Voci da mondi diversi. Stati Uniti d'America
il libro ritrovato
Arthur Phillips, “Praga”
Ed. Rizzoli, pagg. 515, Euro
18,50
E’ il 1990. Quattro giovani
americani e un canadese si incontrano a Budapest. Ognuno ha una storia diversa
alle spalle ed una occupazione differente- l’unica ragazza è segretaria
dell’ambasciatore, uno dei ragazzi è uno studioso di storia, un altro insegna
inglese e suo fratello fa il giornalista, uno, di origini ungheresi, è un venture capitalist in cerca di
investimenti redditizi. Il caffè Gerbeaud diventa luogo di incontri, di
discussioni, di inizi di storie d’amore, punto di partenza per esplorare i
locali della città, per aggirarsi nelle sue vie, respirandone la storia
travagliata. L’acquisto e la vendita di una gloriosa casa editrice ungherese
diventano il fulcro di tutte le storie, emblema della trasformazione imposta
dal capitalismo occidentale.
INTERVISTA AD ARTHUR PHILLIPS, autore di “Praga”
E’ il caporedattore del quotidiano di lingua inglese di
Budapest che, illustrando all’aspirante giornalista John Price che tipo di
articoli voglia da lui, cita Hemingway e Fitzgerald, “Ricordati che di futuri
Hemingway e Fitzgerald in questo paese ne arrivano continuamente, trasportati
su aerei da carico e paracadutati giù di notte in tutti i migliori locali”. E’
il 1990, sono passati pochi mesi dalla caduta del muro di Berlino e nella
Parigi sul Danubio i cinque giovani sono la nuova “generazione perduta” in
cerca di ideali, di una vita più vera, di un passato anche se non è il loro, di
un futuro pur incerto nel fermento di rinnovamento che percorre la città. Ed
ognuno di loro compie questa ricerca in maniera personale, più o meno
pragmatica, più o meno interessata, più o meno idealista. E tutti abbandonano
Budapest alla fine.
Il percorso
del canadese Mark segue le tracce della nostalgia ed è quello che, forse, ci
comunica di più la malia decadente della città che gronda della tragicità del
suo passato. Per raccogliere materiale per la sua tesi sulla nostalgia, per
tracciare un grafico della nostalgia andando indietro all’infinito ad un tempo sempre
nostalgico di un altro tempo, Mark gira per antiquari, ascoltando storie di
guerre, di rimpianto dell’epoca in cui si combatteva per la “Magyarország”, la
patria ungherese, e non per un esercito invasore, di carri armati e di campi di
lavoro. Scott, l’insegnante di inglese, verifica che una lingua straniera si
impara a letto e sposa un’ungherese. Emily, l’incarnazione delle solide virtù
americane, la ragazza tutta di un pezzo di cui John si innamora perdutamente,
rivela una personalità e delle tendenze sessuali insospettate. Il buffo,
tenero, divertente John, giornalista esordiente, assume ad un certo punto il
ruolo di personaggio principale, quello che partecipa di più del presente della
città, che si lascia conquistare dalla figura di Imre Horváth, la cui storia è
quasi un romanzo dentro il romanzo.
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il caffé Gerbeaud |
Perché le
traversie della famiglia Horváth, proprietaria della casa editrice Horváth dal
1818, sono quelle dell’Ungheria e il loro nome diventa il simbolo di un’entità
nazionale che è sopravvissuta in clandestinità sotto il regime comunista. Quello
che John prova per Imre Horváth è il sentimento a cui nessuno degli
“expatriates” a Budapest riesce a sottrarsi: l’invidia verso chi “si è messo
alla prova nell’esame definitivo della sua epoca e ne è risultato degno”. Ciò
che manca alla generazione perduta è proprio questo, la conferma di essere
all’altezza del confronto in una situazione estrema, l’aspirazione ad un mondo
in cui esistono ancora gli eroi. E in questa luce ci delude un poco il “tradimento”
finale di Charles Gábor che vende ad un australiano la casa editrice che era
stata, per una scelta consapevole e difficile, la memoria del popolo ungherese
per 150 anni. Stilos ha intervistato Arthur Phillips.
Il titolo, prima di tutto: perché “Praga”? perché Praga rappresenta
l’irraggiungibile, l’eterna speranza di qualcosa di diverso e di migliore? È
una specie di miraggio?
