venerdì 28 ottobre 2022

John Hersey, “Un solo sassolino” ed. 2022

                              Voci da mondi diversi. Stati Uniti d'America

      romanzo di formazione
     romanzo di viaggio

John Hersey, “Un solo sassolino”

Ed. Corbaccio, trad. Cesare Vivante, pagg. 224, Euro 19,00

 

   Ecco un altro gioiellino che salta fuori dal passato. L’autore è John Hersey, nato aTientsin, in Cina, nel 1914 e morto a Key West nel 1993. Vincitore di un premio Pulitzer, autore di “Hiroshima”, una raccolta di testimonianze sulla tragedia giapponese, pubblicò “Un solo sassolino” nel 1956.

    La voce narrante è quella di un giovane ingegnere idraulico che, negli anni ’20 del secolo scorso, viene mandato in Cina a studiare il fiume Yang-tze per poi prendere accordi con il governo cinese e costruire una diga che sfrutti le famose gole del fiume. Si imbarca su una giunca e il suo primo incontro/scontro con la realtà cinese avviene quando la partenza è ritardata perché il cuoco si è allontanato per comprare del cavolo. Lui, abituato alla piena efficienza e rispetto dei tempi del mondo da cui proviene, si sente in prigione della pazienza altrui, di quella rassegnazione dettata dal ‘non ci si può far niente’.


   Il cuoco, il padrone della giunca (soprannominato ‘il Grosso’), il capo dei trainatori (chiamato “Vecchio Sassolino” anche se non è affatto vecchio, ma giovane e aitante), e Su-Ling (l’unica che mantiene il suo vero nome, la moglie del padrone, molto più giovane di lui) sono i personaggi principali, oltre al ‘Grande’ fiume, lo Yang-tze, il più lungo dell’Eurasia, il terzo più lungo del mondo. Lo Yang-tze è quasi una divinità, lo si ammira, lo si rispetta, se ne ha timore, si cerca il suo favore con riti superstiziosi. E guai ad incorrere nella sua ira. Quando uno dei trainatori rovescia un pesce nella ciotola durante un pasto, Sassolino gli fa una tremenda sfuriata, sorprendendo il nostro narratore che non capisce. Eppure è chiaro: pesce rovesciato= giunca rovesciata, un presagio funesto.

    Il topos del viaggio, comune nei romanzi di formazione, è qui limitato ad un viaggio su un fiume, ma proprio per questo si arricchisce di significati, con l’acqua che scorre come la vita, arruffata da turbolenze come le difficoltà che si incontrano nell’esistenza quotidiana. In più il viaggiatore non attraversa vari paesi e il confronto costante è tra lui e ‘loro’, tra lui che ha studiato e può modificare il corso delle acque e loro che conoscono la forza del Grande Fiume e sanno come affrontarla, tra l’Occidente razionale e l’Oriente dei miti e delle superstizioni.


   E, come in tutti i romanzi di crescita, il protagonista cambia. Dapprima è stupito di apprendere quali siano le aspirazioni di Vecchio Sassolino, “Non metto da parte. spendo per gli amici. Pago loro da bere. Coltivo l’amicizia…Non ho casa. Il mio corpo è la mia casa”. Non gli sembra che sia possibile che un uomo giovane, allegro e vigoroso possa non aspirare alla ricchezza. Non capisce come si possa essere indifferenti ai fini che sono validi per lui. In seguito si ammala, ha tempo per pensare, inizia a temere di poter essere oggetto di disgusto per i cinesi, lui che era cresciuto credendo alla superiorità del mondo occidentale. E perde, o gli rubano, l’orologio. Che cosa è il tempo per lui occidentale, senza l’orologio? Che piccola entità temporale poteva misurare il suo orologio a confronto di quei sentieri scavati millenni prima nella roccia perché gli uomini potessero far superare alle giunche le rapide? Tutto il suo mondo è stato capovolto- che cosa mai sono le scuole canoniche a confronto di quella grande scuola che è il fiume? E allora cresce la sua ammirazione per lo sforzo immane che fanno i trainatori della giunca, per il canto di Sassolino che sembra essere una divinità delle acque. Finché succede il dramma. È come se si fosse compiuto un sacrificio umano per placare il tumulto delle acque e la sua aspirazione a cambiare il fiume sembra velleitaria e oltraggiosa.


     La giunca arriva in acque calme, approda Wah-hsien, il narratore invita a pranzo i suoi compagni di viaggio ed è come se l’incantesimo fosse finito- Su-ling di cui lui era un poco innamorato ritorna a sembrare una rozza contadina, trainatori e marinai sembrano degli straccioni e lui, lui torna ad essere l’ingegnere che vorrebbe cambiare il Grande fiume. Ma la diga non si farà.

     Ricco di significati nella sua brevità, incantatore con il fragore che sentiamo delle acque del fiume e il canto magico di vecchio Sassolino, con una nota di tristezza per la giovinezza che non è sopravvissuta all’esperienza, con qualcosa di Conrad nella visione degli schiavi che lavorano nelle saline. Leggetelo.

