mercoledì 31 marzo 2021

Shiori Itō, “Black Box” ed. 2021

                                           Voci da mondi diversi. Giappone


Shiori Itō, “Black Box”

Ed. Inari, trad. A. Ozumi, Euro 18,00

   Black Box, come la scatola nera, il dispositivo elettronico che permette di registrare le informazioni riguardanti un mezzo di trasporto e il comportamento del guidatore- è questo il titolo del libro della scrittrice e giornalista giapponese Itō Shiori e, mentre procediamo nella lettura, ci rendiamo conto del doppio significato di questo titolo. Se ci fosse stata una scatola nera, sarebbe stato facile dimostrare quanto era accaduto in quella scatola nera- la stanza chiusa di un albergo- in cui si era consumato il crimine.

    Era il 2015 quando Itō Shiori aveva accettato un invito a cena da parte di Noriyuki Yamaguchi, giornalista televisivo molto noto e biografo dell’allora primo ministro Shinzo Abe, per discutere con lui di una possibile proposta di lavoro. Lui l’aveva fatta bere, lei si era risvegliata in una stanza d’albergo- lui l’aveva violentata. Forse Itō Shiori sarebbe dovuta andare subito a fare la denuncia, invece era andata in un ambulatorio ginecologico per farsi dare la pillola del giorno dopo. Passeranno cinque giorni prima che vada dalla polizia- ed è la penosa trafila per essere ascoltata e per ottenere giustizia che Ito Shiori racconta in “Black Box”.


    Nella prima parte del libro Itō Shiori ci parla di sé e della sua vita ‘prima’- ne viene fuori il ritratto di una ragazza brillante e ambiziosa, piena di iniziative, con esperienze di viaggi e soggiorni di studio e lavoro all’estero. Non è certamente una sprovveduta quella che si è recata all’appuntamento con Yamaguchi. E, ricostruendo i fatti, le appare chiaro che il giornalista debba averle fatto assumere la ‘droga dello stupro’ o, più semplicemente, abbia messo un sonnifero nel suo bicchiere. Solo quello può spiegare la sua perdita di coscienza comprovata dalla videocamera all’ingresso dell’albergo che la mostrano trascinata verso l’ascensore da Yagamuchi.

    Non ci sono leggi recenti in Giappone che riguardino gli stupri, la parola stessa viene evitata con eufemismi, nella sua denuncia Itō Shiori si scontra con reazioni di cui purtroppo conosciamo molto bene i meccanismi- uguali anche da noi. Leggiamo delle domande umilianti a cui deve rispondere, del sospetto accusatorio che lei fosse consenziente, della difficoltà ad intentare una causa per mancanza di testimoni, della paura di ritorsioni che la spingono a chiedere ospitalità ad una amica, della vergogna, non sua, ma della sorella e dei genitori che le chiedono di non dire il suo cognome.


    E invece per Itō Shiori questa diventa una battaglia da combattere per tutte le donne, perché sua sorella non debba passare attraverso quello che sta soffrendo lei, il suo libro è come una bandiera da sventolare perché la parola di un uomo smetta di essere più valida di quella di una donna, perché vengano aperti centri di supporto dove le donne possano rivolgersi subito ‘dopo’ e ricevere cure fisiche e psicologiche adeguate. Perché Itō Shiori parla molto di questo, di come sia stato un trauma profondo, impossibile da dimenticare, di come le abbia instillato la paura di essere avvicinata da un uomo- nelle ricerche da lei fatte non sono pochi i casi delle ragazze che si sono suicidate. Ed è significativo che, in una graduatoria del numero di denunce per stupro, al primo posto sia la Svezia e all’ultimo sia il Giappone con un ridicolo 1%. Non vuol dire che ci sono più uomini pervertiti in Svezia e meno in Giappone. In Giappone si tace, in Svezia la polizia dà seguito alle denunce.

     In Giappone il mandato di arresto per Yamaguchi fu ritirato all’ultimo momento e il suo caso tolto dal capo della polizia che si occupava delle indagini- chi c’era di così potente alle spalle di Yamaguchi? Ad essere sinceri pensavo che una cosa del genere non potesse accadere nell’onorevole Giappone.


     Non è un romanzo, ma è un libro sconvolgente che sia le donne sia gli uomini dovrebbero leggere- peccato che non saranno certo i ‘possibili’ stupratori’ a leggerlo.

  Nel 2017 Itō Shiori è diventata ‘il volto’ del movimento Me Too, contro le molestie sessuali e le violenze sulle donne.

  Nel 2019 Itō Shiori ha vinto la causa contro Yamaguchi.

  Nel 2020 il governo giapponese ha annunciato una serie di riforme per ridurre le violenze sessuali nel paese.

