venerdì 23 maggio 2025

Jane Yang, “Come due fiori di loto” ed. 2025

                                                           Voci da mondi diversi. Cina

 

Jane Yang, “Come due fiori di loto”

Ed. Longanesi, trad. K. Bagnoli, pagg.368, Euro 17,64

 

     Canton. Fine ottocento. Due personaggi principali che si alternano nella narrazione, dapprima bambine, poi giovani donne di estrazione sociale diversa. Piccolo Fiore e Linjing. Una povera, l’altra ricca. Alla morte del padre Piccolo Fiore, sei anni, viene venduta per diventare la muizai, la schiava personale di Linjing- solo così sua madre potrà sopravvivere e far crescere il fratellino.

    I loto d’oro- ne sentiamo parlare subito e l’immagine dei loto d’oro ci accompagnerà per tutto il libro. Sono preziosi, i loto d’oro, come dice il loro stesso nome che dovrebbe evocare la bellezza. Ci viene continuamente ripetuto che sono la dote più preziosa che una ragazza possa portare in matrimonio. Se ha i loto d’oro, può trovare un marito che appartenga ad una famiglia distinta. Se ha i loto d’oro, deve essere anche un’ottima ricamatrice.

Quanta sofferenza dietro i loto d’oro e che orrore per gli Occidentali (un decreto imperiale del 1902 abolì ufficialmente la pratica dei loto d’oro, ma ci vollero almeno un’altra cinquantina d’anni prima che cadesse in disuso).


I piedi delle bambine venivano fasciati strettamente ripiegando le dita sotto la pianta. Quanto più piccole erano le bambine quanto minore sarebbe dovuto essere il dolore, ma pur sempre straziante. La preziosità dei loto d’oro si misurava in centimetri- 15 centimetri? 20 erano già troppi.

    Piccolo Fiore è orgogliosa dei suoi loto d’oro ma, quando entra a servizio di Linjing, questa la obbliga a sfasciarli perché lei ha, invece, i piedi grandi essendo stata promessa sposa ad un uomo di ampie vedute che ha gli occhi rivolti all’Occidente.

L’argomento dei piedi può sembrare marginale e invece è importante. Con un gioco di parole possiamo dire che il romanzo si regge in piedi sui loto d’oro o sull’assenza dei loto d’oro. Quale rivendicazione di autonomia può fare una donna che a mala pena sta in equilibrio su piedi minuscoli e doloranti? Perché il romanzo opera prima di Jane Yang non è una delle tante storie ricche di folklore esotico, è, piuttosto, un romanzo sui timidi inizi di una qualche sorta di femminismo in Cina seguendo le vicende delle due protagoniste.


      Linjing è la figlia della prima moglie di suo padre. È anche la figlia prediletta, finché la seconda moglie dà alla luce un maschietto, finché questa seconda moglie, per non cedere la cura del bambino alla prima moglie, come vuole l’usanza, non rivela segreti che era meglio restassero nel silenzio. Questa è una Cina che ci richiama alla mente il film “Lanterne rosse” con le gelosie e gli sgarbi tra una moglie e l’altra, con le punizioni terribili per chi esce dalle norme di comportamento e di vita tramandate da generazioni.

La punizione che dalla madre ricade sulla figlia Linjing sarà entrare in una comunità per nubili- donne che, per non essere legate in un matrimonio sgradito, vivono insieme, lavorando in una filanda. Sono ancora insieme, Linjing e Piccolo Fiore, anche se Piccolo Fiore ha cercato di fuggire e per questo è stata castigata in un modo crudele inteso a privarla della capacità di dedicarsi al ricamo, la sua passione, la sua fuga dalla durezza della sua vita.

     Il romanzo di Jane Yang richiederebbe un lungo commento, una puntualizzazione su tanti tasselli, un esame delle molte contrapposizioni significative- tra le due giovani donne, quella che pare privilegiata  e che cede davanti alle difficoltà inaspettate e quella che non si lascia abbattere dalle sventure, dalle umiliazioni e dalle menomazioni; tra la meschinità di una e la generosità dell’altra; tra il pesante lavoro della filanda e quello arioso, nobilitante e creativo del ricamo; tra la scelta forzata del nubilato e il matrimonio senza amore che prevede più di una moglie ed infine l’unione d’amore che supera le barriere sociali.


    Succede tanto, tantissimo in “Come due fiori di loto” e noi apprendiamo molto sulle usanze e la società cinese degli inizi del secolo passato, quando si apriva alle influenze del mondo occidentale. “The lotos shoes” è il titolo originale che rivolge l’attenzione ai piedi piccoli e ai piedi grandi che tanto affliggono Linjing. Il titolo italiano si sposta sull’immagine dei fiori di loto- se il fiore di loto è simbolo di resilienza e di capacità di superare le avversità, il paragone si addice a Piccolo Fiore a cui va la nostra ammirazione.