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martedì 25 ottobre 2022

Willem Frederik Hermans, “La camera oscura di Damocle” ed. 2022

                                Voci da mondi diversi. Paesi Bassi

                                   seconda guerra mondiale 

Willem Frederik Hermans, “La camera oscura di Damocle”

Ed. Iperborea, trad. Claudia Di Palermo, pagg. 445, Euro 19,50

    Henri Ousewoudt era un bambino quando, appena ritornato da scuola, era stato immediatamente accompagnato a casa dello zio- sua madre aveva ucciso suo padre. Era diventato grande con gli zii e aveva finito per sposarne la figlia, sua cugina, più vecchia di lui e brutta per di più. Non che lui, Henri fosse bello. Piccolo di statura (era stato scartato al servizio di leva), naso minuscolo, mento sfuggente, nessuna traccia di barba, pelle liscia come il culetto di un bambino, capelli sottili e biondi, voce acuta. Henri, spesso ridicolizzato per il suo aspetto, potrebbe passare per una donna e infatti, quando, per fuggire, dovrà vestirsi da suora, più avanti nel libro e in quella che forse è l’unica scena comica del romanzo, il suo travestimento sarà così credibile da attirare le avances di un ufficiale tedesco.

   Nel maggio 1940 i tedeschi invadono l’Olanda e un uomo in divisa olandese entra nella tabaccheria che ora Henri gestisce al posto del padre. Da questo momento la sorte di Osewoudt sarà legata a quella di Dorbeck, il misterioso ufficiale. Non sono solo i loro nomi ad assomigliarsi con quella doppia consonante finale, sono proprio identici anche se Dorbeck ha i capelli neri e un’ombra di barba sulla faccia. Sono l’uno il doppelgänger dell’altro, come il negativo e il positivo di una pellicola.

    Il paragone è quanto mai adeguato perché il tema della pellicola, di fotogrammi stampati, usati come segnale di riconoscimento, andati smarriti, passati di mano da olandesi che lottano per la resistenza ai tedeschi, è un leit-motiv di tutto il romanzo, considerato come il capolavoro di uno dei più grandi scrittori olandesi.


Tutto inizia da questo incontro, dunque, quando Dorbeck affida un rullino da sviluppare a Osewoudt. Anche il rullino è misterioso, perché la pellicola è interamente nera: è Osewoudt che ha commesso un errore nello sviluppo oppure non c’era proprio nessuna immagine? In pratica Osewoudt, il pallido e pavido Osewoudt che ha sempre scelto e sempre sceglierà la via più facile, viene arruolato nella resistenza. Nell’eseguire gli ordini Osewoudt è bravo. Non fa domande, obbedisce. Gli dicono di recarsi ad un certo indirizzo e uccidere le persone che troverà in casa? E lui lo fa. Deve andare con una ragazza a prelevare un bambino in una fattoria isolata e ammazzare il collaborazionista che è il padre del bambino? Osewoudt non fa domande, esegue e ci scappa qualche morto in più per sicurezza.

    Intanto Dorbeck è scomparso. Quando, al cinema, compare sullo schermo l’immagine di un uomo ricercato e su cui c’è una taglia, Osewoudt, che è tra gli spettatori, scappa. Cercano lui, Osewoudt, ma quello sullo schermo era Dorbeck, anche se ormai Osewoudt si è fatto tingere i capelli di nero ed è ancora più somigliante. Morti ammazzati, fughe, arresti, interrogatori e torture, un ufficiale tedesco che aiuta sia lui sia la ragazza ebrea che aspetta un figlio da lui (perché?), un medico che lo salva facendolo fuggire dall’ospedale (perché?) e poi la guerra è finita e Osewoudt viene nuovamente arrestato e accusato di avere tradito, di essere stato un collaborazionista. Solo la testimonianza di Dorbeck potrebbe scagionarlo. Ma Dorbeck non si trova.


    La narrazione è in terza persona, ma è sempre il punto di vista del protagonista che noi leggiamo, tanto che a volte abbiamo l’impressione che sia un monologo interiore. E, come accade in questi casi, non sappiamo quanto sia affidabile la voce che sentiamo. Perché i fatti sono ingarbugliati, le persone cambiano nome per non essere riconosciute, e poi, esiste veramente Dorbeck o c’è in Osewoudt una traccia della follia di sua madre? È uno psicopatico che ha inventato un doppio per se stesso? E soprattutto, è un eroe o è un criminale?

   “La camera oscura di Damocle” è un romanzo terribile sulla seconda guerra mondiale, senza apparire tale, ma piuttosto un thriller o un libro di spionaggio. Terribile perché riflette le ambiguità dell’atmosfera del tempo, dove la linea di confine tra bene e male è sottile, dove tutto è permesso, anche uccidere.

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domenica 23 ottobre 2022

Ann Weisgarber, “Il coraggio di Rachel DuPree” ed. 2022

                          Voci da mondi diversi. Stati Uniti d'America


Ann Weisgarber, “Il coraggio di Rachel DuPree”

Ed. Neri Pozza, trad. maddalena Togliani, pagg.260, Euro 18,00

   South Dakota. Badlands. 1917. La data, che per noi europei dice tanto, non ha altrettanto peso nel romanzo di Ann Weisgarber. Ad un certo punto un personaggio va ad arruolarsi, dicendo che ‘darà una lezione a quelli là’, ma la guerra è un evento lontano, i protagonisti hanno ben altre preoccupazioni.