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lunedì 29 marzo 2021

Alessia Gazzola, “Un tè a Chaverton House” ed. 2021

                                                                   Casa Nostra. Qui Italia

 cento sfumature di giallo

Alessia Gazzola, “Un tè a Chaverton House”

Ed. Garzanti, pagg. 192, Euro 16,40

     Sono allergica ai romanzi rosa. Eppure sono una fedelissima lettrice dei romanzi di Alessia Gazzola per cui sono disposta a rivedere le mie idee al proposito, cercando delle attenuanti per me stessa e per il piacere che provo nella lettura dei suoi libri. Del tipo- sì, sono rosa, sì, la protagonista è sempre una giovane donna alle prese con i problemi del lavoro e del cuore, sì, c’è sempre anche un uomo dal fascino scontato, e però

   Ecco, il perché mi piacciono è in questo ‘però’. Però sono romanzi intelligenti, la trama ha un accattivante risvolto mystery o ‘giallo’ che incuriosisce e spesso ha qualcosa da insegnare, abbonda di riferimenti culturali (ci sono frequenti rimandi a scrittrici inglesi del passato che oggi sarebbero classificate come ‘rosa’ e che sono entrate di buon diritto nella storia della letteratura, come Jane Austen, Charlotte Bronte, George Eliot). E poi le sue pagine sono percorse da un filo di humour. E hanno garbo, sono estremamente gradevoli. È chiaro perché amo i libri di Alessia Gazzola?

   La scrittrice stessa dice di aver scritto “Un tè a Chaverton House” in trenta giorni durante il lockdown dello scorso anno. Mentre ognuno di noi metteva in atto ogni possibile modo per far fronte psicologicamente alla chiusura difensiva e alle notizie del mondo ‘di fuori’ che si riassumevano nel numero giornaliero di morti, la scrittura offriva una via di fuga ad Alessia Gazzola. Così come la lettura del suo libro ne offre una a noi, un anno dopo (e ancora in lockdown).

   Si chiama Angelica Bentivegna la protagonista di “Un tè a Chaverton House”. Ventisette anni, insegnante che non è più certa di voler insegnare dopo una spiacevole esperienza a scuola, lavorante in un panificio finché questo ha chiuso, una storia d’amore finita, una famiglia composta da padre e madre con lavori di successo e due fratelli gemelli che lei chiama gli ‘Splendidi Splendenti’, e questo dice tutto. In maniera del tutto casuale la prozia di Angelica viene a sapere che suo padre, il bisnonno di Angelica che lei aveva sempre creduto fosse morto poco dopo lo sbarco degli Alleati in Sicilia, era invece stato fatto prigioniero, portato in Inghilterra e da lì non era mai tornato. Come aveva potuto fare una cosa del genere alle sue figlie? Una sua lettera, che non arriva facilmente nelle mani di Angelica (c’è tutta una storia dietro), porta l’indirizzo del mittente come residente nel Dorset, a Chaverton House.


    E così Angelica parte per l’Inghilterra. Non vi racconterò che cosa le succede laggiù, solo un accenno al giovane uomo italiano (naturalmente attraente anche se zoppica- versione rivista e corretta di Lord Rochester con una moglie che però non è pazza) che gestisce gli affari di Chaverton House. Le ricerche per sapere di più sul bisnonno si intrecciano con le esperienze quotidiane di Angelica, sempre raccontate con brio, con un linguaggio mai banale.

    Ragione e sentimento (proprio come nel romanzo di Jane Austen e, a proposito, le spiegazioni letterarie di Angelica ai turisti in visita alla magione sono dei gioiellini), amore e cornetti golosi, difficili rapporti tra mariti e mogli nel passato e nel presente, giallo e rosa, un personaggio che parla con la voce di tutte le altre protagoniste dei romanzi di Alessia Gazzola, che condivide con loro molte qualità e difetti, che è spontanea e genuina come loro e che finiamo per amare quanto abbiamo amato Alice e Costanza.


   Sullo sfondo la dolcezza del paesaggio inglese e la bellezza di una casa che nel nostro immaginario è quella di Downton Abbey (nel romanzo Angelica deve accompagnare i visitatori sulle tracce dei protagonisti de “L’orfana di Mallards Park”, una serie televisiva di grande successo) o quella di “Quel che resta del giorno”- ci portano fuori dalle mura domestiche in cui siamo rinchiusi, rendono il romanzo ancora più godibile.

la recensione sarà pubblicata su www.stradanove.it

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domenica 28 marzo 2021

Richard Russo, “Le conseguenze” ed. 2021

                                   Voci da mondi diversi. Stati Uniti d'America

                mystery

Richard Russo, “Le conseguenze”

Ed. Neri Pozza, trad. Ada Arduini, pagg. 382, Euro 19,00

 

   “Tutti per uno, uno per tutti”- da sempre il motto dei tre moschettieri del romanzo di Dumas è il motto che suggella le amicizie giovanili. Diventa anche il motto di Lincoln, Teddy e Mickey, quando si conoscono al college, il Minerva, nel Connecticut. Hanno provenienze diverse e famiglie diverse alle spalle.

