Voci da mondi diversi. Asia
il libro ritrovato
Anita
Nair, L’arte di dimenticare
Ed. Guanda, trad. Francesca Diano,
pagg. 367, Euro 18,00
Bangalore, India. Giri e Mira vanno ad
un ricevimento, insieme al figlio tredicenne. Giri si allontana senza salutare.
Scompare. Quando si fa vivo, chiede il divorzio. A Mira resta il carico di
provvedere ai due figli, nonché alla madre e alla nonna che vivono con lei.
Accetta di lavorare come segretaria del climatologo professor Krishnamurthy,
tornato in India dall’America perché sua figlia è stata vittima di un incidente:
la diciannovenne Smriti giace in coma. E’ l’incontro tra due persone che hanno
sofferto e devono ricominciare una nuova vita.
INTERVISTA
ad Anita Nair, autrice de L’arte di
dimenticare
Non resta più nulla sul terreno su cui è passato un ciclone. Il ciclone,
accennato in brevi pagine di un fittizio testo scientifico che ne spiega
l’evolversi e ripreso nella professione stessa di uno dei due protagonisti, è
la metafora impiegata dalla scrittrice indiana Anita Nair per gli eventi
drammatici di diversa natura che portano distruzione nella vita di una persona,
spazzando via il passato e tutto quanto si è costruito in una frazione di
secondo, sollevando nel suo turbine anche il futuro che ci si immaginava di
avere davanti, lasciando dietro di sé il nulla.
I due personaggi centrali del romanzo L’arte di dimenticare si trovano in una situazione del genere anche
se, in una scala oggettiva di gravità, la tragedia personale del professor
Krishnamurthy- Jak, come viene chiamato in America, o Kitcha, come lo chiama
ancora chi li ho ha conosciuto da bambino- è di gran lunga peggiore di quella
di Mira. Mira, una piacente donna sulla quarantina, deve affrontare un
inaspettato divorzio. Kitcha non riesce a capacitarsi che sua figlia giaccia
immobile in un letto, muta tranne per l’urlo che le esce di bocca quando non
vede il padre. Prima di poter ricostruire, dopo il passaggio di un ciclone,
bisogna liberare il terreno dai detriti. Sia Mira sia Kitcha si guardano
indietro, cercano di capire se ci fossero dei segni premonitori, in quale
maniera abbiano sbagliato, che cosa avrebbero potuto fare di diverso.
I capitoli in cui è l’uno o l’altra ad essere al centro della scena si
alternano, prima di confluire in un’unica narrazione che li riguarda entrambi.
La prospettiva si amplia, dunque, perché Mira è la donna che, per quanto
moderna, ha sempre vissuto secondo le tradizioni indiane, mentre Kitcha si è
trasferito in America, è un ‘indiano non residente’ , un indiano di ritorno, a
cavallo tra due mondi e due culture.
C’è un detto tamil che ben esprime la
norma di comportamento delle donne indiane: ‘Sia duro come un sasso o inutile
come un’erbaccia, un marito è un marito, ti piaccia o non ti piaccia’.
E Mira
non ha mai neppure pensato che il suo matrimonio potesse finire: si è adeguata a
quello che il marito voleva da lei, si è trasformata nella perfetta moglie
aziendale che lui desiderava. Così perfetta da trarne l’idea per un libro di
suggerimenti che le ha dato una certa notorietà. Ma come deve comportarsi ora
che è tornata ad essere una donna sola, con due figli e due donne anziane a
carico, per di più? Come gestire i corteggiamenti degli uomini che approfittano
del fatto che non ha più un marito accanto? Come trovare un lavoro dignitoso
che le permetta di vivere nella grande e antica casa lilla che apparteneva alla
sua famiglia? Una casa che è di per sé un personaggio nel libro, che
rappresenta il fascino ‘demodé’ della tradizione, di tutto ciò che è antico,
malandato per l’uso ma di valore proprio per quello. E’ significativo che
l’arrivista marito di Mira si innamori della casa insieme a lei, e che poi
voglia sbarazzarsi della casa, prima di abbandonare Mira.
