna di campagna.
   Diana. La moglie di Oswald Mosley, fondatore del partito fascista in Gran Bretagna.
     Unity. La stalker (oggi si direbbe così) di Hitler di cui divenne amica intima, forse l’amante.
     Jessica, la ribelle rossa, la comunista.
                                            Deborah, la piccola, scrittrice anche lei, moglie di Lord Andrew Cavendish.
      E tendiamo a dimenticare che c’era anche un fratello, il terzogenito Tom, morto nel 1945 a Burma, dove prestava servizio nel Devonshire Regiment. Perché è di loro, delle sei sorelle, che si parla sempre, che hanno fatto parlare e scrivere di sé, che hanno scritto, loro stesse, di sé e della loro famiglia non convenzionale.
E forse la spiegazione del fatto che si siano tutte distinte in qualche cosa deve essere ricercata nella famiglia, nei metodi educativi che tutte loro hanno criticato e per cui hanno sofferto, prima di tutto per il rifiuto della madre di permettere loro di essere iscritte a scuola- le ragazze Mitford studiarono (più o meno) in casa con delle istitutrici. Eppure…eppure quattro delle sei sorelle pubblicarono libri o saggi. La biografia delle sorelle, scritta da Mary Lovell, racconta la storia di tutta la famiglia e copre un secolo di Storia d’Inghilterra e non solo. Perché la primogenita Nancy nacque nel 1904 e Deborah, quella che visse più a lungo, morì nel 2014. Una storia appassionante quanto un romanzo. Anzi, sembra di leggere un romanzo del tipo della saga dei Cazalet di Elizabeth Jane Howard con il pregio aggiunto che è tutto vero- quando si dice che la realtà supera l’immaginazione.

     Basandosi su una accuratissima documentazione Mary Lovell ricostruisce la vita della famiglia, fin dal primo incontro di Sydney quattordicenne con David Freeman-Mitford che avrebbe poi acquisito il titolo di Lord Redesdale, il matrimonio, la nascita dei figli, uno dopo l’altro, la delusione dopo una, due bambine, finalmente un maschietto, poi altre quattro femminucce. Sappiamo tanti dettagli di questa famiglia che è diventata un mito, perché tanto hanno scritto e ricordato loro stesse. Sappiamo della vita parsimoniosa imposta dalla madre, dei giochi, dell’amata Nanny Blor, del linguaggio segreto di Jessica e Unity, dei nomignoli che si affibbiavano l’un l’altra o che venivano dati agli ospiti. La prima a sposarsi, molto giovane, fu la bellissima Diana. Durò pochi anni, finché incontrò Mosley- il loro legame fu uno scandalo, eppure era così forte che, quando, nel periodo di prigionia durante la guerra, fu permesso ai due coniugi di vivere insieme, Diana definì quelli come i giorni più felici della sua vita. Nancy- la scrittrice- fu per anni innamorata di un uomo di cui lei era l’unica a non accorgersi che fosse omosessuale e, dopo, di Gaston Pawleski, braccio destro di De Gaulle (un altro amore infelice). Jessica, non ancora maggiorenne, fuggì in Spagna con il cugino (che poi sposò) per prendere parte alla guerra civile e dopo emigrò in America continuando le sue attività di sinistra. Unity, la tanto discussa Unity che conteneva il suo destino nell’essere stata concepita a Swastika, in Canada, e nell’avere Valkyrie come secondo nome, provò una passione ossessiva per Hitler che ammirò incondizionatamente, si sparò in testa allo scoppio della guerra, non morì ma rimase menomata per i restanti anni di vita.   
 
     Nel bene e nel male siamo affascinati dalla famiglia Mitford. Perché furono persone fuori dall’ordinario che ebbero esperienze di vita fuori dall’ordinario. Nonostante le critiche che le figlie facevano ai genitori, ognuna di loro seguì la sua strada scegliendo la propria vita. Vorremmo che fosse una famiglia perfetta e invece ci dispiacciono le incomprensioni e i litigi tra le sorelle nell’età adulta, ci dispiace la fine di Unity e l’incapacità di Diana di riconsiderare la sua ammirazione per Hitler.