 Lincoln viene dall’Arizona. Così bello da essere soprannominato ‘Face Man’. Un padre che crede di essere dio in terra, una madre che ha rinunciato alla sua personalità.

    Teddy, i suoi genitori sono due insegnanti che si occupano più dei loro studenti che del figlio. Ha problemi di salute non definiti, pensa di iscriversi alla facoltà di teologia.

    Mickey. Grosso come un armadio, di origini italiane. A lui interessa solo la musica.

     E poi c’è un quarto moschettiere, una ragazza di cui tutti e tre sono innamorati: Jacy che è molto ricca, mentre loro tre lavorano come camerieri per mantenersi al college. Jacy è Jacy, irruente, estroversa. E, in realtà (forse questo è un difetto del romanzo) non capiamo che cosa abbia di così straordinario, a parte l’essere bella, per essere l’oggetto dell’amore dei tre amici.


     La narrativa si sposta tra passato e presente. Nel passato la data d’inizio è cruciale: il primo dicembre 1969 i tre amici sono incollati allo schermo televisivo in attesa di sapere la loro sorte. Viene trasmessa in diretta la prima lotteria nazionale di reclutamento dei soldati che devono andare a combattere in Vietnam. È come essere in attesa della condanna a morte, nessuno dei tre crede nelle motivazioni della guerra, l’unica possibile alternativa è passare il confine e andare in Canada, perché disertare significa finire in prigione. Uno di loro è sfortunato, è stata estratta la sua data di nascita, suo padre, che ha combattuto nella Seconda Guerra Mondiale, non accetterebbe mai che si sottraesse- chi andrebbe a morire al suo posto, in tal caso?


     Nel presente i tre amici, che hanno ormai superato la sessantina, si incontrano sull’isola di Martha’s Vineyard dove Lincoln possiede la casa che era di sua madre. Abbiamo già letto storie di donne che si ritrovano dopo anni in cui non si sono viste e rivivono, con stupore e rimpianto, gli anni della gioventù. È più raro leggere di uomini e Richard Russo ha un tocco speciale nel parlarci di questa amicizia al maschile, nell’allacciare presente e passato, nell’implicare che anche la questione della bella casa che deve essere venduta è simbolicamente connessa con il problema che li ha assillati per più di quarant’anni: sbarazzarsi della casa significa anche accantonare per sempre il mistero della scomparsa di Jacy.

    Jacy se n’era andata di mattina presto, il lunedì dell’ultimo fine settimana che avevano passato insieme prima della laurea, nel 1971, nella casa sull’isola. Ed era scomparsa. Nessuno ne aveva saputo più nulla, neppure il fidanzato che lei, peraltro, forse non avrebbe sposato- lo aveva detto a Teddy.

    “Le conseguenze” è un romanzo difficile da definire. È, prima di tutto, una storia di amicizia tra uomini che, paradossalmente, piuttosto che essere divisi, sono legati tra di loro dal fatto di essere innamorati della stessa ragazza, anche se, come riconosceranno alla fine quando tutto sarà venuto alla luce, non la conoscevano.  “Ma non conoscevamo nemmeno noi stessi”, aveva aggiunto Mickey. Perché i giovani degli anni ‘70 si trovano a fronteggiare grandi cambiamenti, a dover prendere decisioni riguardo ad una guerra di cui non capiscono il significato, esaltati dai ritmi di una nuova musica, dalla liberazione sessuale, da un diffuso consumo di droghe. E sul quadro di questa epoca, confrontato con il presente della resa dei conti in cui ognuno dei tre soppesa che cosa abbia ottenuto dalla vita, famiglia, ricchezza, successo, frustrazioni, si inserisce il filone del mystery, quello della scomparsa di Jacy, la grande assente sempre presente.

   Un romanzo ben scritto, ma che non riesce a soddisfare interamente. Per lo stile narrativo che lascia poco spazio all’immaginazione del lettore e risulta alla lunga stancante, per l’eccessiva elusività dell’unico personaggio femminile importante che neppure noi, come i tre moschettieri, riusciamo a conoscere e per la perplessità che suscitano le rivelazioni melodrammatiche che vengono fatte su di lei.

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sabato 27 marzo 2021

Karoline Chaoqun Kan, "Sotto cieli rossi" Intervista

                               Voci da mondi diversi. Cina

     


   Ci eravamo accordate per sentirci alle 13 ora italiana e 20 ora di Pechino. Ero emozionata, quando ho lanciato l’invito a collegarsi su zoom a Karoline Chaoqun Kan. Non potevo non pensare al tempo in cui sarebbe stato proibitivo o del tutto impossibile telefonare in Cina, al costo delle telefonate interurbane in Italia, alle monetine che cadevano dentro i telefoni nelle cabine rosse in Inghilterra, ai telegrammi inviati per comunicare l’arrivo in qualche luogo lontano, alle lettere per raccontare le nuove esperienze. E adesso lei ed io eravamo lì, a guardarci sullo schermo, a parlare come se fossimo state a pochi chilometri di distanza.