    Un libro che si divora, per le storie raccontate, per i suoi personaggi, per il mix di romanzo leggero e romanzo storico, per quel pizzico di esotismo e folklore.



lunedì 19 maggio 2025

Ermal Meta, “Le camelie invernali” ed. 2025

                                                           Voci da mondi diversi. Albania

           dramma

Ermal Meta, “Le camelie invernali”

Ed. La Nave di Teseo, pagg. 224, Euro 18,05

 

      E pensare che è un fiore così bello, la Camelia Sasanqua che fiorisce in inverno. Un fiore così bello che, però, assume un significato tristissimo nel nuovo romanzo di Ermal Meta, lo scrittore italiano nato in Albania, un fiore che, con quel colore rosso rubino, può contenere un messaggio d’amore oppure di violenza e di sangue.

     C’è tanta violenza, scorre tanto sangue ne “Le camelie invernali”, un romanzo che scorre su tre fasce temporali che hanno in comune il kanun, il codice di leggi albanesi tramandato oralmente per secoli- il kanun pone l’accento sull’onore familiare e impone la vendetta di sangue per il disonore.

    Il prologo si svolge nell’Albania del Nord nel 1875 ed è limitato all’episodio raccontato- un giovane che si avventura fuori di notte, incontra la morte e viene rimandato a casa gettato sul suo cavallo. È un antefatto che getta l’ombra su tutto il romanzo, è qualcosa che è accaduto in un lontano passato ma che ha ubbidito ad una legge sempre valida che continua a spargere sangue.


    Nel 2025 una ragazza italiana, figlia di immigrati albanesi, si reca per la prima volta in Albania con l’intenzione di parlare con una persona che sarà esemplare nella ricerca che sta facendo per la tesi di laurea. E’ un cugino ad accompagnarla a Mamurras dove vive un uomo, chiuso in casa. Se uscisse, lo ucciderebbero perché si è macchiato di una colpa e sangue chiama sangue- è il kanun.

    Nel 1992 ha inizio la faida fra due famiglie. È lui, l’uomo che vuole essere chiamato soltanto ‘il Prigioniero’ che parla e racconta. C’erano due coppie- Halil e Rozafa che avevano due figli, Uznan e Nina, e Zek e Odeta che avevano solo un figlio maschio, Samir, grande amico di Uznan. Un giorno la piccola Nina era scomparsa, era un dolore da cui i genitori non si erano più ripresi. Poi c’era stato un banale litigio tra ragazzi seguito da un litigio più aspro tra i due padri, erano venuti alle mani, Zek era caduto picchiando dalla testa ed era morto. Le lacrime della moglie nascondevano la gioia per essersi liberata da un marito che la riempiva di botte. MA i suoi due cognati esigevano vendetta, era il figlio a dover vendicare il padre. Sarebbe stato capace Samir di uccidere il suo amico? Avrebbe sopportato Uznan di vivere recluso per tutta la vita? C’è una sola via d’uscita che può salvare entrambi, liberandoli dalla tradizione del sangue- fuggire, passare il confine con la Grecia.




    Non finisce tutto qui, c’è molto altro nella trama del romanzo, c’è il motivo nascosto per cui Samir si presta ad aiutare il suo amico, c’è la scoperta dell’atroce verità di quello che è accaduto a Nina, i colpevoli sono più di uno, chi deve vendicarsi di chi? Finirà mai questa scia di sangue?

Il romanzo ha risvolti pulp e granguignoleschi e finisce per essere sovrabbondante abbandonando il semplice filone del terribile impatto della legge del kanun, quell’obbligo alla vendetta per salvare l’onore che perde significato con il passare del tempo e che rende ‘l’erede del sangue’ doppiamente prigioniero, in quanto segregato in casa ma anche in quanto chiuso nella strettoia di una legge che forse neppure condivide.

    Una maggiore semplicità avrebbe giovato al romanzo.









     

martedì 13 maggio 2025

Alessandro Robecchi, “Il tallone da killer” ed. 2025

                                                                          Casa Nostra. Qui Italia

         cento sfumature di giallo

Alessandro Robecchi, “Il tallone da killer”

Ed. Sellerio, pagg. 340, Euro 16,00

     I due protagonisti si chiamano, no, non hanno un nome perché ne hanno molti per esigenze di lavoro. Li identifichiamo come Quello con la cravatta e il Biondo, poi apprenderemo quelli che usano per copertura. Va da sé che Quello con la cravatta indossa ogni giorno una cravatta diversa, inoltre è sposato e ha un figlio adolescente. Il Biondo è single e si può permettere di avere un’amica. Sono gli unici due soci della loro ditta e si occupano di…uccidere a pagamento. Be’, immedesimandoci nello stesso humour nero dei due soci, che parola volgare ‘uccidere’! Loro tolgono di mezzo, eliminano persone scomode, persone da cui si vuole ereditare, persone di cui ci si vuole vendicare. A loro i motivi non interessano, sono dei professionisti da non confondersi con i dilettanti che fanno lavori malfatti. Le loro parcelle forse sono un poco alte, due o trecentomila euro- ‘ma che cosa non è caro a Milano?’. Loro lavorano bene, nessuno dubiterebbe che un tal coniuge si sia sparato da solo in un incidente di caccia, inciampando nel suo stesso fucile, ad esempio. Ci sono problemi di marketing- come si può reclamizzare la loro offerta? Non si può certo mettere un annuncio. Loro due si basano sul passaparola con un sistema collaudato di appuntamenti presi tramite un necrologio.


