venerdì 28 giugno 2024

Radikha Jha, “La foresta nascosta” ed. 2024

                                                         Voci da mondi diversi. India


Radikha Jha, “La foresta nascosta”

Ed. Sellerio, trad. Gioia Guerzoni, pagg. 319, Euro 17,00

     Suo padre è morto. Kōsuke, che da anni vive in America, tra New York e Los Angeles dove ha acquistato una certa notorietà programmando effetti speciali per il cinema, deve tornare in Giappone. Se la prende comoda, Kōsuke, non riuscirà neppure ad essere presente al funerale, e questo dice già tutto della distanza che si è creata, non solo geografica ma anche di relazione personale, tra lui e la sua famiglia. Quando arriva a Tokyo e incontra la sorella, viene subito calato in un altro mondo, in un altro genere di preoccupazioni.

    Il padre di Kōsuke era un sacerdote scintoista. Kōsuke aveva sempre sentito il padre lontano da lui, preso come era nella gestione del piccolo santuario, nell’organizzare le cerimonie, nell’occuparsi della comunità. Si sentiva più legato all’altro sacerdote, ormai anziano, che diventa adesso per lui un ponte tra presente e passato, che gli rivela il carattere del padre e la sua nascosta grandezza, la sua dedizione totale al servizio del santuario e dei fedeli.


    La situazione non è affatto semplice- che cosa vuol dire ereditare un santuario? Che cosa è chiamato a fare, Kōsuke? E se rinunciasse e lasciasse il santuario alla sorella? Prima di tutto c’è il problema economico. Tutti i santuari sono in difficoltà in Giappone, gravati dalle tasse, soggetti a pressioni ricattatorie dalla yakuza che mira ad acquistare i terreni su cui sorgono per costruire complessi immobiliari al loro posto. Il padre di Kōsuke  aveva già dovuto sacrificare la lussureggiante foresta che illuminava i ricordi dell’infanzia di Kōsuke.

    Kōsuke non ha il minimo dubbio, appena arrivato. Si sbarazzerà del santuario e tornerà in America dove, oltre al lavoro, ha un legame importante con una donna a cui- altra decisione da prendere- vorrebbe chiedere di sposarlo. Poi iniziano i dubbi, i tentennamenti, l’ondata di ricordi, i confronti.

Meiji Jingu di Kengo Kuma

   Sono duplici i confronti che sorgono spontanei nella mente di Kōsuke, perché il ritorno di questo Ulisse dei nostri tempi è diverso eppur stranamente simile a quello dell’eroe greco. Non sono gli altri che non riconoscono Kōsuke, come avviene per Ulisse, ma è lui che non si raccapezza più, non riconosce la nuova Tokyo occidentalizzata che ha perso la sua anima, che ha distrutto per ricostruire senza tener conto della cultura millenaria che era dietro a quello che abbatteva. Kōsuke riconosce che Kengo Kuma è un genio dell’architettura, ma dove è finito il bel santuario di legno di una volta? Quello che Kōsuke vede, quello che attrae più turisti e più soldi, è un santuario finto, come è finto il sacerdote sugli scalini. Come è possibile che abbiano costruito degli edifici così alti da dominare i tetti della dimora dell’imperatore? Nel nuovo Giappone, nella nuova Tokyo, è venuto meno il rispetto, si è persa la sacralità.

Kengo Kuma

    Invece della Penelope che aspetta Ulisse, Kōsuke incontra una compagna di scuola- è lei a riconoscere lui e sarà poi, invece, la fidanzata americana a trovarlo cambiato, quasi irriconoscibile, quando lo raggiunge a Tokyo. La compagna di scuola ritrovata è una donna infelice, Kōsuke potrebbe anche innamorarsi di lei ma sarebbe aggiungere pericolo a pericolo. Perché, se Kōsuke aveva iniziato a capire il peso che la yakuza (la maggiore organizzazione criminale del mondo) aveva avuto nel lento declino del santuario del padre esaminandone i conti, adesso che le minacce si sono fatte più pesanti e concrete, Kōsuke capisce che non è solo la sua vita ad essere a rischio.

    Edward M. Forster aveva scritto, nell’esergo di “Passaggio in India”, “Only connect…”. Erano altri tempi, c’era l’esigenza di connettere l’Oriente con l’Occidente, c’era la speranza che si potesse fare. È ancora possibile connettere l’Oriente con l’Occidente? O è troppo tardi e la cultura (o non-cultura) occidentale ha fagocitato quella orientale, impregnata di silenzio, di oscurità (i kami non vogliono la luce, ripete spesso Kosuke), di presenze invisibili, di tempo lento?