    Il nome, Badlands, già dice tutto. Una terra ostile, vaste distese in cui l’abitante più vicino è a miglia di distanza, una vita che è fatta di lavoro, lavoro e ancora lavoro, tra mille asperità.

Eppure Rachel era stata felice di seguire Isaac DuPree nelle Badlands. Rachel viveva a Chicago, vicino alla puzza dei mattatoi, e faceva la cuoca nella pensione della madre di Isaac. Quando questi era tornato dopo aver servito nell’esercito, Rachel se ne era innamorata. Non lui di lei, però. E la madre di Isaac aveva fatto fuoco e fiamme quando aveva saputo che si sarebbero sposati e aveva troncato ogni rapporto con loro.

    Era stato amore per la terra che aveva spinto Isaac a sposare Rachel, non amore per lei. Sì, la Terra con la T maiuscola. Il governo dava la terra a chi la chiedeva e, se erano in due a chiederla, l’estensione sarebbe stata doppia. Isaac vedeva campi coltivati a frumento, bestiame, guadagni con cui avrebbe comprato altra terra e altro bestiame. E Rachel lo aveva ricattato. Avrebbero messo insieme le loro terre, ma lui doveva sposarla. E così era stato. Un matrimonio a termine, secondo i patti iniziali, e invece durava da quattordici anni quando Rachel prende la parola.


    C’è stata una siccità terribile e l’episodio iniziale ci dà l’idea traumatizzante di quello che la famiglia DuPree deve aver passato. Hanno cinque figli, i Dupree, altri due sono morti, Rachel è incinta e i bambini aiutano, fanno lavori più grandi di loro. Per scendere nel pozzo e riempire di acqua il secchio la scelta obbligata è caduta sulla piccola Liz, perché è minuta e non resterà incastrata. Parecchi elementi concorrono a rendere cruciale questa scena, a farne un punto di volta. Alle spalle i DuPree hanno mesi senza pioggia, razionando l’acqua da bere, senza potersi lavare, con i campi aridi e il bestiame che muore. Davanti a loro c’è l’incertezza del futuro- mancano le provviste per dar da mangiare ai bambini, non ci sono soldi, è rimasta un’unica mucca scheletrica che dovrebbe dare latte. E adesso c’è questa impresa disperata, con Liz terrorizzata, del buio, della profondità del pozzo, della serpe che l’aspetta in fondo, con Rachel che si sente in colpa per sottoporre la bambina a questo compito.

    Rachel racconta la loro vita di unici neri nella zona (anzi, di negri, perché questa era la parola usata allora), dell’entusiasmo iniziale, del suo amore per Isaac e del dolore per la morte dei figli appena nati. Quando, nella solitudine di quella terra sterminata, passa da loro una donna indiana con la figlia, Rachel la invita a salire sulla veranda e le offre un tè. Anche questo sarà un episodio chiave- Isaac odia gli indiani (ha combattuto a Wounded Knee) e si arrabbierà, Rachel ricorderà una donna indiana che era venuta alla fattoria tanti anni prima, con un bambino mezzo sangue. Il ricordo, che porta con sé un dubbio, non la lascerà più e ci sarà il giorno in cui la squaw a cui lei ha offerto il tè le salverà la vita.


     “Il coraggio di Rachel Dupree”  ci fa conoscere un’altra America- mezzo secolo è passato dalla guerra civile, i neri hanno l’opportunità di fare fortuna, in loro non c’è più la servilità dello zio Tom e, per motivi diversi, sia Isaac sia Rachel sono personaggi da ammirare. Soprattutto per la loro determinazione, la forza nell’ affrontare le difficoltà e resistere ai colpi della fortuna. E Rachel, poi, per la capacità di amare e di scegliere chi, tra il marito e i figli, abbia più bisogno del suo amore.

    Un libro molto bello.

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giovedì 20 ottobre 2022

Roberto Alajmo, “Notizia del disastro” ed. 2022

                                                                    Casa Nostra. Qui Italia


Roberto Alajmo, “Notizia del disastro”

Ed. Sellerio, pagg. 230, Euro 14,00

 

     C’era una copia della “Spoon River anthology” nella borsa di Annalisa Bufacchi, hostess a bordo del DC9 del volo Roma-Palermo che precipitò in mare la notte del 23 dicembre 1978. Uno strano presagio che stesse leggendo proprio ‘quel’ libro di elegie per i morti del cimitero di Spoon River. E “Notizia del disastro” di Roberto Alajmo è una Spoon River di Punta Raisi in cui il cimitero è il mare, una raccolta di storie che fanno passare davanti agli occhi della nostra mente i centoventinove passeggeri dell’aereo- solo ventuno i sopravvissuti.

    Ci sono tutti i nomi nelle prime due pagine del libro. Perché un conto è dire “centoventinove”, con la freddezza di un numero, e un conto è elencarli tutti e 129, con nome e cognome. Chi ha un nome e un cognome ha un vissuto alle spalle e un non-vissuto davanti a sé.