     Serena Bertamé vuole fare uccidere l’amante multimilionario che ha una famiglia regolare a Londra ma è padre di suo figlio. L’occasione sarebbe la visita di lui a Milano nei giorni di San Valentino. Il lavoro non è facile perché l’amante ha un autista che gli fa da guardia del corpo e alloggia in un albergo di super lusso in cui è difficile introdursi. E purtroppo la sua suite è al secondo piano, una accidentale caduta da una finestra non lo ammazzerebbe. E però Quello con la cravatta e il Biondo non hanno dubbi: accetteranno il lavoro perché gli permetterà un salto di qualità, anzi, un salto di introiti. È sulla fascia dei ricchi che bisogna puntare.


    Questo è solo l’inizio di un romanzo che non ci fa sentire la mancanza di Carlo Monterossi (protagonista dei romanzi seriali di Robecchi), perché la trama è piena di imprevisti, di complicazioni, di cambiamenti di strategia, scorre veloce e, soprattutto, è divertente. Ad un certo punto ai due si aggrega una ‘collega’ che gli aveva rubato un lavoro, una donna esperta che si rivelerà un valido aiuto quando le cose si complicano- c’è qualcun altro che vuole uccidere il milionario (eh no farsi fregare la vittima così!), qualcun altro che lo tallona. E i morti si moltiplicano, e così pure il divertimento del lettore.


    Non c’è mai un calo nella narrativa, le sorprese e le inventive si susseguono, la vita è un gioco che termina con la morte. È un gioco quando Quello con la cravatta si cala nel ruolo di padre che dovrebbe parlare con il figlio che forse ha messo incinta la sua ragazza sedicenne, ma è anche un gioco quando la nuova collega che loro chiamano ‘la stagista’, come se facesse un apprendistato, entra con il carrello e la bottiglia di champagne nella suite del milionario, o quando lo sciopero dei treni fa fallire il loro piano di finto suicidio da parte del suddetto milionario. Ogni situazione dà origine a battute, i dialoghi scorrono sul filo dell’ironia e dell’umorismo nero- un umorismo e un’ironia intelligenti e sottili.

    Se avete bisogno di rilassarvi, di passare un paio di ore non impegnative, questo è un libro che vi consiglio. Il divertimento è assicurato, e un divertimento noir non è da trascurare.



giovedì 8 maggio 2025

Jeremias Gotthelf, “Il ragno nero” ed. 1996

                                                                  Off the main road

Voci da mondi diversi. Svizzera

Jeremias Gotthelf, “Il ragno nero”

Ed. Adelphi (1996), trad. M. Mila, pagg. 184, Euro 13,30

 

    Era un pastore svizzero, Jeremias Gotthelf- un bellissimo cognome che si era scelto come pseudonimo, aiuto di Dio, e che ben si adattava al suo compito di pastore di anime. Il vero nome era Albert Bitzius, nato nel 1797 e morto nel 1854. Ci viene quasi un capogiro nel leggere queste date e rivolgere l’occhio all’abisso del tempo, perché poi, leggendo il suo racconto lungo “Il ragno nero”, ci stupiamo invece di quanto sia attuale, di quale monito sempre valido contenga.

    L’inizio è idilliaco- una festa di paese per un battesimo. Una natura verdeggiante, un villaggio incastonato tra le montagne, gente vestita a festa, si mangia e si beve in onore del nuovo bambino accolto nella comunità dei fedeli. Poi qualcuno fa un’osservazione sul legno scuro di una finestra, diversa da tutte le altre, e il nonno, una sorta di memoria storica, incomincia il suo racconto.

   La vita nel villaggio non è sempre stata così serena. C’era un castello sulla collina, c’era un cavaliere che spadroneggiava sui contadini. Dopo gli sforzi che questi avevano fatto per costruirgli il castello, il cavaliere non era soddisfatto. C’era troppo sole sulla salita per arrivare all’ingresso, avrebbero dovuto piantare- in breve tempo- un numero di betulle che fiancheggiassero la strada, facendo ombra. I contadini erano sgomenti. Se obbedivano avrebbero dovuto trascurare i campi e di che cosa si sarebbero nutriti? Ed ecco che arriva un cacciatore vestito di verde con una piuma rossa sul cappello, una barbetta rossa su un viso scuro, un naso ad uncino e un mento appuntito. Si dichiara pronto ad aiutarli a trasportare i tronchi con il suo carretto, il lavoro sarà finito a tempo. Si accontenterà di poco come ricompensa- un bambino non battezzato.