I rovelli interiori del professore Krishnamurthy nascono nella stanza in
cui giace sua figlia. Ritornando indietro nel tempo, si chiede se lui e la
moglie non abbiano sottovalutato il dolore arrecato alla figlia dalla loro
separazione, se non abbia sbagliato a concedere a Smriti di frequentare
l’università in India invece che negli Stati Uniti.
Chi era Smriti, in realtà?
Per lui era la sua bambina, un po’ ribelle e caparbia. Per i giovani che Smriti
ha frequentato in India, era una ragazza dai liberi costumi. Che cosa poteva
aspettarsi in India una ragazza che andava in giro con tutta quella pelle scoperta
e quei piercing? Eppure dietro al suo aspetto provocante, c’era una ragazza
capace di dare tutta se stessa ad una causa giusta- è questo il tema scottante
del romanzo, che ci sarebbe piaciuto fosse più sviluppato, lo scandalo taciuto
degli aborti illegali quando il sesso del nascituro è femminile.
Il romanzo di Anita Nair inizia con scene tipiche del romanzo rosa, con
un ricevimento sul bordo di una piscina, chiacchiere leggere, spuntini e calici
di vino. Il ciclone non è ancora arrivato, ma ‘la ciclogenesi di una bufera
tropicale raramente si annuncia’. La furia dell’uragano coincide con le pagine
più drammatiche- quelle sulla clinica degli aborti clandestini e sulla sorte di
Smriti, la ragazza che osa indagare. E allora, usando ancora un’immagine del
testo sui cicloni, quella dei cirri che nascondono l’occhio del ciclone,
comprendiamo che niente è mai come appare, che c’è sempre una realtà nascosta
negli uomini e nelle cose.
Stilos ha intervistato Anita Nair,
presente al Salone del Libro di Torino.
Nel
romanzo Lei usa la metafora del ciclone, ne fa persino il lavoro di uno dei due
personaggi principali ed usa un testo scientifico fittizio per seguire lo
sviluppo delle sue fasi. E’ stato, in qualche maniera, lo tsunami del 2004 a darle lo spunto?
No: sono cresciuta a Madras, dove ogni anno c’era un ciclone e l’effetto
che provoca è del tutto imprevedibile. Così avviene per la vita delle persone
che può essere sconvolta indipendentemente da loro. Volevo mostrare che cosa
provoca un ciclone nella vita delle persone che non fanno nulla per
attirarselo. E poi come si possa vivere ugualmente dopo un ciclone: è qualcosa
che ci prende di sorpresa, ma poi ognuno reagisce e va avanti.
Le
tre donne del romanzo, Mira, Saro e Lily, sono tutte dei bei personaggi. Tutte
e tre si rivelano essere delle donne forti. Immagino che Lei abbia creato Mira
per prima: perché affiancarla con la madre e la nonna?
Non so…avevo bisogno di un contesto per Mira, per mostrare quale tipo di
educazione avesse ricevuto, in quale ambiente fosse cresciuta. E poi,
nonostante tutto quello che le succede, ha ancora una nonna e una madre: forse
non è felice, ma questo è importante per lei, avere un sostegno. Penso che,
invecchiando, è importante avere una compagnia femminile, perché solo le donne
possono dare un certo tipo di sostegno.
C’è
un solo personaggio femminile che mi è parso negativo, quello di Nina, la madre
di Smriti. E’ il suo essere cresciuta in un altro mondo, in America, che la
rende così senza cuore?
No, non penso che l’atteggiamento di
Nina abbia a che fare con gli Stati Uniti dove è cresciuta. Di recente ho
notato che ci sono molte donne che, dopo il divorzio, non hanno chiesto di
tenere i figli con sé. Ho ben tre esempi di madri che non hanno voluto i figli.
Come è possibile? Forse non vogliono più essere associate con la vita che si
sono lasciate alle spalle, ma mi riesce difficile capirlo. Nina è così.
