Voci da mondi diversi. Cina
Ci eravamo accordate per sentirci alle 13 ora italiana e 20 ora di Pechino. Ero emozionata, quando ho lanciato l’invito
a collegarsi su zoom a Karoline Chaoqun Kan. Non potevo non pensare al tempo in
cui sarebbe stato proibitivo o del tutto impossibile telefonare in Cina, al
costo delle telefonate interurbane in Italia, alle monetine che cadevano dentro
i telefoni nelle cabine rosse in Inghilterra, ai telegrammi inviati per
comunicare l’arrivo in qualche luogo lontano, alle lettere per raccontare le
nuove esperienze. E adesso lei ed io eravamo lì, a guardarci sullo schermo, a
parlare come se fossimo state a pochi chilometri di distanza.
Ha adottato un nome inglese, Karoline,
come pseudonimo, e ha scritto il suo romanzo in inglese. Si direbbe che subisce
il fascino della cultura inglese e americana. Ci parla di queste sue scelte? Ed
è stato tradotto in cinese il suo romanzo?
Ci sono parecchi motivi per cui ho scritto il mio romanzo
in inglese. Perché era più facile così. E non voglio dire che scrivere in
inglese fosse più facile, ma, siccome avevo lavorato per giornali di lingua
inglese e ho conoscenze nell’ambiente dell’editoria, mi sarebbe stato più
semplice pubblicare il mio libro se fosse stato scritto in inglese che non
cercare un editore cinese. È una questione di mercato, a parlare in sincerità.
Ho usato un nome inglese perché, al momento in cui dovevo presentare la mia proposta,
sarebbe stato più agevole per gli editori dare un’occhiata a quello che avevo
già scritto in inglese con questo nome- non avrei avuto questo vantaggio con un
editore cinese. Avevo in mente un pubblico per questo mio libro, volevo connettere
la Cina con il mondo fuori della Cina. I lettori in Cina sarebbero stati
diversi e avrei dovuto scrivere un altro tipo di romanzo, con altri personaggi.
Invece io volevo scrivere di gente normale, volevo una finestra che permettesse
a chi è ‘fuori’ di dare un’occhiata ‘dentro’ e venire a conoscere i cinesi e la
loro storia.
No, non è stato tradotto in cinese. Pensavo che lo
avrei tradotto, poi, nel 2017, quando ho firmato il contratto per la
pubblicazione, i rapporti fra la Cina e gli Stati Uniti di Trump non erano
facili e dopo sono ancora peggiorati. Di qualunque libro pubblicato negli Stati
Uniti non si può parlare in Cina, sono del tutto banditi, e la situazione
diventa sempre più difficile. Trattando certi argomenti non avevo intenzione di
fare della politica. Ho scritto di certi fatti perché sono stati importanti per
la mia generazione e per la mia famiglia, volevo chiarire i fraintendimenti. Ma
è complicato: la storia contemporanea della Cina può essere discussa tra
quattro mura ma, parlarne in una lingua straniera, rendendola argomento per una
discussione tra stranieri, rende tutto più difficile e per questo sarà ancora
più difficile pubblicarlo qui.
Non ci saranno dei miglioramenti in
questa situazione, ora che Biden è diventato presidente degli Stati Uniti?
Lo speriamo tutti, lo spera la gente, lo sperano quelli
come me o i miei colleghi o gli artisti: vogliamo un ponte per comunicare, sarà
graduale ma speriamo che ci sia un progresso nella comunicazione.
Quanto al suo nome inglese, Karoline era
un nome che aveva già adottato quando era una studentessa, vero?
Sì. A me piace molto anche il mio nome cinese, è un nome
che aveva scelto per me mio nonno e ha un bel significato, ‘fuori dal coro’.
Normalmente tutti mi chiamano con il mio nome cinese ma, come ho detto, era più
facile collegare il nome Karoline con altre cose che avevo scritto, articoli di
giornale, non fiction, reportage.
L’inizio del romanzo ci porta subito ad
una domanda che è sia personale sia generale: secondo la politica del figlio
unico, Lei non dovrebbe neppure essere nata e sappiamo che un numero enorme di
bambine è stato ucciso. Si è sentita privilegiata nel sapere quello che ha
passato sua madre per metterla al mondo? Sono consapevoli, adesso, i cinesi,
della tragedia dell’infanticidio? Si è allentata la legge al proposito? Tre
domande in una…
Definitivamente sì, sono stata molto
fortunata, pensando a tutte le bambine uccise, a quelle tenute in poco conto, a
quelle che non hanno avuto l’opportunità di andare a scuola. Sono stata
fortunata ed è bello sapere la storia di mia madre e dei sacrifici che ha fatto
per avermi, anche se è difficile da capire. E poi penso di essere fortunata
anche perché la carriera che ho scelto, l’istruzione che ho potuto avere, mi
hanno reso capace di scrivere la sua storia. Mia madre ha vissuto questa storia
ma non ha avuto l’opportunità di farla sentire. Io ho questo grande privilegio:
il mio lavoro mi rende in grado di far sentire la mia storia.
Ci sono sempre più discussioni su questo punto, sul
guardare indietro. Ci sono articoli e dibattiti pubblici, e tuttavia niente è
riconosciuto ufficialmente. Si discute su che cosa si potesse fare di meglio.
Oggi le coppie possono avere due bambini. Ufficialmente questo è bene per la
Cina, ma ci sono anche più movimenti femministi, molte giovani donne si rendono
conto della disuguaglianza, sempre più donne aderiscono al movimento Me Too…
Ho appena letto di questo movimento, Me
Too, leggendo “Black Box” di Ito Shiori, il libro che contiene la sua denuncia
della violenza sulle donne in Giappone.