    È il tema eterno, ricorrente in tutte le culture, tra mito e leggenda, della lotta tra l’uomo e il diavolo, delle tentazioni a cui l’uomo è sottoposto da parte del diavolo che vuole impossessarsi della sua anima, ad iniziare dai Testi Sacri fino al dramma di Marlowe e al romanzo di Thomas Mann. È la lotta tra il Bene e il Male, una lotta senza quartiere.

   Nel racconto di Gotthelf i contadini si ritraggono inorriditi, poi una donna (ecco un’altra figura femminile che si accorda alla tradizione per suggerire l’astuzia ingannatrice) propone di accettare l’aiuto e di lasciare scornato poi il cacciatore verde al momento della consegna. Ma è così facile imbrogliare l’omino verde alias il diavolo? Anzi, le conseguenze sono terribili. Fa la sua comparsa il ragno nero a cui non si sfugge- la scelta stessa di aver rappresentato il Male sotto l’aspetto di un ragno dalle molteplici zampette che si può insinuare ovunque è significativa. Nel 1434 imperversava la Peste- ecco, il ragno nero è come quel flagello. E il ragno nero non colpisce solo il corpo dei malcapitati ma anche la loro anima- i contadini sono incattiviti e malevoli. Finché…e qui Gotthelf rispolvera un altro dettaglio delle leggende. L’astuzia e la bontà di un uomo riescono a imprigionare il ragno in un buco del legno e lo tappano dentro. C’è ancora un seguito…

dal film

    Ho letto che Elias Canetti ha scritto: ”Lessi Il Ragno Nero e mi sentii perseguitato, come se quel ragno si fosse annidato sul mio viso.” È l’impressione che ho avuto anche io leggendo il racconto, tanta è la forza descrittiva, il realismo con cui l’autore ci narra di questa eterna lotta. Colpisce, poi, il contrasto tra l’aracnide nero (ma ad un certo punto tutta la natura pullula di questi esseri neri) che contiene in sé una minaccia mortale e la quiete verdeggiante della natura che pare indifferente.

    Giustamente è stato definito un piccolo capolavoro.




    

giovedì 1 maggio 2025

Intervallo

 

Il mio computer ha bisogno di una 'ripassata', starò senza pc per una settimana (più o meno).

Mauro Mazza, “Mostruosa mente” ed. 2025

                                                                 Casa Nostra. Qui Italia

     biografia romanzata
   seconda guerra mondiale

Mauro Mazza, “Mostruosa mente”

Ed. Fazi, pagg. 312, Euro 17,10

     

    Ce lo siamo sempre domandato: come può una madre uccidere a sangue freddo i suoi sei- sei- bambini? Lo ha fatto Magda Goebbels, moglie del ministro della propaganda nazista Joseph Goebbler.

Era il primo maggio 1945, l’Armata Rossa aveva invaso Berlino, chi aveva potuto era fuggito, i ragazzini della Hitler Jugend difendevano le strade della città in macerie con il coraggio dell’incoscienza e della disperazione, il 30 aprile Hitler si era ucciso insieme a Eva Braun (l’aveva sposata il giorno prima). In quel bunker dove ormai vivevano da giorni, Magda aveva dato ai bambini da bere una bevanda con della morfina e poi aveva rotto una fiala di cianuro nella bocca di ognuno di loro. Tranne la più grande, che aveva cercato di opporre resistenza, i piccoli non si erano accorti di nulla, erano passati dolcemente da un sonno all’altro. Come aveva potuto, Magda? Dove aveva trovato la forza? Il libro di Mauro Mazza ci aiuta a capirla.


     Lo scrittore ha scelto la forma di un presunto diario o comunque di una narrazione in prima persona in cui Magda mescola passato e presente, il presente è nel bunker del Führer, costruito 8 metri sottoterra nel giardino della cancelleria. Tra i fedelissimi che si erano rifugiati lì insieme al Führer e a Eva Braun, c’era Goebbels con tutta la sua famiglia.

Magda racconta della sua infanzia, dell’allontanamento dalla madre e del suo desiderio di essere diversa da lei, degli studi nelle scuole religiose, del primo matrimonio e del primo figlio avuto quando lei era giovanissima. Poi la svolta quando Hitler era apparso sulla scena politica, la separazione dal marito con cui era rimasta in ottimi rapporti, il corteggiamento di Joseph Goebbels, un uomo che aveva un certo fascino pur con la sua zoppia e la sua fisionomia spigolosa.

Nello stesso tempo Magda racconta dell’attrattiva che Hitler esercitava su di lei, di come il suo matrimonio con Goebbels fosse stato, in un certo qual modo, un matrimonio con sostituta persona, quasi che, non potendo sposare Hitler che dichiarava apertamente che la sua totale dedizione alla Germania gli impediva di sposarsi, l’unione con il suo ministro fosse la migliore seconda scelta possibile.