“La foresta nascosta” di Rhadika Jha è un libro bellissimo che ci porta in un Giappone inedito, che ci fa meditare.



 

mercoledì 26 giugno 2024

Jocelyne Saucier, “Il segreto dei Cardinal” ed. 2024

                                          Voci da mondi diversi. Canada

   cento sfumature di giallo

Jocelyne Saucier, “Il segreto dei Cardinal”

Ed. Iperborea, trad. Luciana Cisbani, pagg.224, Euro 17,00

   I Cardinal. Ah, i Cardinal con il fascino delle famiglie numerose. Sono ventuno i giovani Cardinal. Sì, non c’è nessun errore: ventun figli di cui solo cinque le figlie femmine. E certo che hanno ognuno il proprio nome, ma è solo il padre che li chiama con quello, tra di loro sono LaPulzella, ElToro, Tootsie, Geronimo, Fanalino che è l’ultimo arrivato, LaTommy e la sua gemella che a volte è chiamata L’Adottata e molto più spesso con il suo vero nome, Angèle.

    Tra i tanti aneddoti, tra i tanti dettagli di vita quotidiana, tra le tante parole di lessico famigliare (Nemmiposto vuol dire ‘nessuno mi prenda il posto’ su quell’unico divano a tre sedute o per terra appoggiati al muro), tra le tante imprese audaci di Geronimo e degli altri contro quelli che loro chiamano ‘i bifolchi’, sono Le Gemelle che occupano il posto principale in questa storia di famiglia. Sono assolutamente identiche, anche se LaTommy deve il suo soprannome al suo comportamento da maschiaccio e L’Adottata è angelica come il suo nome- una coppia senza figli voleva adottare entrambe le gemelle, solo Angèle si era lasciata tentare dai vestitini frou-frou e dalla promessa di una stanza tutta bianca e una volta all’anno andava ospite da quei genitori che la colmavano di regali anche senza averla poi adottata. E però era diventata la vittima delle battute cattive dei fratelli che si divertivano a insudiciarle i begli abiti con cui ritornava. Dove è Angèle ora? L’ultima volta l’avevano vista seduta sul sedile posteriore dell’automobile di Geronimo, indossava il vestitino a fiori, aveva accanto a sé dei sacchetti con le sue cose. Era diretta a Montréal, e poi?


   La presenza-assenza di Angèle ritorna in tutte le narrazioni fatte in prima persona da membri diversi della famiglia- inizia Fanalino il cui racconto si basa per lo più su quello che ha sentito dire, perché parla anche di fatti avvenuti quando lui non era neppure nato, poi interviene LaPulzella, poi il primogenito che finirà in Australia per allontanarsi dalla famiglia, e Geronimo con la sua passione per i candelotti di dinamite e LaTommy che vive all’estremo Nord e ha sposato un inuit, e poi altri ancora.

   Dove sono i genitori in questo romanzo di famiglia? Padre è un prospettore, diventato famoso per aver scoperto una miniera di zinco. È lui che ha fondato la cittadina dove vivono in quella grande casa con stanze ‘disordinate’ perché è composta da due case messe insieme. Padre ha una passione dominante, quella delle rocce, e dei figli sembra ricordarsi solo quando compiono sette anni e il compleanno viene festeggiato con una iniziazione alla dinamite.


     La più grande delle figlie, LaPulzella, aveva fatto da madre a quasi tutti i bambini- come avrebbe potuto occuparsene Madre, sempre impegnata a sfornare figli e cucinare in giganteschi pentoloni? È una figura evanescente, questa Madre che passa silenziosamente da un letto all’altro quando già dormono, per una fugace carezza. Eppure tutti sono d’accordo nel volerla proteggere, nel cercare di confonderla perché non si renda conto che non sono ventuno i figli che la circondano. Si può ingannare il cuore di una madre?

     Nel 1995 il padre ormai anziano riceve un premio alla carriera e tutti i figli Cardinal si ritrovano insieme. Quando era iniziata la diaspora? Forse  quando Angèle si era allontanata sull’automobile? Incontrarsi di nuovo e sparpagliarsi per rendere meno evidente un’assenza dà inizio ai ricordi, alla ricostruzione di quanto era accaduto, alle domande ‘come è stato possibile?’, ai sensi di colpa: “un colpevole basta e avanza”, dice Geronimo, “è inutile stare ad accusarsi”. E non è neppure la madre la più straziata, ma Carmelle/LaTommy che solo davanti allo specchio fa riaffiorare il sorriso di Angéle sul suo volto.

