Voci da mondi diversi. Medio Oriente
il libro ritrovato
Shifra Horn, “Inno alla
gioia”
Ed.
Fazi, trad. Elisa Carandina, pagg. 338, Euro 16,00
Gerusalemme, 20 gennaio
2002: Yael Maghid,
dottoranda in antropologia, è ferma ad un semaforo al volante della sua Mini e
scherza con un bimbo che la saluta con la manina, schiacciando la sua faccetta
contro il finestrino posteriore dell’autobus in coda davanti a lei. Un boato e l’autobus salta in aria;
qualcuno estrae Yael dall’auto, salva per miracolo. Ma questo “evento”
traumatizzante cambia la vita di Yael: incapace di esprimere a parole l’orrore
di quello che ha visto, si avvicina al padre del bimbo che lei è stata l’ultima
a vedere e che, casualmente, era in cura dentistica da suo marito. Ma l’uomo è
un ebreo ortodosso che ha perso sia il figlio sia la moglie nell’esplosione e
la respinge. Yael divorzia dal marito, trova conforto nel figlio piccolo e
nell’amica Nehama, riprende gli studi ed infine accetta un incarico di visiting professor in Inghilterra.
INTERVISTA A SHIFRA
HORN, autrice di “Inno alla gioia”
Ha cambiato tono la
letteratura israeliana.
Letteratura di frontiera, prima, nell’epoca dell’entusiasmo per la fondazione
del nuovo stato e della riscoperta di una lingua che era vissuta fino ad allora
sulle pagine della Bibbia, romanzi di un mondo inghiottito dalla guerra
mondiale, saghe famigliari lungo le strade che dall’Europa portano al
Mediterraneo, storie ambientate nella moderna Tel Aviv, o nella sacra
Gerusalemme, o negli utopistici kibbutzim. C’è una diversa atmosfera, nei
romanzi scritti dopo la seconda Intifada:
l’aria è percorsa dal suono lugubre delle sirene delle ambulanze, le
trasmissioni si interrompono per trasmettere notizie dell’ultimo attentato, si
percepisce la paura che è diventata
parte della vita quotidiana. Come sono diventati di routine i funerali a
cui partecipa il presidente nel romanzo “Parti umane” di Orly Castel-Bloom,
all’ordine del giorno le morti che passano inosservate, come nell’ultimo libro
di Yehoshua, radicate la diffidenza e l’inimicizia verso gli arabi israeliani
di cui troviamo espressione nei libri di Sayed Kashua. Il pericolo con cui si deve convivere, il lutto e la morte come realtà
di ogni giorno- è questo il tema portante nel nuovo romanzo della
scrittrice israeliana Shifra Horn, “Inno alla gioia”.
L’evento centrale del
libro è
l’attentato terroristico che
fa saltare in aria un autobus, danneggiando l’auto della protagonista Yael ma
lasciando lei incolume. E le note trionfanti dell’Inno alla Gioia trasmesse
dallo stereo dell’auto servono solo da tragico contrappunto alla
sensazione dominante di morte,
anticipata nelle prime pagine dalla formazione rocciosa sul Mar Morto chiamata
“la moglie di Lot”- la figura biblica trasformata in statua di sale per essersi
volta indietro a guardare la distruzione di Sodoma-, dall’argomento stesso
della ricerca antropologica di Yael (le usanze funebri delle comunità
ultraortodosse di Gerusalemme), dal percorso del taxi nella valle di Hinnom,
dove venivano offerti sacrifici umani alle divinità pagane, o ancora, dal
ricordo del padre di Yael, che veniva “da là”, dal posto di cui era proibito parlare,
dai campi di concentramento dove era scomparsa la sua bambina. E un filo,
spezzato e riannodato e che non deve essere tagliato mai più, lega quella
bambina senza nome al bimbo morto nell’attentato e al figlio di Yael, perché i
nostri figli sono il nostro futuro e dobbiamo proteggerli.
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formazione rocciosa "la moglie di Lot" sul Mar Morto |
Stilos ha
intervistato Shifra Horn, in visita in Italia.