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lunedì 28 gennaio 2019

Sébastien Spitzer, “I sogni calpestati” ed. 2019


                                                          Voci da mondi diversi. Francia
             biografia romanzata
             Shoah

Sébastien Spitzer, “I sogni calpestati”
Ed. Ponte alle Grazie, trad. F.Bruno, pagg. 308, Euro 15,30

        Ho pensato al film del 2004 “La caduta”, con la regia di Oliver Hirschbiegel, Bruno Ganz nella parte di Hitler e Corinna Harfopuch in quella di Magda Goebbels, leggendo il romanzo di Sébastien Spitzer che mescola realtà storica e finzione narrativa. Due filoni nel libro: uno (quello che mi ha ricordato il film) sotto terra, nel bunker del Führer nel cuore di Berlino, e l’altro all’aperto in una Germania devastata. Magda Goebbels, moglie del Ministro della Propaganda, personaggio centrale del primo filone a fianco del marito e dei suoi sei bambini, di Hitler, di Eva Braun, di Speer e dei cani del Führer, e- nel secondo filone- i prigionieri fuggiaschi, scampati all’incendio appiccato ad un fienile in cui erano stati rinchiusi insieme ad altri deportati ebrei- il quindicenne Judah, Fela (la giovane donna che zoppica), la sua bambina Ava che porta il nome della levatrice che le ha permesso di vivere, di non finire annegata come un gattino.
Magda Goebbels
La claustrofobia del bunker, la minaccia incombente dell’Armata Rossa che avanza, con i flashback che ricostruiscono la vita della quarantacinquenne Magda nella prima narrativa e l’aria aperta, i pericoli in agguato ad ogni passo, nascosti in ogni casolare, con i ricordi neri di quello che hanno passato nella seconda. C’è anche una terza narrativa- le testimonianze degli internati dei campi, le lettere e i disegni racchiusi in un cilindro di vecchio cuoio, portati in salvo come materiale prezioso. Perché nessuno possa dire che si è trattato di pura invenzione, che non è successo nulla.
     La storia di Magda Goebbels ha un fascino morboso, pari alla sua fascinazione per il Führer che fu il motivo, forse, per cui lei, che era stata già sposata ed aveva un figlio, si lasciò conquistare da Joseph Goebbels, l’intelligente ministro di Hitler, ottimo oratore, ma piccolo di statura e zoppo nonché impenitente donnaiolo. Di Magda tutti conoscono la fine, tutti sanno della sua incomprensibile e cieca lealtà verso l’uomo in onore del quale aveva scelto nomi che iniziassero per H per tutti i suoi figli, di quella vocazione al suicidio trascinando con sé nella morte, uccidendo lei stessa i sei bambini, dopo aver rifiutato la proposta di Speer di portarli via in salvo.
Pochi sanno invece della sua infanzia che ci aiuta a capire il suo arrivismo e l’ansia di emergere- il fatto stesso che Magda avesse più di un padre è indice dell’incertezza sull’identità del suo vero progenitore: era forse l’ebreo Friedländer che morì in un campo di concentramento senza che lei alzasse un dito per salvarlo? E nel contenitore di cuoio che passa dalle mani di Judah a quelle di Fela e poi a quelle della piccola Ava ci sono anche le disperate lettere di Friedländer a una figlia che non vuole saperne di lui.
      La storia delle vittime, contrapposta a quella dei carnefici, è contenuta in questi preziosi documenti, ci viene raccontata da Fela che era internata nel blocco 24-A, da Judah che è stato strappato alla sua famiglia senza poter dare un bacio d’addio a sua madre, dai ricordi confusi della piccola Ava, la bambina miracolata. E poi la sorte si capovolge, la fine degli uni è la salvezza degli altri.

     Il libro di Sébastien Spitzer, reporter di guerra che ha vinto il Prix Stanislas 2017 con questo suo primo romanzo, non aggiunge molto di nuovo a quanto già sappiamo, ma piacciono lo stile terso e le frasi brevi, piace la contrapposizione tra buio e luce, tra carnefici e vittime con un finale che vede una giustizia ristabilita- a quale caro prezzo, però.