    É una donna invasata, quella che parla. Se Hitler vedeva in lei il modello della donna tedesca, lei avrebbe fatto di tutto per adeguarsi, per essere la donna che il Führer vedeva in lei. Il suo aspetto, così prettamente tedesco e ariano, giocava a suo favore, alta, bionda, con gli occhi azzurri- era perfetta. Non bastava. Magda doveva anche diventare LA madre, la procreatrice che doveva dare tanti figli alla Germania. Da qui la delusione per la nascita di due femminucce prima che arrivasse il desiderato maschietto che sarebbe stato seguito da altre tre bambine. Tutti biondi, tutti perfettamente ariani, tutti con un nome che iniziava con H in onore a zio Adolf. Il prezzo da pagare per le numerose gravidanze era stato alto per Magda. La sua salute ne aveva risentito, ma l’orgoglio per essere additata come esempio, l’ammirazione e l’affetto costante di Hitler, il fatto che Eva Braun ricercasse la sua amicizia e la sua complicità, erano una valida ricompensa.

     La voce narrante di Magda è affrettata, quasi ansimante, quasi si sentisse incalzata a ricordare, a raccontare tutto prima dell’arrivo dell’Armata Rossa. La sua è una storia personale e insieme la Storia della Germania, suoi sono i primi dubbi sulla via intrapresa da Hitler, sullo smodato desiderio di conquista e sulla ‘questione ebraica’, come devono esserli stati per tutti, anche per quelli che avevano creduto ciecamente nel Führer. Per accentuare la fretta del racconto la punteggiatura è ridotta al minimo. E poi si arriva allo strazio finale, alla decisione presa di non accettare la proposta della Croce Rossa di portare i bambini in salvo- erano arrivate le voci di quello che i soldati russi facevano alle donne tedesche, vecchie e giovani e bambine, ci si poteva illudere che non avrebbero infierito sulle piccole Goebbels? Poteva esserci un mondo senza Hitler?


    “Mostruosa mente” (bello il gioco di parole del titolo) è una biografia romanzata e, come sempre avviene in questo genere di libri, dobbiamo fare la concessione allo scrittore di immedesimarsi nella sua protagonista e di prestarle anche sue riflessioni o attingere a fonti non certe per la ricostruzione del personaggio- che il legame tra Hitler e Magda sia andato al di là di una amicizia platonica è stato motivo di chiacchiere e pettegolezzi senza che ci sia niente di certo. Il romanzo di Mauro Mazza è interessante, perché accende una luce su un’altra figura femminile (moto discussa peraltro, proprio per quella scelta finale che sa di tragedia greca) che ha avuto risalto nel tragico secolo passato.  



 

 

martedì 29 aprile 2025

Ninh Bao, “Il dolore della guerra” ed. 2025

                                                   Voci da mondi diversi. Vietnam

guerra del Vietnam

Ninh Bao, “Il dolore della guerra”

Ed. Neri Pozza, trad. Carlo Prosperi, pagg. 256, Euro 19,00 

 

      Sono passati 50 anni. Il 30 aprile 1975 la caduta di Saigon segnava la fine della guerra del Vietnam iniziata nel 1955. “Il dolore della guerra” di Ninh Bao fu pubblicato nel 1994 per la prima volta in traduzione inglese e solo nel 2006 poté circolare liberamente nel suo paese da dove era stato bandito per la visione antieroica del conflitto. Si colloca così a fianco degli altri grandi romanzi di guerra, da “Niente di nuovo sul fronte occidentale” di Erich Maria Remarque a “Morire a primavera” di Ralph Rothmann, romanzi strazianti in cui non c’è proprio niente del dulce et decorum est pro patria mori di Orazio, verso ripreso poi dal poeta inglese Wilfred Owen.


    La guerra di Ninh Bao è una carneficina, sono corpi straziati, è un tiro alla roulette russa. Il suo racconto inizia dal presente in cui- è il 1976- il protagonista fa parte della squadra preposta al recupero dei resti dei dispersi in azione. Stanno aspettando la stagione asciutta, le giungle e le montagne sono fradice di pioggia. Kien conosce bene la regione in cui si trovano. Era il 1969 quando il suo battaglione era stato circondato e annientato, proprio qui. Solo dieci uomini erano sopravvissuti. Da allora gli spiriti dei morti in battaglia vagavano tra i cespugli, i germogli di bambù erano di un colore rosso sangue, di notte gli uccelli piangevano in quella che aveva preso il nome di Giungla delle Anime Urlanti. Se qualcuno debole di cuore fosse vissuto qui, avrebbe finito per morire di paura o impazzire.