Ha adottato un nome inglese, Karoline, come pseudonimo, e ha scritto il suo romanzo in inglese. Si direbbe che subisce il fascino della cultura inglese e americana. Ci parla di queste sue scelte? Ed è stato tradotto in cinese il suo romanzo?

   Ci sono parecchi motivi per cui ho scritto il mio romanzo in inglese. Perché era più facile così. E non voglio dire che scrivere in inglese fosse più facile, ma, siccome avevo lavorato per giornali di lingua inglese e ho conoscenze nell’ambiente dell’editoria, mi sarebbe stato più semplice pubblicare il mio libro se fosse stato scritto in inglese che non cercare un editore cinese. È una questione di mercato, a parlare in sincerità. Ho usato un nome inglese perché, al momento in cui dovevo presentare la mia proposta, sarebbe stato più agevole per gli editori dare un’occhiata a quello che avevo già scritto in inglese con questo nome- non avrei avuto questo vantaggio con un editore cinese. Avevo in mente un pubblico per questo mio libro, volevo connettere la Cina con il mondo fuori della Cina. I lettori in Cina sarebbero stati diversi e avrei dovuto scrivere un altro tipo di romanzo, con altri personaggi. Invece io volevo scrivere di gente normale, volevo una finestra che permettesse a chi è ‘fuori’ di dare un’occhiata ‘dentro’ e venire a conoscere i cinesi e la loro storia.


    No, non è stato tradotto in cinese. Pensavo che lo avrei tradotto, poi, nel 2017, quando ho firmato il contratto per la pubblicazione, i rapporti fra la Cina e gli Stati Uniti di Trump non erano facili e dopo sono ancora peggiorati. Di qualunque libro pubblicato negli Stati Uniti non si può parlare in Cina, sono del tutto banditi, e la situazione diventa sempre più difficile. Trattando certi argomenti non avevo intenzione di fare della politica. Ho scritto di certi fatti perché sono stati importanti per la mia generazione e per la mia famiglia, volevo chiarire i fraintendimenti. Ma è complicato: la storia contemporanea della Cina può essere discussa tra quattro mura ma, parlarne in una lingua straniera, rendendola argomento per una discussione tra stranieri, rende tutto più difficile e per questo sarà ancora più difficile pubblicarlo qui.

Non ci saranno dei miglioramenti in questa situazione, ora che Biden è diventato presidente degli Stati Uniti?

      Lo speriamo tutti, lo spera la gente, lo sperano quelli come me o i miei colleghi o gli artisti: vogliamo un ponte per comunicare, sarà graduale ma speriamo che ci sia un progresso nella comunicazione.

Quanto al suo nome inglese, Karoline era un nome che aveva già adottato quando era una studentessa, vero?

      Sì. A me piace molto anche il mio nome cinese, è un nome che aveva scelto per me mio nonno e ha un bel significato, ‘fuori dal coro’. Normalmente tutti mi chiamano con il mio nome cinese ma, come ho detto, era più facile collegare il nome Karoline con altre cose che avevo scritto, articoli di giornale, non fiction, reportage.

L’inizio del romanzo ci porta subito ad una domanda che è sia personale sia generale: secondo la politica del figlio unico, Lei non dovrebbe neppure essere nata e sappiamo che un numero enorme di bambine è stato ucciso. Si è sentita privilegiata nel sapere quello che ha passato sua madre per metterla al mondo? Sono consapevoli, adesso, i cinesi, della tragedia dell’infanticidio? Si è allentata la legge al proposito? Tre domande in una…

   Definitivamente sì, sono stata molto fortunata, pensando a tutte le bambine uccise, a quelle tenute in poco conto, a quelle che non hanno avuto l’opportunità di andare a scuola. Sono stata fortunata ed è bello sapere la storia di mia madre e dei sacrifici che ha fatto per avermi, anche se è difficile da capire. E poi penso di essere fortunata anche perché la carriera che ho scelto, l’istruzione che ho potuto avere, mi hanno reso capace di scrivere la sua storia. Mia madre ha vissuto questa storia ma non ha avuto l’opportunità di farla sentire. Io ho questo grande privilegio: il mio lavoro mi rende in grado di far sentire la mia storia.


     Ci sono sempre più discussioni su questo punto, sul guardare indietro. Ci sono articoli e dibattiti pubblici, e tuttavia niente è riconosciuto ufficialmente. Si discute su che cosa si potesse fare di meglio. Oggi le coppie possono avere due bambini. Ufficialmente questo è bene per la Cina, ma ci sono anche più movimenti femministi, molte giovani donne si rendono conto della disuguaglianza, sempre più donne aderiscono al movimento Me Too…

Ho appena letto di questo movimento, Me Too, leggendo “Black Box” di Ito Shiori, il libro che contiene la sua denuncia della violenza sulle donne in Giappone.