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sabato 26 gennaio 2019

Bart van Es, “La ragazza cancellata” ed. 2018


                                Voci da mondi diversi. Gran Bretagna e Irlanda
                                                              Shoah

Bart van Es, “La ragazza cancellata”
Ed. Guanda, trad. E. Banfi, pagg. 266, Euro 15,72

      “Senza le famiglie non ci sarebbero storie”- l’inizio de “La ragazza cancellata” di Bart van Es sembra una variante, anzi un’aggiunta al famoso incipit di Tolstoj. E’ per ricostruire la storia della sua famiglia, che coinvolge inevitabilmente quella di un’altra famiglia, che nel 2014 Bart van Es, professore all’università di Oxford, va ad Amsterdam ad incontrare Lien de Jong. C’era stato un tempo in cui Lien aveva fatto parte della famiglia van Es, il padre di Bart, nato dopo la guerra, era cresciuto con lei. Quale era stata la causa della rottura per cui il nome di Lien non doveva neppure essere pronunciato davanti alla nonna van Es? Lien ormai ha superato l’ottantina, dapprima è riluttante a scavare nel passato- ha già sofferto tanto per questo passato che riaffiora di continuo, che l’ha segnata per la vita. Poi tira fuori album di fotografie, incomincia a raccontare, Bart prende appunti e la confidenza che nasce tra di loro fa nascere la loro amicizia.

     Prima che Hitler occupasse l’Olanda, Lien neppure sapeva di essere ebrea. E fino al 1941 la vita nella casa di famiglia all’Aja fu normale. Poi le restrizioni, la proibizione di frequentare la scuola, la stella gialla sull’abito. Infine, nel 1942, quando Lien ha otto anni, l’allontanamento dalla famiglia, lo strappo più doloroso, il ‘segreto’ che la mamma le aveva fatto promettere di non rivelare a nessuno. Lien avrebbe vissuto con i van Es a Dordrecht, sarebbe stata come una figlia in più per loro.

     Bart van Es ascolta il racconto di Lien, si cala nei suoi ricordi sfilacciati e cerca di aiutarla a ricostruirli, guarda vecchie fotografie (le possiamo vedere anche noi sul libro), legge le espressioni dei visi, osserva gli abiti, nota i segni della crescita di Lien. Bart van Es non si limita a parlare con l’anziana Lien, vuole vedere di persona dove si siano svolte le scene che lei gli ha descritto. Perché Lien non ha resistito, ha rivelato il suo ‘segreto’ ad un’amichetta e deve essere spostata presso un’altra famiglia. E ci saranno altri spostamenti, altri nascondigli e fughe. Con il passare del tempo sbiadisce il ricordo dei genitori. Forse è una forma di difesa naturale, dentro di sé Lien sa che, se non hanno più scritto, devono essere morti, ma non vuole pensarci. Come deve sentirsi una bambina di nove, dieci, undici anni che è sballottata da una casa all’altra, accolta da persone generose che però a volte le fanno pesare la sua diversità, il suo non essere una ‘figlia’ come gli altri che hanno? In una delle famiglie viene trattata come una domestica, con una certa durezza. Per non dire di altre brutte esperienze da cui lei è incapace di difendersi.

    E’ straordinario come, quando sembra che non ci sia più niente di nuovo da dire e da scoprire su una guerra i cui testimoni stanno a poco a poco scomparendo, si possa invece leggere qualcosa di nuovo. Il libro di Bart van Es non è soltanto la storia di una bambina sopravvissuta, una storia che accogliamo con gioia perché ci sembra la controparte di quella di Anna Frank, ma anche la storia meno conosciuta dell’Olanda, il paese con la percentuale più alta di ebrei morti sotto il nazismo (80%). Lo stile è vivace, alternando le voci narranti, ricreando luoghi e tempi, mostrandoci fotografie, seguendo le vicende di Lien fino ai nostri giorni, con il matrimonio, i figli e una vita in apparenza felice. In apparenza. Perché ci sono dei traumi impossibili da dimenticare.