23 dicembre: mancavano due giorni a Natale, c’era ressa all’aeroporto di Roma, di certo overbooking in un’epoca in cui l’acquisto dei biglietti non era ancora fissato in regole fisse e non era neppure necessario dare un nome e cognome che coincidesse con quello della carta di identità. Erano in tanti che tornavano in Sicilia, a casa, per passare le feste con la famiglia. Genitori, mogli, figli, fidanzate erano in attesa all’aeroporto di Palermo. Ci sarebbero stati due voli straordinari. E qui entra in gioco il destino.


    La meccanica dell’incidente- sempre rimasta oscura- si basa sulle poche testimonianze dei sopravvissuti. L’aereo stava scendendo, al primo urto avevano pensato che fosse il carrello che toccava la pista, poi il secondo, poi…la fine del mondo. Si erano ritrovati in acqua, molti ancora agganciati ai sedili, si vedevano luci di pescherecci, il mare era coperto da uno strato oleoso di kerosene.

   Di uno dopo l’altro, in questa Spoon River di Punta Raisi, leggiamo la storia- da dove veniva, perché, chi lo aspettava, che cosa era in attesa nel ‘dopo’ dei fortunati che si erano salvati, quale ruolo avesse avuto il destino per lui o per lei. Già, il destino. Perché c’era chi su quell’aereo proprio non ci doveva essere, o perché sarebbe dovuto partire con il volo precedente o perché aveva fatto di tutto per salire a bordo, per guadagnare un giorno. E così pure il contrario, come la ragazza che aveva trovato tutti i posti occupati ed era stata fatta scendere, anche se i suoi bagagli erano stati caricati in stiva. Li avrebbe trovati a Palermo. Non li avrebbe più visti. C’era chi era doppiamente miracolato perché sarebbe dovuto essere sul volo che nel 1972 si era schiantato contro la Montagna Longa ed ora aveva ingannato la morte una seconda volta. E c’era chi aveva solo raccontato di essere scampato- e invece era arrivato sul volo seguente ma non voleva dire alla moglie di essere stato a Roma e voleva invece godersi un poco di gloria. Non c’era voluto molto per smascherarlo, perché andava dicendo che si era salvato e aveva gli abiti asciutti perché aveva preso lo scivolo che lo aveva depositato in una scialuppa di salvataggio.


Dei bambini che erano a bordo non ne scampò nessuno. Ci furono atti di eroismo e atti di egoismo, come sempre accade in questi casi. E nelle storie che leggiamo, nella lunga carrellata di nomi, ci sono anche quelli dei dispersi, c’è il racconto del dramma vissuto dalle famiglie in attesa spasmodica che i corpi venissero ripescati per poter dare loro una sepoltura. Riposino in pace tutti, quelli ripescati (irriconoscibili) e quelli che hanno trovato in mare la loro tomba.

    La Spoon River di punta Raisi è in prosa, naturalmente, ma tocca le corde del nostro cuore come può fare la poesia, per la commozione che suscita, per l’insondabile mistero del fato che aleggia su ogni pagina.

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domenica 16 ottobre 2022

Zeruya Shalev, “Quel che resta della vita” ed. 2007

                                                               Voci da mondi diversi. Israele


Zeruya Shalev, “Quel che resta della vita”

Ed. Feltrinelli, trad. Elena Loewenthal, pagg. 373, Euro 17,00

Titolo originale: She’erit ha-chaim

Non capisci, Ghideon, sussurra, tutt’a un tratto ho capito che cosa dobbiamo fare, so che sulle prime ti sembrerà una follia ma se ci pensi bene allora capirai che sarà magnifico per tutti noi, e lui si muove nervosamente sulla sedia rovinata dal tempo e dalla pioggia, che cosa vuoi dire?, domanda, e allora per la prima volta lei si trova di fronte alle parole nude e crude, non sono più aleatorie come poco fa nella stanza di sua madre e nemmeno mute come erano sullo schermo dl computer, così ha un attimo di esitazione prima di pronunciarle a bassa voce: voglio adottare un bambino.

        Una donna anziana in una stanza d’ospedale. La figlia e il figlio vengono a trovarla- sono insofferenti, sentono come un obbligo il doversi occupare della vecchia madre. Sono entrambi sposati, Dina ha una figlia di sedici anni e Avner ha due maschietti. Intorno a questi personaggi la scrittrice israeliana Zeruya Shalev costruisce il suo romanzo “Quel che resta della vita”. Non è solo Hemda, nel suo letto d’ospedale, a fare i conti con come ha vissuto e a prospettarsi come voglia o possa impiegare il tempo che le resta da vivere. Anche Dina e Avner, per motivi diversi, tirano le somme ed entrambi arrivano a prendere delle decisioni sofferte che sconvolgono la loro vita e quella della loro famiglia.

    Che nome incongruo per la sua personalità, Hemda che significa ‘grazia’. Non c’era nulla di aggraziato in Hemda, la prima bambina nata nel kibbutz, una bambina infelice con una mamma sempre lontana con incarichi importanti, un padre che la amava ma che esigeva molto da lei, troppo. Chissà se era stato per un rifiuto del modello madre-figlia che Hemda non aveva amato Dina ed era stata, invece, appassionatamente legata al secondogenito Avner. Con tutte le conseguenze che possiamo immaginare.