     Quello che succede in Giappone succede anche qui. Tutte le difficoltà di cui parla Ito Shiori, la sua lotta per avere giustizia nel suo caso di stupro- sono tutte cose che avvengono anche in Cina. Qui come in Giappone c’è soprattutto la vergogna a denunciare di essere state vittime di violenza sessuale.

Ritornando alla domanda del controllo delle nascite, che succede se una coppia ha tre figli?

    Per fortuna la situazione non è più così estrema come trenta, quaranta anni fa, non c’è più l’aborto forzato. Si deve pagare però una tassa al governo, ma ugualmente, per fortuna, non ci sono più soluzioni brutali come quando sono nata io. E poi c’è un vero e proprio paradosso: si infrange la legge se si hanno più di due figli, ma il livello delle nascite è così basso che il governo è preoccupato. In due generazioni è cambiato tutto. Il governo vorrebbe incoraggiare un aumento delle nascite ma solo nella classe media e non nelle campagne. E sappiamo quanto sia difficile la vita nelle città e quindi è proprio nelle città che le coppie si limitano ad avere due bambini.

Lei racconta di quanto si sia stupita per il muro di silenzio intorno ai fatti di piazza Tien an Men. Di recente, in un libro di uno scrittore cinese, un personaggio non sapeva neppure che cosa fosse la Rivoluzione Culturale. Sta succedendo quello che era già successo al tempo di Mao, cioè la rimozione del passato, il voler far dimenticare alla gente quello che è successo?

     Ci sono due diverse narrazioni per gli avvenimenti del passato. Anche in Internet, quello che è successo nel 1989 è una storia diversa. Nelle scuole si parla della Rivoluzione Culturale in maniera diversa. Si parla di errori ma anche di successi: è questa la versione ufficiale. La stessa cosa, della doppia narrativa, è vera per quanto succede adesso e per quanto è successo lo scorso anno. Se glielo chiedete, la gente risponde “Sì, mi ricordo”, ma poi la loro storia è differente da quella che si racconta fuori della Cina. È così anche per quello che viene riportato dei rapporti tra Cina e USA- è come ci fossero due binari e non c’è modo per risolvere il problema.

Mi sono stupita della proibizione di praticare il Falun Gong: non si tratta di esercizi ginnici? Che cosa c’è di così pericoloso?

   È giudicato pericoloso perché ci sono tante persone in questa organizzazione e c’è sempre il pericolo che ci sia un leader che prenda la direttiva. Sì, è vero che i più, come anche mio nonno, si limitavano a praticare il Falun Gong come una sorta di esercizi di ginnastica. Tuttavia c’era anche una filosofia collegata con il movimento, faceva parte di tutte quelle religioni o filosofie a cui ci fu un ritorno negli anni ‘90, e il governo ha paura di questo, ha paura di perdere il controllo.

È che si vuole impedire alla gente di pensare, di avere idee?

    Non è esatto: devono pensare ma solo al partito comunista. Essenzialmente tutto deve essere sotto controllo.

Lei spiega molto bene il sistema dell’hukou e del perché un hukou di città sia preferibile. È cambiato qualcosa dopo la pandemia? Voglio dire, c’è stato un ritorno verso città più piccole o la campagna, come è successo in Italia o in altre città europee?

   No, non penso. Forse si è verificato un ritorno alle campagne nel periodo peggiore della pandemia, lo scorso anno. Ma ora l’economia cinese ha ripreso in grande e nessuno lascerebbe le opportunità delle città.


Mi ha colpito il controllo del Partito sulla vita privata dei cittadini, in particolare sulla vita sentimentale dei giovani. Nonostante i grandi cambiamenti che ci sono stati negli ultimi venti o trent’anni, sembra che la Cina sia ancora molto lontana dalla libertà come la intendiamo noi.

     Quando, nel mio libro, parlo delle limitazioni alla libertà nei rapporti tra le coppiette- queste limitazioni sono dovute per lo più alla tradizione, alla cultura cinese. I genitori e gli insegnanti preferiscono che non si instaurino dei rapporti tra i giovani perché questi influenzerebbero i risultati scolastici o accademici- lo studio è molto importante. E tuttavia anche questo sta cambiando, lo vedo nei ragazzi di oggi che hanno genitori più giovani che accettano questi legami tra adolescenti e c’è anche più libertà nei college.

Ed è ancora in vigore quel periodo di tempo obbligatorio in una sorta di addestramento pseudo-militare per tutti gli studenti che iniziano l’università?

    Sì. È ritenuto necessario ed è obbligatorio, perché insegna la disciplina- c’è un allenamento piuttosto duro-, perché serve dal punto di vista ideologico e perché un po’ di durezza e di difficoltà sono educative, piacciono anche ai genitori.

Un esempio della mancanza di libertà è la proibizione di lavorare come giornalista per una testata straniera, di cui Lei fa cenno riferendosi al suo caso. Ho pensato al ‘double-talk’ di Orwell quando Lei scrive che deve definirsi ‘ricercatrice’ e non ‘giornalista’.