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Bart van Es con Lien de Jong


venerdì 25 gennaio 2019

Daniel Vogelmann, “Piccola autobiografia di mio padre” ed. 2019


                                                         Casa Nostra. Qui Italia
                                                              Shoah


Daniel Vogelmann, “Piccola autobiografia di mio padre”
Ed. Giuntina, pagg. 34, Euro 5,00


     Piccola autobiografia di mio padre. “Piccola”, sì, questo è un libricino di solo 34 pagine, la storia di una vita che, tra il nascere e il morire, copre 34 pagine. Un niente, come la lunghezza o la brevità di una vita nell’infinitezza del tempo. Come un racconto pieno di ombre e di silenzi. “autobiografia di mio padre”, quasi un ossimoro. Come può essere, l’autobiografia di qualcun altro? Lo è perché Daniel Vogelmann presta la sua voce al padre Schulim, morto a 71 anni nel 1974,  ventinove anni dopo essere scampato all’Olocausto: da Auschwitz, dove era arrivato dopo sei giorni di viaggio sul treno merci partito da Milano il 30 gennaio 1944, era stato trasferito al campo di concentramento di Plaszow grazie alla sua qualifica di tipografo.
il binario 21. Stazione centrale di Milano
A Plaszow Schulim doveva stampare le sterline false che avrebbero dovuto mettere in crisi la Banca di Inghilterra. Fu a Plaszow che Schulim venne a sapere di Schindler e riuscì ad unirsi agli operai che lavoravano per lui. Poi la liberazione, l’8 maggio 1945. Il viaggio di ritorno. La tragedia dentro la tragedia- il silenzio dei vivi intorno a lui e il silenzio clamoroso dei morti. Morta sua moglie, morta la loro bambina, la piccola Sissel.
Schulim e Sissel
     E’ avaro di parole, Schulim Vogelmann. Non ci fornisce dettagli. Non descrive. Perché non ci sono parole per dire l’indicibile. Forse il silenzio, forse il chiudersi alle spalle le porte dell’inferno aiuta ad andare avanti, a riprendere il lavoro da cui era stato strappato, a infondere forza nuova nella casa editrice Giuntina, a riuscire a guardare negli occhi una donna e a pensare che forse c’è ancora un futuro davanti. Il futuro è suo figlio Daniel, quello che onora la memoria del padre con questa ‘piccola autobiografia’, è il figlio di suo figlio che porta il suo stesso nome che è una variante di scrittura della parola ‘pace’ (di per sé una vittoria su chi infranse la pace), sono le nipotine a cui l’autore dedica il libro. Che termina con una frase di commiato che è come un testamento, che ci lascia colmi di ammirazione per chi ha saputo attraversare il rogo dell’Olocausto senza perdere la sua umanità: “Ho sempre amato la vita”.

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mercoledì 23 gennaio 2019

Neel Mukherjee, “Redenzione” ed. 2018


                                                 Voci da mondi diversi. India


Neel Mukherjee, “Redenzione”
Ed. Neri Pozza, trad. Norman Gobetti, pagg. 281, Euro 18,00