   Kien non muore di paura e non impazzisce, ma ci va vicino. In quello che diventa un libro di memorie senza un flusso temporale in ordine cronologico, Kien rivive la sua vita, mescolando i ricordi più lontani di tempi felici prima della guerra ai combattimenti, alle sequenze continue di sofferenza e di morte. Era giovanissimo, Kien, allo scoppio della guerra, poco più di un adolescente. Era innamorato, era sicuro che Phuong, la bella Phuong (è un caso che abbia lo stesso nome della protagonista di “Un americano tranquillo” di Graham Greene?), lo avrebbe aspettato. Erano insieme sul treno che lo avrebbe portato al centro di arruolamento, c’era stato un bombardamento, lui non aveva neppure capito subito che cosa stava succedendo a Phuong quando l’aveva vista schiacciata sotto il corpo massiccio di un uomo- erano sopravvissuti entrambi ma Phuong non sarebbe più stata la stessa.


    Sì, Kien è miracolosamente sopravvissuto, sarebbe dovuto morire decine di volte e invece era sempre scampato. Per che cosa, poi? Il dolore della guerra è il dolore del sopravvissuto, il dolore di chi non appartiene più né al mondo di prima né a quello di adesso, il dolore di chi non riesce a cancellare le immagini dei corpi che bruciano sotto le bombe al napalm, di chi è tornato per non ritrovare nulla di quello che ha lasciato. Kien beve, beve per stordirsi, per dimenticare, per non sentire i gemiti della Giungla delle Anime Urlanti, per fingere di non vedere gli uomini che entrano ed escono dalla stanza di Phuong. Beve e scrive, scrive disordinatamente, scrive nei fumi alcolici, scrive perché, in questo mondo in rovina, nella solitudine che avvolge chi, dopo aver combattuto come ha fatto lui, non tornerà più ad essere un uomo normale, il suo compito è quello di rendere testimonianza. Per non dimenticare. Perché nessuno dimentichi.



venerdì 25 aprile 2025

Off the Main Road - Shyam Selvadurai, “Cinnamon Gardens”

                                              Voci da mondi diversi. Sri Lanka



Shyam Selvadurai, “Cinnamon Gardens”

In inglese ed. 1998

Ed. Il Saggiatore, trad. Erica Mannucci, 1999, euro 11,10

   Colombo, Ceylon. Anni ‘20. Cinnamon Gardens, un quartiere di ricchi ceylonesi, un ambiente chiuso, un’atmosfera soffocante, l’ipocrisia come legge.

    Due storie scorrono parallele, con due personaggi principali, Annalukshmi e lo zio Balendran, e molti, veramente molti, personaggi secondari ma indispensabili.

    Il filone della trama che riguarda Annalukshmi ci riporta all’Inghilterra di Jane Austen. Se Annalukshmi, la madre e le sorelle non indossassero i sari, potremmo pensare che fossero le sorelle Bennet. Teniamo a mente, prima di tutto, che ognuno di questi personaggi vive o ha vissuto una storia d’amore e che ogni coppia ha qualcosa da dirci.


Il padre di Annalukshmi vive in Malesia, è ritornato alla religione indù e per la madre, cristiana, era impossibile continuare a vivere con lui. Come per le sorelle Bennet, anche per Annalukshmi e le sue sorelle il problema è il matrimonio, Annalukshmi è la maggiore, se non si sposa lei, le altre non possono convolare a nozze. Ma Annalukshmi è la Elizabeth Bennet del romanzo- ha uno spirito ribelle e indipendente, ama leggere, insegna nella scuola che ha una direttrice inglese e la sua ambizione è di avere anche lei un ruolo direttivo (non sa che, in quanto nativa di Ceylon, le è impossibile). La scena in cui sfreccia sulla bicicletta che le hanno regalato (contro gli ordini della madre), suscitando l’orrore e le maldicenze delle donne per bene di Cinnamon Gardens, significa già tutto. Quando il padre sceglie un marito per lei, Annalukshmi scappa e non si fa trovare, e l’aspirante marito che è anche un loro cugino ripiega sposando la seconda sorella. Vedremo se sarà più o meno felice, se si farà andare bene un marito purchessia. Perché “Cinnamon Gardens” è un romanzo di coppie per lo più infelici, che fingono (se possono).

    Quando Balendran frequentava l’università in Inghilterra viveva con il ragazzo inglese di cui era innamorato. Il padre lo aveva saputo e si era precipitato a salvare il figlio minacciando al suo compagno di denunciarlo- il ricordo di Oscar Wilde è ancora vivo. Balendran era rientrato nei ranghi, si era sposato, aveva avuto un figlio, aveva nascosto la sua infelicità, l’accordo con la moglie era pacato e sereno. Finché, a quasi trent’anni di distanza, l’antico amante era arrivato a Colombo con un incarico del governo…

    Ci sono altre storie ancora, ma vale la pena di soffermarsi su due personaggi che hanno un profondo significato nel romanzo, il fratello maggiore di Balendran e il padre, un’eminenza nella società di Colombo.