In questo momento di bilanci, quando la prospettiva della morte della madre porta i due figli in prima linea nella corsa della vita, Avner (l’avvocato difensore dei diritti civili che viene chiamato per spregio ‘l’avvocato dei beduini’) mette in discussione il rapporto con la moglie che è stata anche la prima e unica ragazza che abbia avuto (e c’è, in contrasto, un’altra storia d’amore di cui Avner è stato testimone involontario), mentre Dina, quarantasei anni, si fa cogliere da un tardivo desiderio di maternità e vuole adottare un bambino.

     Nessuno di questi personaggi è felice, neppure la figlia adolescente di Dina alle prese con la delusione del primo amore. Ma che peso hanno i motivi di queste infelicità in paragone con quanto di più serio possa accadere, come la morte del giovane professore universitario che Avner ha spiato dietro la tenda dell’ospedale? Oppure tutti i casi di ingiustizia sofferti dagli arabi difesi in tribunale da Avner? Oppure- ed è la riflessione su cui si chiude il libro- la tristezza dipinta sul visino di un bambino di due anni che attende, sulla seggiolina di un orfanotrofio, che qualcuno lo voglia, che una mamma lo porti via al posto della sua, di mamma, che lo ha abbandonato. Prenderà un altro nome, questo bambino, si chiamerà Hemdat e, chiudendo il cerchio di infelicità che è incominciato con Hemda, segnerà un nuovo inizio, un impegno d’amore per quel che resta della vita.


       “Quel che resta della vita” non deve essere stato un romanzo facile da scrivere perché questo nucleo famigliare, non diversamente da molti altri, si avvita su esperienze dolorose del passato- se Dina e Avner soffrono è perché la loro madre ha a sua volta sofferto, e così pure i genitori dei loro genitori- e la narrazione di Zeruya Shalev non è lineare, passa da ricordi del passato al presente, da un personaggio all’altro, allacciando un capitolo a quello seguente nel suo stile particolare fatto da un flusso narrativo che mescola la riflessione, o il monologo interiore, al dialogo. La scrittrice è, però, bravissima nell’esplorare le dinamiche dei rapporti tra mogli e mariti, tra genitori e figli, nel sondare l’incertezza davanti ad un bivio che obbliga ad una scelta, nella disanima impietosa delle strade scelte e di quelle scartate. E allora Dina, tanto criticata da tutti, accusata di volere un altro figlio per uno squilibrio ormonale dell’età, diventa il simbolo positivo di una presa di posizione per non avere rimpianti di sorta in ciò che si fatto in ‘quel che resta della vita’.

La recensione è stata precedentemente pubblicata sul sito di Wuz



venerdì 14 ottobre 2022

Saša Filipenko, “Ex figlio” ed. 2022

                                                     Voci da mondi diversi. Bielorussia

Saša Filipenko, “Ex figlio”

Ed. e/o, trad. Claudia Zonghetti, pagg. 190, Euro 17,10

 

    Rip van Winkle, nel famoso racconto di Washington Irving, aveva dormito per vent’anni e, quando si era svegliato, il mondo in cui aveva vissuto era del tutto cambiato.

  Christiane, nel film “Good-bye Lenin” diretto da Wolfganf Becker, ha un ictus e cade in coma poco prima della caduta del muro di Berlino, nel 1989. Quando si risveglia, nove mesi più tardi, per proteggerla dal trauma che potrebbe causarle un altro attacco di cuore, i figli si danno da fare per nasconderle la caduta della Repubblica Democratica tedesca e il trionfo del capitalismo.

   Dai Wei, in “Pechino è in coma” di Ma Jian, resta in coma dopo essere stato colpito alla testa da un proiettile durante la rivolta di piazza Tiennanmen il 4 giugno 1989. Quando si sveglia, trova una Cina diversa da quella che ha popolato i suoi ricordi nel lungo sonno durato dieci anni.

   Anche Francysk, il ragazzo sedicenne protagonista del pluripremiato romanzo di Saša Filipenko, resta in coma per dieci anni, ma, a differenza di quanto accade agli altri personaggi delle storie che si basano sulla stessa metafora di immobilismo, quando si risveglia scopre che nulla è cambiato nella sua città, nulla è cambiato nel suo paese. I cambiamenti riguardano la sfera privata- sua madre è convolata a nozze con il primario dell’ospedale e ha avuto un altro bambino, il suo migliore amico ha sposato la ragazza che era stata il suo primo amore, la sua amata nonna è morta proprio quando lui pronunciava le prime parole confuse dopo il lungo mutismo. E, dopo quello che è come un preambolo- il racconto del concerto, della pioggia improvvisa, della fuga verso il riparo della metropolitana, della calca in cui moltissimi erano morti, molti erano rimasti feriti e a Francysk era toccato in sorte quel limbo tra la vita e la morte- inizia la spietata descrizione del presente in uno stato mai nominato che è la Bielorussia (facilmente riconoscibile, schiacciato tra il Grande Fratello a Oriente e i paesi capitalisti dell’Occidente), governato dal 1994 da un presidente dittatore mai nominato che è Lukašenka.

Lukašenka.