Uno dei temi del romanzo
è certamente l’idea dell’altro luogo, dell’altra vita, dell’altro lavoro,
l’altro appartamento, l’altro passato, l’altro amante: se solo fossi stato
là…se avessi fatto quello…scelto questo…allora tutto sarebbe diverso. Nel caso
della città, Praga, uno dei personaggi è convinto che laggiù sarebbe più
felice. Questa idea strana- che sarebbe più felice in una città di cui non sa
nulla, in confronto a Budapest, una città differente di cui pure non sa nulla-
viene in realtà da un contesto preciso. Per gli americani che vivevano
nell’Europa dell’Est dopo la guerra fredda, Praga divenne nota come il posto giusto per la crescita
artistica, opportunità di fare affari, storie romantiche…, anche se a me, che
ho vissuto a Budapest, pare una fama ingiustificata. Conoscevo persone che
abitavano a Budapest e che erano convinte di perdersi la scena vera, che era laggiù, a Praga. In
seguito ho incontrato degli americani che avevano vissuto a Praga e che,
naturalmente, erano convinti di essersi persi le cose più importanti, che erano
successe a Budapest.
Il libro inizia con il Gioco della Sincerità: la sincerità e il suo
opposto, la falsità o la mendacia, sono tra i temi principali del romanzo?
Forse non la falsità, ma
un certo tipo di ironia diventa uno dei temi ricorrenti del romanzo. Ironia
come tendenza a non lasciare che niente venga discusso o venga preso
seriamente, l’ironia della commedia televisiva adottata da un certo tipo di
persone.
Ha detto di aver vissuto a Budapest: che cosa l’ha portata a Budapest?
Quanto tempo ci ha vissuto? E qual è stata la prima impressione che ha avuto
della città e della sua atmosfera?
Ho passato due anni a
Budapest, dal 1990 al 1992, subito dopo il college. Sono andato a Budapest
perché volevo vedere succedere la
Storia e dopo il 1989 la Storia succedeva nell’Europa centrale e in quella
dell’Est. Non avevo parenti in Europa, e neppure una conoscenza storica o
linguistica. Desideravo solo vedere l’Europa mentre cambiava. Le mie prime
impressioni furono di una terra così estranea per me da non essere neppure in
grado di leggere i cartelli stradali. Mi sembrava di essere dentro un vecchio
film, nei miei sogni sull’Europa, nel passato.
C’è qualcosa di lei in ognuno dei personaggi, o soprattutto in uno di
loro, oppure in nessuno?
Sapevo per certo di non
voler scrivere qualcosa di autobiografico, perciò non c’è assolutamente nessun
personaggio che mi rappresenti- tranne forse il cattivo sassofonista, ecco,
quello sono io. In tutti loro si rispecchiano i miei interessi, ma sono
personaggi di pura invenzione.
John, l’ultimo ad arrivare a Budapest, diventa il personaggio
principale del romanzo ed è, forse, il più simpatico: aveva già in mente fin
dall’inizio di farlo emergere tra gli altri?
No, mentre “giocavo” con
i miei personaggi, i comportamenti e il lavoro di John sembrava lo rendessero
la scelta più congeniale per farne il protagonista principale. Vorrei
aggiungere che anche altri- come lei- lo hanno trovato simpatico, ma non è
stata la reazione di tutti. E a me fa molto piacere che tutti i personaggi
abbiano dei lettori che li hanno preferiti e altri che li hanno odiati.
Ho fatto fatica ad accettare il tradimento di Charles: come mai proprio
lui, l’unico ungherese del gruppo, è anche il meno idealista, il più
pragmatico, il più “americano”?
Perché “tradimento”?
Charles è un uomo d’affari, che ha fatto dei buoni contratti, ha salvato quello
che si poteva salvare, facendo arricchire molte persone e tagliando via con
dispiacere tutte quelle parti dell’impresa che avevano solo valore
sentimentale. Lui fa dell’ironia su tutto questo, ma è certamente così che
illustrerebbe il suo operato.
La nostalgia è un tratto del carattere di Mark e anche il soggetto
della sua tesi, un tema affascinante, dopo tutto è anche un modo per conservare
la memoria del passato. E tuttavia, non porta ad una lieve follia, il vivere
con lo sguardo girato indietro?