     Certamente questa è una legge che deve cambiare. In passato però era ancora peggio. Una volta il governo decideva anche quali cinesi potessero lavorare per quale giornale…

Sta lavorando ad un altro romanzo?

    Non proprio, non ancora, però so che mi piacerebbe scrivere della Cina rurale, della Cina che finora ha trovato poco spazio nei romanzi.

la recensione di "Sotto cieli rossi" di Karoline Kan è un post del mese di febbraio, sotto l'etichetta "Voci da mondi diversi. Cina"

recensione e intervista saranno pubblicate su www.stradanove.it



 

giovedì 25 marzo 2021

Melinda Nadj Abonji, “Soldato tartaruga” ed. 2021

                                  Voci da mondi diversi. Area germanica           

   guerra dei Balcani

Melinda Nadj Abonji, “Soldato tartaruga”

Ed. Keller, trad. Roberta Gado, pagg. 193, Euro 16,00

 

    Ecco un altro romanzo che si aggiunge a quelli che già conosciamo e che lanciano un forte messaggio contro la guerra, contro tutte le guerre- “Mattatoio n.5” di Kurt Vonnegut, “Il buon soldato Sc’veik” di Jaroslav Hasek, “Niente di nuovo sul fronte occidentale” di Remarque, i romanzi di Ralf Rothmann, per citare i primi che ci vengono in mente. Il tema non è nuovo, dunque, e forse non lo è neppure la figura del personaggio principale, il ragazzo che, per essere politicamente corretti, si definirebbe ‘diversamente abile’ schiacciato dalla macchina della guerra. E la prima domanda che ci si pone è proprio- ma chi ha potuto giudicare abile alla leva un ragazzo così?

    Zoltán Kertész, figlio unico che vive con i genitori in un paese al confine tra Ungheria e Serbia, era perfettamente normale e faceva il garzone del panettiere fino all’incidente descritto, dal suo punto di vista, nelle prime pagine. Era caduto dalla moto, suo padre non si era neppure accorto che non era più seduto dietro di lui. E comunque, dopo, Zoltán non era più stato lo stesso. Il panettiere poteva dargli solo l’incarico di spostare i sacchi di farina. La voce di Zoli- il diminutivo con cui lo chiamano tutti- è quella di un bambino anche se ha più di vent’anni. Per quello che dice, per come lo dice. Ha la passione per i fiori, vuol bene al suo cane, il rapporto con la madre, una donna delusa sia dal figlio sia dal marito, che beve e che probabilmente incontra altri uomini, è difficile- chissà fino a che punto Zoli si rende conto del disprezzo con cui lei lo tratta.

Zrenjanin

   Agli inizi degli anni ‘90 scoppia la guerra dei Balcani e Zoli viene arruolato nell’Armata popolare jugoslava. Il tono della narrazione cambia, la voce di Zoli è sempre più infelice e spaventata, la richiesta supplichevole perché la madre lo tiri fuori dalla caserma cade nel vuoto. Anzi, la madre- e non sappiamo se giudicarla egoista o irresponsabile o crudele- è solo capace di raccomandargli di ‘non partire per la tangente’ (quando Zoli ha una reazione esagerata) e di ripetergli che l’esercito farà di lui un uomo, una vecchia retorica che risulta ancora più stupida in questo caso.

Una serie di episodi in cui Zoli diventa lo zimbello dei commilitoni e- ancora peggio- dei suoi superiori di grado sono lenti passi verso la tragedia finale. Zoli, però, si fa un amico e non può essere altri che un ragazzo emarginato quanto lui perché è obeso. Si consolano l’un l’altro, si fanno coraggio l’un l’altro, cercano di farsi forza reciprocamente per affrontare quella che sarà la prova suprema di un soldato: ma veramente dovranno uccidere qualcuno?

     Poi c’è il punto di volta, la marcia in cui devono battere un record e non se ne sa il perché. E l’amico di Zoli arranca, non ce la fa. Lo legano a Zoli che deve trainarlo, come fosse una bestia. Un’infamia di una crudeltà inaudita. È così che si forma un uomo? O è un uomo chi è capace di provare compassione e di accettare i limiti? Succede quello che succede.


    Un’altra voce narrante si alterna a quella di Zoli, quella di sua cugina Anna, il punto di vista esterno. Anna è stata compagna di giochi di Zoli, Anna  ripercorre i passi di Zoli- va a vedere la caserma e poi torna nella casa dove il padre di Zoli non vive più e la madre continua a bere. Vede la debolezza del padre, l’anaffettività della madre, l’assurdità del dramma che si è compiuto. E la normalità della voce di Anna evidenzia l’infantilità di quella di Zoli, ci fa soffrire di più per l’ingiustizia della sua sorte.

    Un romanzo che suscita in noi sentimenti diversi- di pietà, di rabbia, di commozione, di desiderio di protesta. La poesia della lingua cerca di smorzare questi sentimenti che, invece e proprio per contrasto. si affermano con forza ancora maggiore.