   Divertente e drammatico, con una misteriosa esplosione al centro della trama, con una famiglia così numerosa da distrarci dagli altri temi sociali ed economici che hanno a che fare con le scoperte minerarie e con un finale forse un poco deludente. Ma una cosa è certa: sentiremo la mancanza dei Cardinal.



lunedì 24 giugno 2024

Alvydas Šlepikas, “Il mio nome è Maryté” ed. 2024

                                                 Voci da mondi diversi. Lituania

    seconda guerra mondiale

Alvydas Šlepikas, “Il mio nome è Maryté”

Ed. La Nave di Teseo, trad. Adriano Cerri, pagg. 256, Euro 20,90

 

    Aveva sette o otto anni. Le avevano detto che, se glielo domandavano, doveva dire “Il mio nome è Maryté”. Non sapeva dire nient’altro in lituano, ma mai, assolutamente mai, i soldati russi dovevano sospettare che lei si chiamasse in realtà Renate e fosse tedesca. L’avrebbero uccisa.

   Si stima siano stati circa 45.000 i bambini o ragazzi tedeschi della Prussia Orientale che in qualche maniera riuscirono ad arrivare in Lituania, mentre l’Armata Rossa avanzava e ai tedeschi di quei territori veniva proibito, in un primo tempo, di evacuare. Erano per lo più orfani o bambini lasciati indietro dai genitori portati via a forza nei campi di lavoro oppure addirittura venduti per un poco di cibo per sfamare gli altri figli. Li chiamavano “Wolfskinder”, i figli del lupo, o i bambini lupo, perché giravano affamati nelle foreste, mangiando qualunque cosa fosse più o meno commestibile. Si offrivano per lavorare nelle fattorie e molti contadini lituani, per interesse o per generosità, li alloggiarono anche se era proibito- chi dava lavoro ai bambini tedeschi poteva essere mandato in Siberia, se scoperto o denunciato.


    Il libro di Alvydas Šlepikas ci racconta della odissea dei ‘piccoli tedeschi’ in una narrativa spezzata e frammentata come lo era la vita dei bambini e di quello che restava della loro famiglia. Il piccolo nucleo famigliare che conosciamo all’inizio, formato da mamma, zia e bambini a cui si aggiunge poi un’amica con i suoi due figli, si assottiglia a poco a poco. Il primo ad allontanarsi è il maschietto più grande- andrà in Lituania nascosto in un carico di carbone su un treno merci e poi tornerà indietro con le cibarie che è riuscito a procurarsi. È la prima parte di una storia che ci paralizza il cuore tra compassione e incredulità. Ci chiediamo quanto grande sia stata la disperazione di una madre per spingere un figlio dodicenne verso un’impresa difficile e pericolosa anche per un adulto. Ci chiediamo quanto grande sia stato il coraggio e il senso di responsabilità e l’altruismo di un bambino che non mangia quello che porta nello zaino per non privarne il fratellino minore che piagnucola di continuo, ‘ho fame’. Ci chiediamo quanto grande sia stato il terrore di una donna- perché ha visto come è stata ridotta la sua amica- per impiastricciare i visetti delle sue bambine per risparmiarle dalla bestialità dei soldati russi.


    Nella gelida legnaia che è diventata la loro casa il ragazzino non trova più nessuno ed è un altro frammento di storia che seguiamo, quello che ha in primo piano la sorellina Renate diventata Maryté. Anche lei si offriva per fare qualunque lavoro (chi l’avrebbe presa, così piccola?), credeva di essere stata fortunata, di aver trovato un nuovo papà e una nuova mamma…

    Nella postfazione lo scrittore dice di aver saputo di due bambine con questo nome, due bambine diventate donne che non volevano si venisse a sapere del loro passato e infatti solo dopo il 1990, dopo la fine dell’Unione Sovietica, quelli che erano stati i Wolfskinder poterono rivelare la loro identità. Quanti lo avranno fatto? Quanti avranno preferito non disseppellire ricordi traumatici? Quanti avranno scelto di mantenere nome e cognome lituani piuttosto che riprendere una identità tedesca che non diceva loro nulla?

    Nel 2010 c’erano ancora un centinaio di quegli ex-bambini che vivevano ancora in Lituania. Mentre quella tedesca non contempla alcun risarcimento per gli ex-bambini lupo, la legge lituana concede loro una piccola pensione aggiuntiva.