Sia
Mira sia Kitcha cambiano sotto i colpi della vita, direi che diventano
migliori. L’effetto delle disgrazie è o di migliorare o di affondare le
persone?
C’è un detto famoso, ‘quello che non ti uccide ti rende più forte’. Sia
Mira sia Kitcha sono usciti da una catastrofe, eppure sopravvivono, o almeno,
tentano di sopravvivere. Questa è la chiave di lettura del romanzo: dobbiamo
imparare che tutto passa. Una catastrofe può azzoppare una persona, ma io non
volevo restassero degli storpi. Sia Mira sia Kitcha sono devastati da quanto è
successo, ma riescono entrambi a fare il passo seguente. Si domandano, ‘che
cosa facciamo?’, e agiscono. Molta gente si arresta e non si pone neppure la domanda di che cosa si
possa fare per reagire. La vita non finisce: è questa la lezione importante.
Qual
è il ruolo dei genitori? Fino a che punto sono responsabili di quello che
accade ai figli? Kitcha, ad esempio, è tormentato dall’idea che quanto è
successo a Smriti sia colpa sua…
Ho un figlio di 18 anni, e penso che
sia diverso se si ha un figlio o una figlia, perchè la violenza fisica è molto
peggio nel caso di una ragazza. Eppure sono sempre in ansia per lui, quando
esce la sera non sono tranquilla finché non è tornato. Ma è importante dare
fiducia ai figli, solo così loro possono restituirci la stessa fiducia. Se li
controlli, si ribellano. So che è facile dirlo, ma non si smette mai di essere
genitori, qualunque sia l’età dei figli. La responsabilità che ha un genitore è per sempre.
Quello
che accade a Smriti è dovuto anche ad una frattura enorme tra l’educazione
tradizionale e quella moderna. La tragedia avviene quando si incontrano persone
che hanno avuto educazioni diverse, o diverse culture si scontrano. E’
l’incapacità di comprendere gli altri la causa di tutto?
Sì, penso di
sì. Se cresci in India, cresci imparando come affrontare una situazione, come
vestirti, come cavalcare entrambi i mondi. E’ difficile imparare ad adattarsi
per qualcuno che viene da un altro paese.
Il
matrimonio e le donne: nel romanzo ci sono parecchie storie di matrimoni e la
maggior parte sono storie infelici, sia nel presente sia nel passato. L’unica
differenza è forse che in passato le donne accettavano tutto in silenzio? E
quanto comune era, in passato, il comportamento della zia di Kitcha, che si
ribella al marito?
Non era affatto comune, era una cosa molto insolita. E tuttavia conosco
molti casi di donne che hanno avuto il coraggio di prendere la loro vita nelle
loro mani. Molte donne si rassegnano accettando molte cose per insicurezza,
pensando di non avere altre scelte. Invece si può sempre fare una scelta.
Un
argomento molto importante è quello di cui si tratta verso la fine del romanzo-
l’aborto dei feti di sesso femminile e la mafia che gestisce gli aborti
clandestini. Accade ancora adesso, nel secondo millennio?
Sì, proprio una settimana fa è uscito un articolo dal titolo, Le figlie che abbiamo ucciso. Sì, anche oggi ogni giorno vengono uccise 2000
bambine. Avere una figlia femmina è sentito come un peso, ancora ai nostri
tempi, sembra impossibile. La mia segretaria mi raccontava di qualcuno che conosce
e che aspetta il terzo figlio. Questa donna vuole abortire se le diranno che
sarà una bambina. E no, non è che ha già due bambine e non ne vuole una terza.
Ha due maschietti e, se fosse un terzo maschietto, andrebbe bene. Ma non va
bene se è una bambina. E parliamo di Bangalore, non dell’India rurale. E’ anche
per questo che ho creato tre personaggi femminili. E’ importante: le donne
devono imparare a sopravvivere anche prima di nascere.
recensione e intervista sono state pubblicate dalla rivista Stilos