Il fratello maggiore era stato ostracizzato perché si era innamorato di una ragazza di casta inferiore che faceva la domestica in casa loro. Si era rifiutato di lasciarla, in un atto di ribellione aveva addirittura ferito il padre prima di emigrare a Bombay. Ora sta morendo e Balendran va da lui: quello che trova lo lascia sorpreso e lo fa riflettere. Il fratello e la moglie vivono in povertà ma è chiaro che si amano ancora, hanno fatto studiare il figlio in Inghilterra con grandi sacrifici: è lui, il fratello, l’eroe del romanzo, quello che ha vissuto la vita che ha voluto affrontando le conseguenze delle sue scelte. E il padre invece, dopo quello che Balendran scopre su di lui, è il modello dell’ipocrisia, di chi esige dagli altri dei comportamenti che lui per primo non rispetta.

    Il romanzo è diventato un classico della letteratura anglo-indiana, un libro sfaccettato e ricco di sfumature, una lettura sempre molto piacevole.





martedì 22 aprile 2025

Lisa Ridzén, “Quando le gru volano a sud” ed. 2025

                                                                       vento del Nord



Lisa Ridzén, “Quando le gru volano a sud”

Ed. Neri Pozza, trad. Laura Cangemi, pagg.336, Euro 19,00

 

     È uno spettacolo grandioso, quando le gru volano alte nel cielo, con le ali spiegate, nei loro flussi migratori- verso Nord all’inizio dell’estate per tornare a Sud quando le foglie ingialliscono. Annunciano l’autunno, la morte o il sonno della natura.

    Da giugno ad ottobre, sono i mesi in cui seguiamo la vita e i pensieri di Bo, ottantanove anni, nel Nord della Svezia. È un racconto in prima persona, spezzato da brevi interventi, come appunti, pro-memoria lasciati per altri e scritti dalle varie persone dell’assistenza sociale che si occupano di lui o dal figlio.

   Bo, la moglie Fredrika, il figlio Hans, la nipote Ellinor, Ingrid, la sua preferita tra le assistenti (c’è anche ‘l’arpia’ che Bo non gradisce affatto), l’amico Ture e il cane da caccia Sixten sono i personaggi del romanzo.


Soprattutto il cane, perché ha un ruolo importantissimo nella vita di Bo, è la sua unica compagnia, su di lui Bo ha riversato l’amore che aveva per la moglie. Fredrika è ricoverata in una casa di cura e neppure lo riconosce più- andarla a trovare è una sofferenza. Bo ha conservato un suo scialle, lo ha chiuso in un barattolo perché mantenga il profumo di lei e ogni tanto svita il coperchio (anzi, se lo fa svitare perché le sue dita artrosiche non ci riescono più) e annusa e gli pare che lei sia ancora lì, vicino a lui. Ci sarà una scena finale in cui Ingrid gli mette vicino al collo e al viso lo scialle di Fredrika ed è una scena di una dolcezza infinita.

   Quanto è difficile la vita quando si diventa anziani. Non si è più indipendenti, si deve obbedire, non si può neppure decidere da soli quando si vuol fare una doccia. C’è il problema del cane, ad esempio. Il figlio Hans pensa che Sixten debba essere affidato ad una famiglia che gli faccia fare quello che Bo non riesce più a fargli fare, lunghe passeggiate, corse nel bosco. Bo insiste che per lui non è un problema, ma un giorno succede quello di cui Hans aveva paura- Bo cade mentre segue Sixten tra gli alberi e non riesce a rialzarsi. Tutto finisce bene, ma perfino la nipote Ellinor- quanto la ama, Bo- è d’accordo con il padre.


    Ricordi, ricordi, una valanga di ricordi. L’infanzia di Bo con un padre (sempre nominato come ‘il vecchio’) severo e anaffettivo, il lavoro nella segheria, l’amore per Fredrika (come era stato possibile che lei, così bella, ricambiasse il suo amore?), il figlio che, a differenza di lui, aveva studiato (come ha fatto Hans a diventare vecchio anche lui?), la gioia di avere una nipote, l’amico Ture, l’unico amico che gli sia rimasto. Giravano voci su Ture, sul fatto che non fosse sposato. Perfino Fredrika gli era ostile. A Bo non importava quello che dicevano, adesso che sono vecchi la telefonata quotidiana con lui è un punto fermo della sua giornata. E, quando Bo incontra lo sconosciuto ‘amico’ di Ture, soffre di non averne mai saputo niente, di non aver goduto della piena fiducia dell’amico. Non si dovrebbe mai lasciare niente di non detto, perché poi può essere troppo tardi. Si cresce sempre, si impara sempre, anche quando si è vecchi. Bo soffoca il rancore che aveva per il figlio che aveva finito per portare via il cane, Bo che aveva rifiutato di rispondere alle telefonate di Hans così come aveva rifiutato il cibo per manifestare il dolore per quella privazione, ormai prossimo alla morte bisbiglia al figlio che gli vuol bene, che è orgoglioso di lui. Se ne va con l’autunno, Bo, insieme alle gru che volano verso Sud.