Non saprei se porta ad
una lieve follia. Suppongo che possa portare ad un’accettazione consolatoria
del presente. “Retros”- il termine che usa Mark-, il guardarsi indietro, è un
bisogno di tutti noi, più o meno forte. E con esso dobbiamo lottare e cercare
di tenerlo a bada, proprio come dobbiamo fare con Eros e Thanatos.
Pensa che sia una caratteristica dell’Europa, andare avanti con la
testa girata indietro verso il passato?
In genere sono molto
cauto nel fare delle generalizzazioni nazionali o continentali. Però, avendo
vissuto a Budapest e a Parigi, direi che gli europei non sono particolarmente
più nostalgici degli americani. Di fatto, rispetto ai turisti americani, paiono
essere meno impressionati e sopraffatti dalla bellezza e dall’antichità di
quello che li circonda.
Il paragone più ovvio, all’inizio del libro, è con la Parigi degli “expatriates”
degli anni ‘20. Quello che ha portato questi giovani a Budapest è lo stesso
sentimento che ha portato Hemingway e Fitzgerald a Parigi? O c’è una
motivazione più fortemente politica in loro?
Non sono del tutto certo
di che cosa abbia spinto Hemingway e Fitzgerald a Parigi, penso che fosse per
vedere il mondo, fare dell’arte, sentire l’influenza di qualcosa lontano da
casa, per ricrearsi in una nuova atmosfera. In breve, niente di molto diverso
da quello che ha spinto migliaia di giovani americani a Praga, Budapest, Sofia,
Mosca, dopo il 1989.
Nel romanzo ci sono continue allusioni ad una generazione
“intenzionalmente perduta”, o anche “sperduta”: perché intenzionalmente perduta?
Perché in effetti questi
giovani non possono reclamare un trauma che li abbia disorientati. Cioè non
sono cresciuti in situazione di povertà o sotto un regime dittatoriale o con
una guerra in corso nel loro paese. Non hanno vissuto nelle trincee della prima
guerra mondiale. Sono nati in epoca di pace, di ricchezza, in cui bastava
allungare la mano per prendere tutto, eppure sentono di dover andare in cerca
di qualcosa.
Qual è la radice dell’attrazione che gli americani provano per
l’Europa? Si potrebbe pensare che sia il passato, ma ormai anche gli americani
hanno un loro proprio ricco passato. E’ qualcosa di simile alla nostalgia di
Mark?
Be’, certamente io amo l’Europa, per la sua storia e la sua
architettura, ma anche per i piaceri del presente che offre. Essere in Europa
dà una sensazione diversa dall’essere in America, è ovvio. E ci si sente
diversi ad essere uno straniero e non uno del posto.
Il capitolo della storia della famiglia
Horváth è un romanzo dentro il romanzo. Quando iniziamo a leggerlo, subito
proviamo una leggera irritazione per l’interruzione e poi, invece, ci rendiamo
conto di quanto sia importante e di come si inserisca perfettamente nel
romanzo: perché ne ha fatto un capitolo separato dal resto della storia?
Mi sembrava che il
romanzo sarebbe stato, in parte, sull’incontro tra persone che sentivano di
vivere fuori della storia, che avvertivano che la storia non aveva una
rilevanza giornaliera per loro. Dall’altra parte c’erano persone che annegavano
nella storia, persone le cui scelte erano dettate dalla storia, persone che
vivevano dentro la loro famiglia e dentro la loro storia nazionale. E
allora, dato questo confronto, volevo che quella storia fosse chiara, volevo
mostrare come si ripercuotesse su qualcuno che viveva nel 1990. Ecco da dove ha
avuto origine la Parte Seconda:
era necessaria.
Il suo secondo romanzo “L’archeologo” è del tutto diverso da “Praga” e
ci incuriosisce questo cambiamento: qual è stata la spinta a scrivere un
romanzo ambientato in tempi e luoghi così lontani, Australia, Egitto,
Inghilterra, Boston?
Mi piace divertirmi
quando scrivo: ci vogliono due, tre o quattro anni per scrivere un romanzo e
non voglio annoiarmi. Altrimenti mi cercherei un vero e proprio lavoro. E così
seguo le idee che mi vengono in mente- in questo caso si trattava dell’idea di
un’orrenda fine per una spedizione archeologica- e vedo se riesco a divertirmi.
D’accordo, non è un’ambizione molto artistica, solo la sensazione di che cosa
si dovrebbe provare scrivendo.
recensione e intervista sono state pubblicate sulla rivista Stilos