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martedì 23 marzo 2021

Jonathan Coe, “Io e Mr. Wilder” ed. 2021

                           Voci da mondi diversi. Gran Bretagna e Irlanda


Jonathan Coe, “Io e Mr. Wilder”

Ed. Feltrinelli, trad. Mariagiulia Castagnone, pagg. 234, Euro 16,50

   C’è sempre molta aspettativa intorno ad un nuovo romanzo di Jonathan Coe, soprattutto da parte di chi lo ha seguito negli anni, ad iniziare da quel memorabile e graffiante “La famiglia Winshaw” del 1995, una critica feroce, spietata e- perché no?- divertente dell’Inghilterra degli anni ‘80 e ‘90.

    Sono passati poco meno di trent’anni da allora e “Io e Mr. Wilder” non ha più nulla della baldanza e della sfrontatezza della giovinezza. Tutt’altro. E’ un romanzo bello e percorso da una vena di malinconia, un omaggio ad un grande regista che, in una maniera sottile, ci riconduce alla figura dello scrittore stesso, una riflessione priva di sentimentalismi sul passare inesorabile del tempo, su quello che si prova quando si sente che c’è ancora qualcosa che si vorrebbe dare al mondo ma non interessa più a nessuno.

     L’io del titolo, la voce narrante, è quello di Calista Frangopoulou, cinquantasette anni, con due figlie gemelle in procinto di andare via di casa per frequentare l’università. Una di loro andrà in Australia ed è la molla che fa scattare i ricordi, di quando Calista aveva lasciato la Grecia per un viaggio negli Stati Uniti, nel 1976, e, in maniera del tutto casuale, aveva conosciuto Billy Wilder ad una cena.

    Era stato un incontro che le aveva cambiato la vita- lei, che non sapeva neppure chi fosse Billy Wilder, che non si interessava di cinema, avrebbe lavorato per lui come interprete- una parte del film che Wilder stava girando sarebbe stata ambientata in Grecia- e, più tardi, lei stessa avrebbe composto musica per le colonne sonore dei film. È importante che l’interlocutrice, lo specchio per così dire, del regista già anziano (era nato in Polonia nel 1906), sia una ragazza giovane, con un retroterra culturale che non è quello dell’America. Una ragazza giovane che però coglie la grandezza del regista e ne apprezza la sensibilità e la profondità.

    Calista è la testimone, Billy Wilder è l’unico vero protagonista del romanzo. È un gigante, è un leone invecchiato ma ancora possente che ruggisce le sue frasi lapidarie, le battute a volte già dette ma sempre divertenti (almeno, divertono sempre lui per primo). Wilder sta girando “Fedora”, una sorta di rivisitazione del tema del famoso “Il viale del tramonto”- la storia di un’attrice che non ha saputo rassegnarsi alla trasformazione fisica che il tempo ha inciso su di lei e che ha stravolto la vita di chi dovrebbe esserle più caro pur di restare sull’onda della fama. Wilder aveva incontrato innumerevoli difficoltà per girare questo film- sembrava che tutti avessero già deciso che il film non avrebbe avuto alcun successo.

    Calista non scompare dalla scena, la sua funzione è quella di dare modo a Wilder di raccontare di sé. Intermezzi delle vicende di Calista- nel passato degli anni ‘70 e nel presente- si alternano con le pagine molto più interessanti sul regista e su quello che era un buco nero nella sua vita. Era emigrato negli Stati Uniti nel 1934, all’avvento al potere di Hitler, e c’è una domanda che lo tormenta e che rivolge ad un negazionista dell’Olocausto: dove era finita sua madre? Era il volto di sua madre che Wilder cercava nelle montagne di cadaveri dei film che aveva visionato quando gli era stato chiesto di fare un film-documentario sui campi di sterminio da mostrare in Germania.


     C’è molto da riflettere sulla figura dell’artista che invecchia e che si rende conto di essere diventato marginale, soppiantato da voci nuove, e che lotta, però, per ritagliarsi ancora uno spazio nel nuovo mondo. E allora ci sembra che ci sia Jonathan Coe stesso nel titolo del suo romanzo, che Jonathan Coe potrebbe essere sia l’io che ci parla della sua fascinazione per il regista sia Wilder stesso con cui condivide la malinconia del passare del tempo. Insegnandoci però una grande lezione, pur sul viale del tramonto: Qualunque cosa la vita ci riversi addosso, avrà sempre qualche piacere da offrirci. E noi siamo tenuti a coglierlo.”

Teniamo da conto queste parole nel tempo del covid.