    Un libro bellissimo, toccante, dolcissimo, profondo perché è un’ultima meditazione su tutto quello che importa nella vita- il rapporto con i genitori, con i figli, con la moglie, con gli amici ( e tra gli amici mettiamo anche il cane). È un ripensamento su quello che si è fatto e su quello che si poteva fare meglio, è un’accettazione della vecchiaia pur con tutte le sue frustrazioni. È un concentrato di vita nel tempo prima di abbandonarla.

Assolutamente da leggere.



giovedì 17 aprile 2025

Tommaso Scotti, “Il segreto del vecchio signor Nakamura” ed. 2025

                                   Voci da mondi diversi. Giappone

cento sfumature di giallo

Tommaso Scotti, “Il segreto del vecchio signor Nakamura”

Ed. Longanesi, pagg. 366, Euro 18,50

 

   Tokyo. 10 dicembre 1968. Un finto poliziotto in motocicletta ferma il veicolo di una banca che porta 300 milioni di yen in contanti, inventa una storia secondo cui un attentato ha fatto saltare in aria la casa del direttore della banca e dice che ci deve essere una bomba anche sulla loro auto. I quattro bancari scendono a precipizio dall’auto, l’uomo perlustra l’abitacolo, si infila sotto, dice che c’è un candelotto di dinamite, esce un gran fumo, lui grida agli altri di scappare, si mette al volante e sfreccia via. I soldi non furono mai ritrovati e tanto meno il ladro. Il denaro era assicurato, gli stipendi dei lavoratori della Toshiba furono pagati con solo un giorno di ritardo, a perderci, quindi, fu solo la compagnia assicurativa.

    Questi sono i fatti su cui Tommaso Scotti, lo scrittore italiano che da anni vive in Giappone, basa il suo nuovo romanzo. Tutto vero, dunque. Poi, come sappiamo, sono l’arte e l’inventiva dello scrittore che ricamano sull’intreccio e che rendono vivi i protagonisti.

identikit

     2018. Sono passati cinquant’anni, ci sarà un servizio televisivo sul furto più famoso del secolo in Giappone, un giornalista e una cameraman vengono inviati a intervistare Nakamura, il vecchio ispettore che aveva diretto le indagini all’epoca. E il tempo si riavvolge, torna indietro di cinquant’anni.

La narrazione, però, scorre su un doppio binario- quello del passato, con tutti gli avvenimenti, lo stupore, lo sgomento, la ricerca di un colpevole purchessia, con un Nakamura giovane che ci colpisce per quel suo sguardo vuoto e la fissazione di contare tutto, di identificare qualunque aspetto della realtà con un numero (solo alla fine capiremo il perché di entrambe le sue peculiarità), gli indagati (Nakamura ci sa dire il numero esatto che è un numero di sei cifre), gli interrogatori, il tutto in capitoli che iniziano con una data seguita dalle ore o dai giorni che sono passati dal furto.

la moto del finto poliziotto

Il secondo binario è quello del presente, quando Nakamura ha quasi novant’anni e le sue innocue manie di vecchio. Ha una memoria eccezionale, ricorda tutti i dettagli del caso. Ricorda anche gli errori che hanno portato dolore e morte, come l’accusa fatta al figlio di un poliziotto (il ragazzo si è suicidato, era un’ammissione di colpa? E il denaro dove era?), come un’altra accusa fatta molto tempo dopo ad un uomo che poi venne interamente scagionato, ma intanto il suo nome era andato in pasto alla stampa e la sua vita era stata rovinata (anche lui si era suicidato). E il collega che lavorava troppo e che non aveva retto allo stress? Sì, il furto di per sé non aveva avuto vittime, ma dopo…

    Il giornalista è preso dal racconto di Nakamura, la cameraman è insofferente, le pare che perdano tempo a seguire quel vecchio che adesso si è messo in mente di uscire, di andare a comprare il tè, a farsi tagliare i capelli, a ritirare un timbro, a mangiare qualche specialità.

timbro giapponese

Perché in apparenza queste digressioni che ci portano in locali così prettamente giapponesi, descrivendo personaggi che hanno avuto una vita difficile, mettendo a confronto la vita aspra del dopoguerra con quella dei tempi moderni, sono come degli ‘aside’ a teatro, scene collaterali che offrono un pretesto per farci conoscere meglio- con un filo di nostalgia- usanze che stanno scomparendo. Ne capiremo meglio solo nella conclusione il significato e il valore, perché il finale (lo scrittore ammette che è una sua invenzione) è sorprendente, ci soddisfa, ci fa pensare un poco a Robin Hood.

    “Non sai chi sei finché non lo sei”, è l’insegnamento del romanzo su cui riflettere, e questa non è l’unica lezione di un libro che ha una delicatezza tutta sua nell’affrontare un’indagine poliziesca.