    “A state of freedom”, il titolo originale del nuovo romanzo di Neel Mukherjee. Un romanzo che avevo molto atteso e con cui ho fatto fatica a sintonizzarmi- come spesso accade quando si aveva molto amato il primo romanzo di uno scrittore. Uno stato di libertà. Quale libertà?, viene da chiedersi a mano a mano che proseguiamo nella lettura di queste pagine da cui ci si affaccia su un baratro di miseria, su una povertà che ci fa provare vergogna per tutto quello che noi del primo mondo abbiamo, non valutiamo, sprechiamo, su una mancanza di libertà che è anche letteralmente schiavitù (quando noi pensavamo che la schiavitù fosse illegale da più di un secolo, mentre lo è solo sulla carta).
      Personaggi diversi sono al centro delle cinque parti del libro e tuttavia ognuno di loro appare marginalmente in un’altra delle cinque parti. Quando, alla fine del libro, nel suo monologo, l’operaio muratore (è quello che è precipitato dall’alto, dove lavorava senza protezione, nella prima parte) ricorda due mandarini che lui e il fratello avevano ricevuto da un bambino che era passato in automobile (!!!) accanto a loro, noi sfogliamo le pagine indietro per ritrovare lo stesso ricordo dell’uomo con la faccia volpina che va in giro con l’orso- è lui il fratello dell’operaio. E d’altra parte l’uomo con l’orso, che conosce una sorta di folle libertà abbandonando la famiglia e andando in giro cercando di guadagnare soldi facendo ballare l’orso, era ripetutamente comparso nella prima parte, in cui un indiano che si sente ormai un turista nella sua terra accompagna il figlio di sei anni a vedere il Taj Mahal e Fatehpur Sikri.
Fatehpur Sikri
La domestica Milly, che conosciamo nella seconda parte, diventa la protagonista assoluta della quarta parte. E’ lei che, mandata a lavorare lontano da casa a soli otto anni, sperimenterà a Bombay la schiavitù dorata- la famiglia presso cui lavora la paga bene, le mettono i soldi su un libretto di risparmio, ma non può allontanarsi da casa. Fuggirà nascosta dentro un armadio, con l’aiuto di un ragazzo con cui parlava a segni dalla finestra (diventerà suo marito), lavorerà presso quattro famiglie diverse risparmiando rupia su rupia e vivendo in uno slum le cui misere case vengono regolarmente allagate durante i monsoni. Il figlio della signora presso cui lavora Milly (vive a Londra e ritorna in India una volta all’anno) non sapeva neppure dell’esistenza di uno slum e resta inorridito quando lo vede. Lui sta raccogliendo ricette indiane per un libro di cucina ed è per questo che va al villaggio dove vive la famiglia della cuoca di sua madre, quella Ranu che è gelosa di Milly. Ecco l’abisso che si spalanca. Lui non ha pensato a che cosa avrebbero dovuto rinunciare i parenti di Ranu per poterlo ospitare. Qualcuno avrebbe pur dovuto cedergli un letto (forse meglio usare l’antica parola di ‘giaciglio’), tutti quanti avrebbero dovuto digiunare o quasi per offrirgli un pranzo. E la distanza tra l’indiano privilegiato che scrive di cibi indiani e i poveracci che sopravvivono con un pugno di riso non è mai stata più grande.

    Spetta a una donna, a Milly di cui ho già parlato, il merito di ambire ad uno stato di libertà degno di questo nome. Non per sé- ormai è troppo tardi- ma per la figlia che studierà anche se il padre è contrario, anche se dice, come tutti, a che serve far studiare una figlia femmina? Milly si impunta, cercherà un quarto lavoro, i soldi daranno alla figlia la libertà che passa attraverso la cultura.
      “Redenzione” non ha il fascino de “Le vite degli altri”. L’inizio è difficoltoso, si fa fatica a collegare le varie storie e a tratti la narrativa è lenta. Manca, nel romanzo, un personaggio che ci appassioni. E tuttavia è un libro che lascia un segno dentro il lettore, che ci fa sentire impotenti e a disagio davanti ad un’umanità dolente.

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domenica 20 gennaio 2019

Helen Humphreys, “Amuleto celeste” ed. 2018


                                           Voci da mondi diversi. Gran Bretagna e Irlanda
       biografia romanzata

Helen Humphreys, “Amuleto celeste”
Ed. Playground, trad. M. Capuani, pagg 207, Euro 14,45

       Un libro singolare, questo “Amuleto celeste” della scrittrice canadese Helen Humphreys. Perché è diviso in due parti e perché la protagonista è Megan Boyd, una donna vissuta veramente (1915-2001) ma che la scrittrice ‘riinventa’, dandole anche un nome diverso, Ruth, nella seconda parte del romanzo.
      Chi era Megan Boyd? Non una donna comune. Forse, prima di tutto, per il lavoro che aveva scelto, che aveva iniziato per caso- faceva mosche da salmone, un’arte che la rese famosa (anche il principe Carlo era suo cliente e suo estimatore, fu lui a procurarle un appuntamento e a farla accompagnare da un oculista in Harley Street quando la vista di Megan si indebolì in maniera preoccupante) e che le valse la Medaglia dell’Impero Britannico nel 1971. Poi per il suo stile di vita. Viveva in assoluta solitudine in un cottage senza luce elettrica né acqua corrente a Brora, in Scozia. Unico passatempo, le feste con i balli di paese a cui lei si recava, sempre vestita con una gonna di tweed, una camicia e una cravatta, stivali ai piedi. Il titolo originale del libro è, infatti, “Machine without horses”, la danza folkloristica preferita di Megan.