Quello che succede in Giappone succede anche qui. Tutte
le difficoltà di cui parla Ito Shiori, la sua lotta per avere giustizia nel suo
caso di stupro- sono tutte cose che avvengono anche in Cina. Qui come in
Giappone c’è soprattutto la vergogna a denunciare di essere state vittime di
violenza sessuale.
Ritornando alla domanda del controllo
delle nascite, che succede se una coppia ha tre figli?
Per fortuna la situazione non è più così estrema come
trenta, quaranta anni fa, non c’è più l’aborto forzato. Si deve pagare però una
tassa al governo, ma ugualmente, per fortuna, non ci sono più soluzioni brutali
come quando sono nata io. E poi c’è un vero e proprio paradosso: si infrange la
legge se si hanno più di due figli, ma il livello delle nascite è così basso
che il governo è preoccupato. In due generazioni è cambiato tutto. Il governo
vorrebbe incoraggiare un aumento delle nascite ma solo nella classe media e non
nelle campagne. E sappiamo quanto sia difficile la vita nelle città e quindi è
proprio nelle città che le coppie si limitano ad avere due bambini.
Lei racconta di quanto si sia stupita
per il muro di silenzio intorno ai fatti di piazza Tien an Men. Di recente, in
un libro di uno scrittore cinese, un personaggio non sapeva neppure che cosa
fosse la Rivoluzione Culturale. Sta succedendo quello che era già successo al
tempo di Mao, cioè la rimozione del passato, il voler far dimenticare alla
gente quello che è successo?
Ci sono due diverse narrazioni per gli avvenimenti del
passato. Anche in Internet, quello che è successo nel 1989 è una storia
diversa. Nelle scuole si parla della Rivoluzione Culturale in maniera diversa.
Si parla di errori ma anche di successi: è questa la versione ufficiale. La
stessa cosa, della doppia narrativa, è vera per quanto succede adesso e per
quanto è successo lo scorso anno. Se glielo chiedete, la gente risponde “Sì, mi
ricordo”, ma poi la loro storia è differente da quella che si racconta fuori
della Cina. È così anche per quello che viene riportato dei rapporti tra Cina e
USA- è come ci fossero due binari e non c’è modo per risolvere il problema.
Mi sono stupita della proibizione di
praticare il Falun Gong: non si tratta di esercizi ginnici? Che cosa c’è di
così pericoloso?
È giudicato pericoloso perché ci sono tante persone in questa organizzazione e c’è sempre
il pericolo che ci sia un leader che prenda la direttiva. Sì, è vero che i più,
come anche mio nonno, si limitavano a praticare il Falun Gong come una sorta
di esercizi di ginnastica. Tuttavia c’era anche una filosofia collegata con il
movimento, faceva parte di tutte quelle religioni o filosofie a cui ci fu un
ritorno negli anni ‘90, e il governo ha paura di questo, ha paura di perdere il
controllo.
È che si vuole impedire alla gente di
pensare, di avere idee?
Non è esatto: devono pensare ma solo al partito
comunista. Essenzialmente tutto deve essere sotto controllo.
Lei spiega molto bene il sistema dell’hukou e del perché un hukou di città sia preferibile. È cambiato
qualcosa dopo la pandemia? Voglio dire, c’è stato un ritorno verso città più
piccole o la campagna, come è successo in Italia o in altre città europee?
No, non penso. Forse si è verificato un ritorno
alle campagne nel periodo peggiore della pandemia, lo scorso anno. Ma ora
l’economia cinese ha ripreso in grande e nessuno lascerebbe le opportunità
delle città.
Mi ha colpito il controllo del Partito
sulla vita privata dei cittadini, in particolare sulla vita sentimentale dei
giovani. Nonostante i grandi cambiamenti che ci sono stati negli ultimi venti o
trent’anni, sembra che la Cina sia ancora molto lontana dalla libertà come la
intendiamo noi.
Quando, nel mio libro, parlo delle limitazioni alla
libertà nei rapporti tra le coppiette- queste limitazioni sono dovute per lo
più alla tradizione, alla cultura cinese. I genitori e gli insegnanti
preferiscono che non si instaurino dei rapporti tra i giovani perché questi
influenzerebbero i risultati scolastici o accademici- lo studio è molto
importante. E tuttavia anche questo sta cambiando, lo vedo nei ragazzi di oggi
che hanno genitori più giovani che accettano questi legami tra adolescenti e
c’è anche più libertà nei college.
Ed è ancora in vigore quel periodo di
tempo obbligatorio in una sorta di addestramento pseudo-militare per tutti gli
studenti che iniziano l’università?
Sì. È ritenuto necessario ed è obbligatorio,
perché insegna la disciplina- c’è un allenamento piuttosto duro-, perché serve
dal punto di vista ideologico e perché un po’ di durezza e di difficoltà sono
educative, piacciono anche ai genitori.
Un esempio della mancanza di libertà è
la proibizione di lavorare come giornalista per una testata straniera, di cui Lei
fa cenno riferendosi al suo caso. Ho pensato al ‘double-talk’ di Orwell quando
Lei scrive che deve definirsi ‘ricercatrice’ e non ‘giornalista’.
Certamente questa è una legge che deve cambiare. In
passato però era ancora peggio. Una volta il governo decideva anche quali cinesi potessero lavorare per quale giornale…
Sta lavorando ad un altro romanzo?
Non proprio, non ancora, però so che mi piacerebbe
scrivere della Cina rurale, della Cina che finora ha trovato poco spazio nei
romanzi.
la recensione di "Sotto cieli rossi" di Karoline Kan è un post del mese di febbraio, sotto l'etichetta "Voci da mondi diversi. Cina"
recensione e intervista saranno pubblicate su www.stradanove.it