    Mentre Francysk giace nel letto dell’ospedale, a poco a poco intorno a lui si fa il vuoto. Solo la nonna resta accanto a lui, testarda nella sua convinzione che il nipote si risveglierà prima o poi, costante nei tentativi di aiutarlo a riprendere conoscenza, senza mai smettere di parlargli, di raccontargli, di stimolarlo. E, insieme a lei, l’amico più caro, Stas, che commenta quanto avviene nel paese, o meglio, quanto non avviene- “Dorme il paese, ronfa anche tu”, gli dice. Chi può ottenere un visto se ne va, questo sì. Poi c’è chi scompare, c’è chi si suicida (troppi suicidi sospetti e, guarda caso, sono tutti oppositori del regime). Dai canali televisivi non viene nulla che si discosti dalle posizioni del presidente.

    Francysk sapeva, ma la consapevolezza del ragazzino di sedici anni non è la stessa del giovane uomo di ventisei che prova ad unirsi alla protesta per poi tirarsi indietro, spaventato dalla violenza della repressione. “Ditemi cos’è permesso…Voglio fare solo quello che si può fare…”, dice l’amico in sogno.

“Voglio non avere paura”, dice Francysk, e decide di chiedere il visto per raggiungere la famiglia adottiva in Germania (mentre era in ospedale si era alzato il sipario sull’esperienza dei bambini mandati in vacanza in Germania dopo il disastro nucleare di Chernobyl). “So che non dovrei andarmene mentre qualcun altro lotta, mentre un sacco di gente è in prigione perché non si rassegna a quello che accade nel paese, ma davvero non ce la faccio più”.

Minsk

     Riuscirà ad andarsene Francysk?

Lucido, amaro, ironico, profondamente triste e doloroso, di quella tristezza che si prova quanto si vede con chiarezza una realtà su cui non si può incidere, di quel dolore che ci prende quando non c’è speranza per chi amiamo- e poco importa se si tratta di una persona o di un paese.

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martedì 11 ottobre 2022

Carla Maria Russo, "Cuore di donna"- Intervista 2022

 

   


    Mi pareva ieri e invece era il 2015 quando avevo incontrato Carla Maria Russo per parlare di Caterina Sforza, l’affascinante protagonista del suo romanzo “La bastarda degli Sforza”. L’appuntamento è nello stesso bar-pasticceria di allora, lei non è cambiata affatto- forse è proprio ieri che ci siamo incontrate. Oggi però parleremo delle due ‘eroine’ del libro appena pubblicato, “Cuore di donna”, altri due grandi personaggi femminili che si aggiungono alla galleria delle sue indimenticabili protagoniste. E iniziamo chiedendo proprio di loro, di Maria Inez Cortese e di Ann Bennett.

Come ha “incontrato” le due protagoniste?

    L’ispirazione  per questa storia nasce da un saggio che ho letto con la storia di Maria Barbella, un’immigrata italiana che uccise il marito in una locanda- in realtà non era il marito, ma l’uomo che l’aveva sedotta e poi non l’aveva sposata. Mi aveva appassionato la dinamica del processo, l’ingiustizia della discriminazione da cui era chiaro che si voleva colpire una persona per colpire tutta la comunità, la generalizzazione del giudizio per cui si trasformavano tutti gli italiani in criminali. Però, poi, la storia di Maria Barbella non mi interessava. In un romanzo una storia che fa presa deve poggiare su grandi sentimenti. Mi interessava il mondo degli immigrati e ho cercato notizie a largo raggio finché mi sono casualmente imbattuta in un libretto con la storia di un’immigrata italiana che mi ha conquistato- doveva diventare la storia di Maria Inez in cui ho fuso anche quella di Maria Barbella.

  


Come nasce invece Ann Bennett? Questo processo era stato così osceno- è tutto documentato- che l’associazione per i diritti delle donne, la NAWSA, prende sotto tutela la donna. Era la prima donna condannata alla pena capitale, la prima donna rinchiusa nella prigione di Sing Sing. Quindi prendono la donna sotto tutela per due ragioni, perché nel processo individuano una cosa ignobile, contro i principi della costituzione, e per salvare Maria Ines dalla pena capitale. Questa battaglia va al di là del caso singolo- difendendo Maria Ines difendono i loro principi.

    Dalla seconda metà dell’800 alcune università di alcuni stati americani accolgono finalmente alcune donne. Tuttavia, anche se riescono ad arrivare alla laurea, le donne non sono ammesse all’esame per esercitare la professione. Nella mia ricerca scopro che le primissime donne avvocato cominciano a collocarsi verso la fine degli anni ‘80 dell’800. Ecco allora l’idea di creare un personaggio verosimile, Ann Bennett, una delle prime donne avvocato: sintetizzo in questa figura una probabile realtà storica.

Come è riuscita a farle rivivere, a farle diventare delle vere persone? Fino a dove è la realtà dei fatti e dove inizia la finzione letteraria?

     I fatti sono tutti reali. Molti personaggi lo sono pure, il direttore del carcere di Sing Sing e la moglie, il sergente Joe Petrosino, il direttore della prigione Les Tombs. Ann Bennett, come ho detto, è verosimile. Probabilmente c’era e la incarno in questa donna. Non è una figura storica ma è credibile. D’altra parte la differenza tra la cronaca e il romanzo è raccontare la storia  e far palpitare il romanzo, non raccontare semplicemente la storia, ma far emergere i sentimenti. Io narro di esseri umani che con tutto il bagaglio di sentimenti affrontano la vita, narro dall’interno e la storia è la conseguenza.