“Inno alla gioia” è
scritto in uno stile molto diverso dai suoi precedenti romanzi. L’impressione è
che abbia avuto uno shock, un confronto con una bruta realtà, perché non c’è
più l’atmosfera lieve, quasi di sogno, di “La più bella tra le donne” e “Tamara
cammina sull’acqua”.
Questo è il mio primo romanzo
contemporaneo, i tre precedenti erano romanzi storici in cui non trattavo
direttamente del conflitto arabo-israeliano, ma lo facevo attraverso il prisma
storico, era un compito più facile per me. E poi, improvvisamente mi sono
trovata a scrivere un romanzo ambientato ai nostri giorni. Ho iniziato a scriverlo
nel 2002: la spiegazione è che uno scrittore ha bisogno di una distanza storica
per scrivere della contemporaneità. Adesso vivo in Nuova Zelanda, è un paese
molto noioso, laggiù tutto è differente, non succede assolutamente niente. Ma
vivere in Nuova Zelanda mi ha dato una prospettiva storica degli avvenimenti
che accadono ora, altrimenti non sarei mai riuscita a scriverne e mi sarei
rifugiata ancora una volta in un romanzo storico. La Nuova Zelanda mi ha offerto la
distanza di tempo e di luogo, è come vivere su un altro pianeta.
Quello che negli altri
libri era stato il soggetto di alcuni episodi- c’era sempre qualcuno ucciso da
un arabo- qui diventa il tema del romanzo. Come si convive con la paura del
terrorismo? Ha mai pensato di lasciare Israele
per questo?
La mia vita si divide tra due luoghi, la Nuova Zelanda e Israele: io non
lascerò mai Israele,
ne ho bisogno per la mia ispirazione, ho bisogno della luce del sole, del
Mediterraneo, della gente che parla con le mani. E il libro è una risposta alla
mia paura: quando guido la mia automobile e mi trovo dietro ad un autobus, ho
sempre paura che possa succedere qualcosa, che qualcuno si faccia saltare in
aria su quell’autobus. Scrivere offre una via d’uscita ai miei timori, è la mia
maniera di trattare la paura profonda di un attentato. Israele è un paese
piccolo, ogni volta che succede qualcosa del genere, è inevitabile che si
conosca qualcuno che è stato ucciso. Scrivo per combattere la mia paura
radicata e primitiva.
Dopo l’11 settembre,
dopo il 7 di luglio a Londra, il terrorismo sembra attaccare ovunque. C’è una
possibile fine di quest’incubo?
Non c’è una via d’uscita dal terrorismo,
perché il terrorismo non è logico: il Corano non approva l’uccisione degli
innocenti, si può combattere contro dei soldati ma non contro i civili. Questo
nuovo terrorismo non ha una spiegazione razionale perché colpiscono non solo in
Israele, ma anche in Turchia, in Marocco, ammazzano i loro stessi fratelli in
Iraq, uccidono donne e bambini, che sono innocenti, che non hanno niente a che
fare con la politica. Non c’è un’ideologia dietro il terrorismo, solo la
volontà di portare il caos nel mondo. Ho la sensazione tremenda che finirà solo
quando tutto il mondo sarà convertito all’islam e la democrazia sarà sconfitta.
Colpiscono anche l’Iraq perché sta avviandosi verso la democrazia e loro
vogliono abolire la libertà e la democrazia. Ormai il bersaglio non è più
Israele, uccidono per uccidere.
Avshalom, il padre del
bambino morto nell’esplosione, era un pilota e paragona le missioni dei piloti
agli attacchi terroristici, perché entrambi colpiscono dei civili innocenti.
Pensava anche alla guerra in Iraq, scrivendo di questo?
Il nome Avshalom vuol dire “il padre
della pace”, e no, non pensavo all’Iraq quando scrivevo, perché ho iniziato a
scrivere il romanzo prima della guerra in Iraq. Il problema etico di un pilota,
come dico nel romanzo, è che deve considerare che, con la sua azione, può
colpire anche vittime innocenti oltre all’obiettivo mirato. Ripensavo a quanto
è successo nella seconda guerra mondiale, quando gli americani non hanno
bombardato i campi di concentramento per timore di uccidere gli ebrei e non
hanno considerato che era pur vero, ma ne avrebbero salvati molti altri. Non ho
una risposta per questo problema, in Israele però i piloti possono scegliere,
se hanno dei problemi di coscienza possono rifiutarsi di eseguire la missione a
loro affidata. Possono disobbedire agli ordini.