     Era una bella sfida, per Helen Humphreys, scrivere di questa donna. Che cosa si sapeva di lei, dei suoi sentimenti, di che cosa pensava mentre stava china, anche 14 ore al giorno nelle lunghe e chiare sere d’estate, a creare le sue mosche dagli stupefacenti colori che avrebbero dovuto ingannare i salmoni? Niente. Donne così riservate non lasciano traccia, fatta eccezione per le parole con cui si giustifica con la Regina (!!) per non andare a ritirare la medaglia (aveva una partita di bridge e poi non sapeva a chi affidare il cane) e il biglietto che accompagna il regalo di nozze per Carlo e Diana- una mosca da salmone creata apposta per Lady Diana, augurando alla coppia una vita intera di pace e felicità (!!). La prima parte di “Amuleto celeste” è esplorativa, è un girare intorno al soggetto del romanzo, è una riflessione su ‘come’ ha origine un libro, come si cerca di entrare nella mente della persona che si è scelta come protagonista. Helen deve diventare Megan per poter scrivere di lei. Helen impara a fare le mosche da salmone, sono rozze, non hanno niente a che fare con le leggiadre creazioni di Megan. Non è possibile che Megan non sia mai stata innamorata. Prova: sarà stato un uomo a farla innamorare? O una donna?
Megan Boyd
    Poi Helen Humphreys si lancia e crea la sua Megan, che non può essere quella vera di cui si sa così poco. Helen mette distanza tra la vera Megan Boyd e la sua protagonista che chiama Ruth, che vive nel cottage di Megan, che passa le giornate creando le esche (quanto impariamo sulle mosche da salmone e sugli stessi salmoni), ma che ama, che è riamata, che soffre con i sentimenti che Helen Humphreys le presta.
     La prosa di Helen Humphreys è sempre un piacere, ha una semplicità poetica che incanta. In “Amuleto celeste”, tuttavia, un ibrido tra fiction e biografia, è la protagonista che sentiamo lontana, che ci incuriosisce ma non ci appassiona. Leggiamo di Megan Boyd, quella vera e quella immaginata, ci fa piacere essere venuti a conoscenza di una donna per alcuni versi così comune e per altri così fuori dall’ordinario- è come se avessimo appreso di un’altra forma di arte che finora non conoscevamo-, e però non riusciamo a sentirla vibrante accanto a noi.

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sabato 19 gennaio 2019

Leif GW Persson, “La donna che morì due volte” ed. 2018


                                                                   vento del Nord
                                                            cento sfumature di giallo


Leif GW Persson, “La donna che morì due volte”
Ed. Marsilio, trad. Katia De Marco, pagg. 478, Euro18,00