Joe Petrosino

    Per farle diventare vere ho fatto un grosso lavoro di documentazione. Per esempio mi serviva conoscere l’ambiente di Little Italy nei piccoli dettagli e per quello mi sono fatta arrivare dei libri dall’America, ho dovuto studiare come si fa un processo- quella è stata la parte più difficile. Anche approfondire la storia del femminismo negli Stati Uniti ha richiesto un grosso lavoro.

    Ho avuto l’ispirazione per il romanzo agli inizi del 2000 e mi ci è voluto del tempo per essere pronta. D’altra parte bisogna conoscere i fatti, con un dettaglio puoi raccontare tante cose. A me piace fare ricerche e, quando mi sono sentita pronta, ho iniziato a scrivere il libro.

Nel romanzo constatiamo che, anche se la condizione femminile è più avanti di un passo negli Stati Uniti, se non altro per una maggiore presa di coscienza e per un movimento organizzato per i diritti delle donne, fondamentalmente è molto simile a quella italiana. Il matrimonio ad esempio: in entrambe le società è considerato essenziale per la donna. Non è forse così?

    Assolutamente sì. Nella lettera che la mamma di Ann le scrive è chiaro che la dignità sociale te la dà solo il matrimonio. Se non hai il marito a fianco, rientri nella categoria delle zitelle. Ann aveva già 26 anni. Era una mentalità diffusa come diffuso era guardare con ansia e apprensione il desiderio delle donne di avanzare nel piano dei diritti. Questo spiega perché questo caso, che riguardava un’immigrata, ha fatto tanto scalpore: nel momento che la NAWSA decide di tutelarlo era una battaglia di donne contro certi principi.

Abbiamo fatto molti passi avanti- pensiamo al termine spregiativo di ‘suffragette’ che era stato coniato per le donne che chiedevano il diritto di voto, quando anche l’uomo più ignorante poteva votare e loro no. Sono state donne che hanno versato lacrime e sangue, che hanno sperimentato la prigione. Certo la guerra ha inciso molto nell’emancipazione femminile. Non si poteva rimandare le donne a casa dopo che in tutti gli ambiti lavorativi avevano sostituito gli uomini che erano stati chiamati a combattere.


Non possiamo svelare molto, ma quando si è resa conto che, a fianco delle due donne protagoniste, ce n’era un’altra che avrebbe avuto un ruolo importantissimo perché sarebbe diventata il simbolo del coraggio?

    È vero, non possiamo svelare molto, è una figura che parte modestissima, incerta, insicura e diventerà la chiave portante della storia. È lei che mi ha suggerito il titolo, quando ho visto il cuore di questa donna, aperto all’amore, alla pietà, alla generosità. L’ho sempre avuta in mente. Sapevo i punti cruciali del romanzo e sapevo che lei avrebbe avuto questo ruolo. Nel mio canovaccio mentale è cresciuta di suo e io ho fatto questo percorso insieme a lei.

È il coraggio, forse, la dote più grande di tutte queste donne? Coraggio nell’affrontare la vita e sì, diciamolo, nell’affrontare anche gli uomini? Il sesso debole è invece il più forte?

     Il coraggio è quello che le accomuna, la solidarietà di donne fortunate verso la più fragile che non ha strumenti per difendersi. E poi il grande coraggio che ci vuole per andare avanti e lottare fino all’ultimo.

Mettiamo in conto anche il coraggio nell’affrontare gli uomini? Penso a quando Ann deve respingere a forza le avances di un uomo che non gradisce.

   Ann è una donna di rottura rispetto alla sua società. È una donna insolita, moderna, “di vedute aperte”, e il marito di Annabel ci mette tutta una carica sessista e pensa di potersi permettere certe libertà. Il coraggio di Ann è anche nell’entrare in un’aula di tribunale piena di uomini. Lei si batte contro la tendenza a identificare la donna che esce dagli schemi con la donna con cui ci si può prendere certe libertà.

 Due parole anche su tutte le altre grandi tematiche del libro, tutte molto attuali:

la Mano Nera.

    È la Mafia, chiamata Mano Nera per un periodo limitato di tempo, una società mafiosa formata da tante bande spesso una contro l’altra, manca ancora l’associazione di grande delinquenza. La Mano Nera vessava la comunità italiana ma si stava espandendo e andava a vessare anche altre persone. Era diffusa, allora, soprattutto a New York.


Alla Mano Nera si oppone la figura di Joe Petrosino, altamente stimato da Roosevelt, così incorruttibile che hanno dovuto ucciderlo.

La discriminazione contro gli italiani: che cosa aveva favorito la convinzione che geneticamente gli italiani fossero dei criminali?

   Lombroso è il responsabile per aver elaborato le teorie per dare giustificazione scientifica alla questione meridionale. I meridionali sono così perché ereditariamente hanno delle tare genetiche che si tramandano. Basava le sue teorie sullo studio dei cranii che mostravano la tendenza genetica a delinquere. Sono state tesi che hanno offerto una giustificazione al razzismo. Senza contare che emigrava la gente più povera e analfabeta che si prestava a questa interpretazione.