Il suo romanzo è stato
scritto prima della decisione di Sharon di lasciare i territori, e uno dei
personaggi caldeggia questa decisione come risolutiva. Eppure continuano gli
attacchi terroristici in Israele.
Ecco perché siamo stati delusi. Ecco
perché, dopo la delusione del trattato di Oslo, dopo quella del comportamento
di Arafat, molti della sinistra sono passati alla destra. Yael, la protagonista
del romanzo, era di sinistra ma, dopo il trauma dell’attentato, diventa più
realista, teme per il futuro del figlio e si mette in una posizione di
opposizione alla sua più cara amica. E’ un conflitto che sentiamo tutti: il 95%
degli israeliani sono per la pace e per la liberazione dei territori, ma nello
stesso tempo hanno paura. Pensano, ‘gli diamo quello che vogliono ma se poi non
rispettano l’accordo?’. Dopotutto nel Corano si parla di quando Maometto,
conquistando l’Arabia del sud, aveva promesso ad una tribù ebraica di non
attaccarla e poi non ha mantenuto fede alla promessa: per i musulmani non
esistono trattati validi con i non musulmani. Arafat, quelli di Hamas, non
hanno rispettato gli accordi, gli attacchi contro Israele continuano, io sono
molto preoccupata.
C’è un parallelo, nel
romanzo, tra la tremenda esperienza dei sopravvissuti dei campi di
concentramento e i sopravvissuti ad un attentato. Che cosa vuol dire
sopravvivere?
Yael appartiene alla seconda generazione
dei sopravvissuti alla Shoah e in tutto il libro ci sono cenni al fatto che il
padre ha perso una moglie e una figlia nei campi, per questo è molto protettivo
nei confronti di Yael. Anche io sono una figlia di sopravvissuti alla Shoah e
anche io penso di essere stata eccessivamente protetta- è l’esperienza di tutti
i figli di sopravvissuti, ci soffocano con il loro amore, con il loro desiderio
di una vita felice per noi. Dobbiamo riuscire nella vita, avere successo, per
dare loro soddisfazione, siamo dei capri espiatori che devono dar loro la
felicità. Dopo l’attentato, Yael si identifica con il padre; quando è in
ospedale e aspetta il foglio con il permesso di andare a casa, teme che la trattengano,
di dover indossare un pigiama a righe come quelli dei detenuti nei lager, di
diventare una sopravvissuta E sente all’improvviso tutto l’orrore della
connessione con suo padre, non le piace essere una sopravvissuta, i
sopravvissuti erano i più forti, quelli che si erano attaccati alla vita con
ogni mezzo. Scopre il significato di sopravvivere, il comun denominatore del
destino degli ebrei, perseguitati per 2000 anni, sopravvissuti per mantenere il
giudaismo. Questo è il significato della sopravvivenza.
Che cosa è il movimento
delle Donne in Nero di cui si parla nel romanzo?
Le Donne in Nero sono un gruppo di
estrema sinistra che si radunano tutti i venerdì nel centro di Gerusalemme: non
sono molte, una quindicina, sono tutte vestite di nero, portano occhiali scuri
e reggono un cartello nero con una scritta a favore del ritiro dai territori.
Davanti a loro si piazza un altro gruppo di donne di destra che dimostrano
contro di loro, e il luogo in cui si ritrovano è vicino alla casa del primo ministro.
E’ un po’ come il Triangolo delle Bermuda, tutte le parti sono rappresentate:
quelli contro il ritiro, quelli a favore del ritiro, le moglie dei coloni che
non vogliono andarsene, e adesso ci sono anche i rappresentanti del Movimento
per la Pace, che
contano i giorni dall’inizio dell’Intifada e il numero dei morti.