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la recensione sarà pubblicata su www.stradanove.it



domenica 21 marzo 2021

Natasha Solomons, “Un perfetto gentiluomo” ed. 2021

                            Voci da mondi diversi. Gran Bretagna e Irlanda


Natasha Solomons, “Un perfetto gentiluomo”

Ed. Neri Pozza, trad. S. Bortolussi, pagg. 318, Euro 18,00

   È il 1952. Manca un anno all’incoronazione della giovane regina Elisabetta, un anno che sarà cruciale per il protagonista del primo romanzo di Natasha Solomons “Un perfetto gentiluomo”, un anno in cui giocherà il tutto per tutto per essere riconosciuto come ‘il perfetto gentiluomo’ inglese. Era quello a cui Jakob Rosenblum mirava da quando, nel 1937, lui e la moglie Sadie erano sbarcati in Inghilterra, in fuga da Berlino.

    Appena arrivati, a Jakob era stato consegnato un opuscolo di Informazioni utili. Sarebbe diventato la sua Bibbia- quella dei suoi antenati non gli interessava molto, era Sadie che rispettava le leggi e i riti. Erano informazioni che dovevano servirgli per integrarsi, per passare inosservato, per essere ‘come una panchina in un parco’ e non ‘un papavero in un campo di grano’. Via con quel nome, prima di tutto. Era diventato Jack. Proibito parlare tedesco anche in casa- peccato che nessuno sarebbe mai riuscito a togliergli quel duro accento teutonico.

    Jack aveva fatto fortuna con una trovata geniale. Si era messo a produrre moquette e tappeti. Si era potuto comprare una jaguar. Eppure tutti quei soldi non gli erano bastati per riuscire ad entrare in nessun club di golfisti- perché, si sa, un vero gentleman inglese gioca a golf. Potremmo dire che se Maometto non va alla montagna, la montagna va a Maometto, se non suonasse strano riferito ad un ebreo. Perché Jack Rosenblum avrà il suo campo da golf. Non solo. Lo inaugurerà in maniera spettacolare per festeggiare l’incoronazione della regina, a giugno del 1953. Il primo passo è comperare una di quelle romantiche case con il tetto di paglia nel Dorset.


     C’è un count-down, quindi, nel romanzo. Si scaleranno i giorni da quando i Rosenblum arrivano nella nuova casa (romantica solo nella pubblicità dell’immobiliare, in realtà fatiscente) fino al giorno fatidico che riserberà parecchie sorprese. Jack è l’eroe assoluto, al centro della scena. Un eroe fallibile, buffo, “un metro e sessanta di golfista guerriero”, con un sogno che persegue ad onta di tutti gli ostacoli, senza curarsi delle beffe e dello scherno di cui è fatto oggetto. Lui “non era uno di quegli sventurati nei romanzi di Thomas Hardy: lui non credeva nel fato, credeva che ciascuno dovesse crearsi la propria fortuna”.

   Non trova aiutanti per la sua impresa? Farà da solo, lavorerà giorno e notte a spianare e preparare il terreno per il campo da golf, sotto gli occhi dei contadini del vicino villaggio, dapprima divertiti, poi stupiti, poi ammirati, e infine pronti ad aiutarlo.

  Viene invitato dall’aristocratico vicino di casa che vuole mostrarlo come un fenomeno da baraccone ai suoi amici, tutti snob inglesi puro sangue? Jack accetta emozionato e, se fa una figura ridicola, molto peggio, molto più disprezzabili appaiono i suoi ospiti che si prendono gioco di lui.

   Ci si mette anche la natura a boicottare il sogno di Jack? Lo porterà sull’orlo della disperazione? A questo punto, però, l’ometto ridicolo si è conquistato il rispetto e l’amicizia dei contadini e tutti saranno pronti ad aiutarlo.

    Mentre Jack vede solo la meta del suo sogno, Sadie è la custode dei ricordi, inghiottita dal dolore e dalla tristezza per quelli che sono rimasti in Germania e di cui non si sa più nulla. Jack avanza nella vita senza girarsi indietro, Sadie è la Memoria. E, quando non riesce più richiamare alla mente i visi dei suoi cari, Sadie incomincia a cucinare i piatti ‘di laggiù’ che sanno di casa, che profumano di ricordi, che parlano con la voce del ricettario di sua madre.


   Se per Jack il golf è un simbolo del nuovo uomo che vuole essere, la Baumkuchen, la torta a tanti strati quante sono le persone che si vogliono ricordare è per Sadie il simbolo della vita che si sono lasciati alle spalle.

Se il lavoro al campo da golf permette a Jack di gettare un ponte tra sé e le persone del posto, la Baumkuchen è il legame culinario tra Sadie (il suo cognome è stato trasformato nel bellissimo Rose-in-Bloom, rosa in fiore) e le donne del villaggio.

    Ci sarebbe altro da dire di questo romanzo, del filone delle lettere di Jack al famoso golfista che ci fanno pensare a quelle di Herzog nel libro di Saul Bellow, del folklore locale, di una straordinaria amicizia di Jack con un vecchietto con cui condivide bevute di un micidiale liquore fatto in casa, della 'casa Orchard', del finale, infine, su cui è doveroso tacere.

   Un romanzo molto godibile, anche se non raffinato quanto “I Goldbaum”.

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