 È in attesa di “incontrare” un’altra figura femminile che le sarà di ispirazione? O l’ha già incontrata?

    Sto navigando a vista. Non lo so e non voglio dire nulla. Sono volubile e finché non decido che è il momento di raccontare una storia, non dico nulla. Ho in mente più storie, bisogna vedere quale di queste storie si farà narrare.


Carla Maria Russo, "Cuore di donna"

Ed. Piemme pagg.435, Euro 18,90

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lunedì 10 ottobre 2022

Carla Maria Russo, “Cuore di donna” ed. 2022

                                                             Casa Nostra. Qui Italia

           romanzo storico
         legal thriller

Carla Maria Russo, “Cuore di donna”

Ed. Piemme, pagg. 435, Euro 18,90

 

     Ricordatevi questi nomi:

     Maria Inez Cortese.

     Ann Bennett.

Vi sarà comunque impossibile dimenticarli, dopo aver letto “Cuore di donna” di Carla Maria Russo. Vi sarà impossibile dimenticare due donne di diversa provenienza, di diverso strato sociale, unite in una causa disperata che potrebbe finire con la morte di una delle due. Perché Maria Inez Cortese, rinchiusa nel carcere di massima sicurezza di Sing Sing, è stata condannata a morte su sedia elettrica per aver ucciso il marito  e Ann Bennett è l’avvocato della difesa nel processo di appello.

    E’ l’aprile del 1895 quando a Little Italy, New York, Maria Inez si libera dalle corde con cui il marito Cataldo Motta l’ha legata sul letto, lo segue nella locanda dove lui sta bevendo e poi? Il locandiere dice che Maria Inez ha sgozzato il marito con un coltello che aveva in mano. E’ l’unico testimone, sua moglie era in cucina e non ha visto nulla. Maria Inez non ricorda niente,  ma nega di avere avuto un coltello in mano. Veramente non c’era nessun altro presente? Come è possibile, a quell’ora del mattino?


   Sono due le storie raccontate in questo romanzo di Carla Maria Russo, molto bello e anche straordinariamente attuale. Da una parte la storia di Maria Inez, cresciuta in una famiglia adottiva con una madre rigida, anafettiva e ossessionata dal peccato, obbligata a sposare un uomo malvagio e violento che aveva dovuto seguire in America. Per Cataldo Motta le donne servivano soltanto ad una cosa (e lui le reclutava per quello, avviandole alla prostituzione e arricchendosi, sottovalutando di aver invaso il campo della Mano Nera a Little Italy) e sfruttava anche la moglie. Aveva raggiunto il limite della sopportazione, Maria Inez, e lo aveva ucciso? Poteva essere considerata un’autodifesa?

    Dall’altra parte c’è la storia di Ann Bennett con la sua caparbia volontà di riuscire in un campo precluso alle donne fino a quel momento. Per altri motivi anche la strada di Ann Bennett è stata tutta in salita dovendo lottare contro le idee tradizionali della madre, contraria agli studi in legge di Ann, contro i pregiudizi dei professori, lo scorno dei compagni di studio, il fallimento di una storia d’amore, l’impossibilità di essere assunta in uno studio legale- solo perché era una donna. E poi era venuta la richiesta- proprio perché era una donna- da parte dell’associazione femminile per il voto alle donne perché assumesse la difesa di Maria Inez: le scorrettezze del primo processo, insieme ai pregiudizi palesi del giudice, erano stati scandalosi.


    La narrativa ha un ritmo incalzante e coinvolgente- le due storie si alternano, si riuniscono, si intrecciano, da un racconto in terza persona si passa alla voce narrante di Maria Inez che ricostruisce la sua vita, si leggono articoli di giornale di tendenza diversa, si sta alzati la notte per studiare le carte del precedente processo con tutte le sue irregolarità insieme ad Ann Bennett, si entra a Sing Sing, ci si inginocchia in chiesa insieme a Rita, la moglie del locandiere tormentata da sensi di colpa, si leggono le lettere del ragazzo (ormai un uomo) che Maria Inez non aveva potuto sposare e che l’aveva seguita in America.

Sing Sing

   “Cuore di donna” è un romanzo di potenza straordinaria. È come se una voce ci raggiungesse da lontano, alta e chiara, per ricordarci le difficoltà di ogni genere che le donne hanno incontrato da sempre per affermarsi, per reclamare il loro diritto ad un ruolo che non le limitava ai fornelli e ai lavori cosiddetti femminili- era poi il diritto di usare la loro intelligenza. Non possiamo fare a meno di osservare quante di queste difficoltà perdurino ancora, quanti di questi comportamenti sessisti si riscontrino tutt’oggi, a più di un secolo di distanza. C’è altro ancora su cui riflettere in “Cuore di donna”, altro ancora che, mutatis mutandis, si può raffrontare alla realtà odierna- la discriminazione contro gli immigrati, ad esempio, perché ‘allora’ eravamo noi italiani ad essere invisi ad americani e irlandesi, a classificarci solo un poco sopra i neri.

   Un libro appassionato e appassionante. Un tassello nella storia dell’universo femminile. Da leggere.

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A breve pubblicherò l'intervista con la scrittrice