Israele, come appare nel
romanzo, sembra essere più che mai una terra di contrasti: guerra e obiettori
di coscienza, ultraortodossi e ebrei non religiosi…
Il mio romanzo è pieno di contrasti ed è
un romanzo a strati: uno strato è quello del conflitto arabo-israeliano, un
altro è quello del conflitto tra marito e moglie, poi c’è quello dell’amicizia
tra le due donne che entrano in opposizione per le diverse idee politiche, e il
conflitto tra ebrei secolari e ebrei ortodossi. Questo è un conflitto che si
avverte specialmente a Gerusalemme perché gli ortodossi vivono in una zona
isolata in cui non si può entrare in auto al sabato, si isolano come in una
specie di ghetto. Ma anche se Israele è diviso riguardo alle questioni
politiche o a quelle religiose, anche se ci sono ebrei sefarditi e ebrei
ashkenaziti, è pur sempre la stessa società che parla la stessa lingua che è un
collante, un comun denominatore. Siamo una sola nazione e, quando succedono
delle tragedie, come le bombe dei suicidi, tutti quelli che discutevano, o che
erano in conflitto, si riuniscono sotto l’ombrello comune della minaccia. E’
una paese diviso ma unito.
Come può Yael
innamorarsi di un ultraortodosso?
Solo alla fine del libro si capisce come
possa Yael innamorarsi di un ultraortodosso, il che è molto raro, quasi
impossibile per chi non è religioso. E dapprima neppure Yael ne aveva capito il
perché. Il padre di Yael era solito ripetere quella che è una citazione da
Nahum che ho messo in apertura del libro, “La sventura non avverrà due volte”.
Voleva dire che nessuno gli avrebbe portato via Yael, perché lui aveva già
perso una figlia nei campi. Questo è lo strato di una lettura mistica del
romanzo, perché Yael è terrorizzata da una predizione che le è stata fatta da
una donna che non conosceva e che non poteva sapere che lei fosse incinta,
secondo cui avrebbe perso suo figlio. E quando incontra Avshalom che ha perso
moglie e figlio nell’esplosione dell’autobus, pensa che, se lei darà ad
Avshalom il suo proprio figlio, al bambino non potrà accadere niente. Essere
con lui la proteggerà dal male.
Ci sono moltissime
metafore nel romanzo. Una di quelle che colpiscono di più è quella dei rondoni
che hanno fatto il nido nel cassettone della finestra.
Sono un’intuitiva quando scrivo e il
significato metaforico che potevano avere i rondoni nel cassettone mi è venuto
in mente soltanto dopo che ne avevo scritto. E’ una metafora che può
rappresentare i palestinesi che sono stati scacciati nel ‘48, oppure i
rifugiati ebrei durante o dopo la seconda guerra mondiale, oppure anche i
palestinesi di oggi, o anche i bosniaci. Possono rappresentare i rifugiati di
qualunque nazionalità.
C’è un rapporto
tenerissimo e speciale tra Yael e il suo bambino Yoavi: è suo figlio il piccolo
Yoavi?
Mio figlio adesso è grande e si è appena
sposato, ma sì, Yoavi è come mio figlio quando era piccolo. Sono rimasta sola
con lui dopo il divorzio e c’era un legame simbiotico tra me e lui. Mio figlio
era come Yoavi nel romanzo, dolce e gentile, attento nei miei confronti e
sollecito, era il mio migliore amico e siamo ancora molto uniti anche adesso.
Alla nascita di Yoavi,
il marito di Yael dice una frase tremenda, “un altro soldato per Israele”.
Viene fatto di pensare, ‘felice la terra che non ha bisogno di soldati ’ .
La frase del marito di Yael è quella che
ha detto a me mio marito quando è nato mio figlio, dopo un parto lunghissimo,
durato 17 ore. “Un altro soldato per Israele”, una frase traumatizzante. Però,
quando si tratta di un figlio unico, l’esercito non lo manda a combattere,
proprio per proteggere la famiglia, e mio figlio, quando era nell’esercito, ha
lavorato in un ufficio. Avrei potuto firmare una carta in cui autorizzavo a che
venisse impiegato attivamente, e mio figlio lo avrebbe voluto, ma non l’ho
fatto- e lui ha capito.
recensione e intervista sono state pubblicate sulla rivista "Stilos"
a gennaio uscirà il nuovo romanzo di Shifra Horn, "Scorpion Dance", ne leggerete sul blog.