     Un film di Alfred Hitchcock era intitolato “La donna che visse due volte”, un intrigo con due donne che in realtà sono la stessa persona, un finale tragico di giustizia poetica. Leif GW Persson, criminologo e scrittore, ha scritto una storia che in qualche maniera mi ha fatto pensare al film del 1958 nel suo nuovo romanzo “La donna che morì due volte” in cui il commissario protagonista non è più lo stimato Johansson (il commissario che vedeva dietro gli angoli) ma Evert Bäckstrom che abbiamo già definito il più antipatico investigatore sulla scena letteraria del genere. Rozzo, volgare, maschilista, razzista, corrotto- altri aggettivi negativi? Aggiungete a caso, andrà bene di certo. Dimenticavo: scansafatiche, propenso a far lavorare gli altri al suo posto.
Claes Malmberg: perfetto per Bäckstrom sullo schermo
     Un ragazzino scout di undici anni, Edvin, vicino di casa di Bäckstrom (e suo ammiratore, ahimé), trova un teschio su un’isola dell’arcipelago di Stoccolma durante un campo estivo. E lo porta di filato da Bäckstrom. Sono pagine ilari e ironiche, quelle all’inizio del libro. Non sappiamo se prevale l’ironia nei confronti del movimento scout che ha per motto ‘sempre pronti’ o quella verso le lezioni che Bäckstrom ha impartito ad Edvin che ha seguito la corretta procedura nel macabro ritrovamento, quasi fosse un giovane investigatore invece di un giovane esploratore. Edvin azzarda anche l’ipotesi (si rivelerà corretta) che si tratti del teschio di una donna. A noi non resta che sperare che non diventi un clone di Evert Bäckstrom.
Comunque non è facile attribuire un’identità al teschio, neppure quando si ritrova lo scheletro. Un sacchetto del Lidl aiuta a collocare l’omicidio nel tempo. Perché di certo si tratta di omicidio, un colpo di carabina alla tempia. Il problema sorge quando la donna, identificata come la tailandese Jaidée (sposata con uno svedese), risulta già morta dodici anni prima, nello tsunami che sconvolse la costa della Thailandia. Nessuna possibilità di errore, la madre e il marito avevano identificato il cadavere, il corpo era stato cremato, le ceneri disperse nell’aria. Oppure sì, c’è stato un errore? E se sì, come è stato possibile?
tsunami del 2004
     Leif GW Persson è abilissimo. Perché la tensione del romanzo si regge non tanto sulla ricerca del colpevole, quanto sull’inchiesta per capire che cosa sia successo, come sia potuto succedere e, visto che non si può morire due volte, chi sono le due donne morte? E’ abilissimo perché il ritmo della narrazione è veloce anche se non ci sono inseguimenti e manca il brivido della paura- non avrebbe senso che ci fosse un altro omicidio. E poi “La donna che morì due volte” è un romanzo che si legge sorridendo- e non è da poco per un ‘giallo’. Sorridiamo del comportamento di Bäckstrom (disprezzandolo), scopriamo che Bäckstrom non è l’unico poliziotto ‘non eccellente’, ci divertiamo con il comportamento fuori dalle righe di Annika, la poliziotta culturista, e abbiamo l’impressione che il ritratto del piccolo Edvin sia quello di un Bäckstrom in miniatura.
     Leif WG Persson è il migliore scrittore svedese di ‘gialli’ dopo la morte degli amati Stieg Larsson e Henning Mankell.

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mercoledì 16 gennaio 2019

Håkan Nesser, “Morte di uno scrittore” ed. 2018


                                                            vento del Nord
      cento sfumature di giallo

Håkan Nesser, “Morte di uno scrittore”
Ed. Guanda, trad. C. Giorgetti Cima, pagg. 201. Euro 16,00

      Il famoso scrittore Germund Rein è morto in circostanze un poco misteriose. Si pensa ad un suicidio. Prima di morire (o meglio, prima di scomparire), però, ha inviato alla sua casa editrice all’estero un ultimo manoscritto con indicazioni ben precise: non deve essere pubblicato in lingua originale. Sarà David Moerk a tradurlo, come ha tradotto le altre sue opere. E, per calarsi meglio nel suo ruolo, Moerk va per sei mesi nella città di A., dove viveva Rein.
     Il romanzo di Håkan Nesser, “Morte di uno scrittore”, primo di una trilogia che è già stata trasferita sullo schermo, è del tutto diverso dagli altri dello scrittore svedese. C’è più di una morte su cui indagare, ma non ci sono i personaggi che abbiamo imparato a conoscere e ad amare, i commissari Van Veeteren e Barbarotti, protagonisti delle altre serie. La voce narrante, in “Morte di uno scrittore”, è il traduttore Moerk, suo è anche, quindi, il punto di vista- possiamo fidarci oppure no?

Le narrative sono due e due sono pure le indagini: anche Ewa, la moglie di Moerk, è scomparsa. Aveva detto che avrebbe raggiunto il suo amante: lo ha fatto? Oppure? Ascoltando un concerto alla radio, David Moerk ha creduto di riconoscere, in un colpo di tosse, la presenza di Ewa tra il pubblico. Ecco perché è ben felice del soggiorno ad A. da dove veniva trasmesso il concerto. Tradurrà Rein e cercherà Ewa.
    Presente e passato si alternano: le ore passate in biblioteca a tradurre un testo ostico e oscuro nel quale, ad un certo punto, Moerk decritta un messaggio nascosto, gli appostamenti per sorprendere la presunta Ewa, le ubriacature, l’incontro con la vedova dello scrittore morto, e poi, trasferendoci nel passato, leggiamo di Moerk e di Ewa e restiamo spaesati perché è una storia che sembra quasi ricalcare quella di Germund Rein.

    Anche il finale naturalmente è doppio (oppure è uno solo?) in questo libro di immagini specchiate che però non riesce ad appassionarci, ci fa rimpiangere la presenza arguta degli amati ispettori dei romanzi più propriamente di indagine poliziesca con la loro fredda ironia che sapeva farci divertire.

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lunedì 14 gennaio 2019

Petra Reski, “Palermo connection” ed. 2018


                                              Voci da mondi diversi. Area germanica
                                                                        thriller
         noir

Petra Reski, “Palermo connection”
Ed. Fazi, trad. La Rosa, pagg. 330, Euro 12,75

        Sicilia. Due giudici impegnati contro Cosa Nostra sono stati assassinati a distanza di 57 giorni l’uno dall’altro. Se vi vengono in mente dei nomi, non diteli a voce alta, ma quasi certamente sono quelli a cui si fa riferimento. La procuratrice antimafia Serena Vitale, di famiglia siciliana emigrata in Germania, porta in tribunale il ministro Gambino con una grave accusa, “concorso in associazione mafiosa e complicità in attentati”. Un mafioso pentito, Marcello Marino, ex affiliato del clan Pecorella, contribuisce all’incriminazione con una testimonianza pesante (e sconvolgente, come tutto quello che riguarda l’operato della mafia). A questo punto si scatena il finimondo. I giornali di destra accusano la procuratrice di voler far cadere il governo (sono saltate fuori delle intercettazioni telefoniche che compromettono lo stesso presidente), quelli di sinistra la chiamano ‘la santa antimafia’, Serena Vitale inizia a ricevere missive di minaccia anonime, qualcuno mette una cimice nel suo modem, qualcuno si è intrufolato in casa sua. E lei non riceve protezione adeguata, neppure un’auto blindata. La protezione di santa Rosalia a cui l’affida alla madre è un po’ scarsa. Serena non è la sola a trovarsi in pericolo. Un giornalista tedesco segue il processo, un personaggio che a volte rasenta il ridicolo con la sua ingenuità, che riesce a farsi ricevere da un boss mafioso con l’aiuto di un fotografo piuttosto ambiguo che sembra tenere il piede in parecchie scarpe. E’ il fotografo che fa da tramite, non solo in senso letterale, trasportando Wolfgang Wienecke incappucciato nel luogo segretissimo dove vive ‘don Pace’, ma anche in senso metaforico, cercando di spiegare la cultura della mafia, il senso dell’onore, la vendetta, la giustizia ‘fai da te’ con uno Stato assente o incurante- il venire ad essere della mafia, insomma. E, scavando, riesce difficile tracciare una linea netta tra colpevoli e innocenti, o almeno, riesce difficile attribuire la colpevolezza solo ad una parte.

    Palermo bella e dannata. Il romanzo di Petra Reski è più che un romanzo, più che un semplice thriller giudiziario o politico. Ha qualcosa di giornalistico nel taglio e nello stile, nell’ansia di portare allo scoperto le trame nascoste, la collusione tra mafia e stato. E non deve essere stato facile scriverlo, e neppure senza pericoli. Almeno una dozzina di giornalisti sono morti nel giro di trent’anni per mano della mafia e, quando leggiamo delle vicissitudini dello sprovveduto Wienecke che non ha le armi per affrontare una società che non può capire, ci viene da sorridere per non lasciarci sopraffare dall’angoscia e dalla paura. Perché potrebbe esserci qualcosa della scrittrice stessa nel giornalista tedesco che ha trionfato (brevemente) per il suo scoop. D’altra parte c’è qualcosa di Petra Reski anche nel personaggio dell’affascinante e battagliera procuratrice che farebbe bene a non fidarsi di nessuno, neppure di chi dice di amarla. E’ il retaggio tedesco, per nascita o per adozione, che rende Wolfgang Wienecke e Serena Vitali così spavaldi come fossero intoccabili finché devono accorgersi di aver giocato con il fuoco?
      Come i migliori noir, non c’è una soluzione positiva in “Palermo connection”. Non c’è speranza. Leggendolo, ho pensato all’aggettivo che di recente degli amici avevano usato, parlando della Sicilia, ‘irrecuperabile’. Dal libro, però, traspare che non è solo la Sicilia ad essere irrecuperabile. Perché noi siamo la Sicilia.

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