   Un film di Rick Ostermann, del 1913 ricorda l’odissea dimenticata dei bambini lupo.



venerdì 21 giugno 2024

Mathieu Belezi, “Attaccare la terra e il sole” ed. 2024

                                                        Voci da mondi diversi. Francia

           romanzo storico

Mathieu Belezi, “Attaccare la terra e il sole”

Ed. Gramma Feltrinelli, trad. Maria Baiocchi, pagg. 144, Euro 15,20

 

    Combattere la terra, quella dura e avara, così diversa da quella scura e grassa della Francia. Combattere un sole spietato che avvizziva le piante e la pelle dei coloni. Erano queste le due battaglie che erano chiamati a combattere i francesi inviati in Algeria a metà del 1800, allettati dalla promessa della terra, con sogni di ricchezza. Della terza battaglia, quella più dura, contro gli algerini che li vedevano come invasori, i coloni non sapevano nulla.

    Sono due le voci narranti in questo spietato e tragico romanzo, due voci incalzanti che sembrano neppure prendere fiato, quasi che temano scada il tempo a loro concesso per raccontarci quello che succede. Una è la voce di Séraphine, arrivata in Africa con il marito e tre figli. Aveva convinto anche la sorella ad unirsi a loro. L’altra voce è di un soldato. La voce di Séraphine è quella della donna eterna vittima della guerra, dilaniata dalla paura di perdere i suoi cari, di essere lei stessa un triste bottino di guerra. Quella del soldato si afferma subito con la prepotenza del conquistatore, con l’affermazione, ‘non siamo angeli’, ripetuta quasi ci fosse bisogno di autogiustificarsi, oppure di vantarsi, per azioni di estrema violenza. Ma, forse, anche la voce del soldato è quella di una vittima, di un uomo che deve ubbidire agli ordini qualunque cosa la sua coscienza gli detti.


     Il tempo è inclemente, i coloni hanno alloggi di fortuna, il colera falcia le prime vittime, il cimitero si riempie di croci- dove è la terra promessa? Se non fossero partiti…Non c’è famiglia che non pianga i suoi morti.

   I francesi- gli invasori- non hanno nessuna comprensione verso gli indigeni del posto. Anzi, manifestano per loro il massimo disprezzo, quasi fossero dei subumani. Ostentano arroganza e prepotenza nell’esigere che le donne siano consegnate per soddisfare le loro basse esigenze, rotola una testa quando un anziano, con dignità e rispetto, afferma che le loro donne non si toccano.


    Passa il tempo e i coloni si illudono che il peggio sia passato. E invece il peggio si sta preparando, un peggio in cui a violenza si risponde con violenza, scorre il sangue di soldati e di civili. Come accade in tutte le storie di colonialismo, con la visione di oggi è difficile non parteggiare per chi difende la propria terra, per non considerare usurpatori quelli che si trincerano dietro l’interessato e fanatico interesse di parte, considerandosi portatori di civiltà.

     Un romanzo potente, con una narrativa lapidaria, che si aggiunge alla storiografia di guerra, alla protesta contro tutte le guerre, quelle di invasione, soprattutto.

Solo nel 1962 l’Algeria riacquistò l’indipendenza e la Francia non ha mai fatto ammenda per i crimini commessi nei 132 anni di colonizzazione.



   

   

     

mercoledì 19 giugno 2024

Natascha Wodin, “Veniva da Mariupol” ed. 2018

                              Voci da mondi diversi. Area germanica

seconda guerra mondiale
romanzo autobiografico

Natascha Wodin, “Veniva da Mariupol”

Ed. L’Orma, trad. M. Solari e A. Ruchat, pagg. 380, Euro 19,95   2018

 

    Era una bambina l’io narrante della storia, la scrittrice stessa, quando sua madre si era gettata nel fiume. Aveva solo trentasei anni e il padre le ripeteva sempre che anche lei, Natascha, era pazza come sua madre Evgenija. Dopo aver letto il libro comprendiamo tanto di Evgenija e non ci stupiamo affatto della sua ‘pazzia’.

    Natascha sapeva ben poco di sua madre fino a quando si era imbattuta per caso nel suo nome su un motore di ricerca russo. Inizia così un’indagine che occupa tutta la prima parte del libro, un’estenuante ricerca in cui riceve un costante aiuto da un greco appassionato di alberi genealogici- lei non avrebbe mai immaginato che a Mariupol, in Ucraina, ci fosse una comunità di greci e anche una di italiani. Molto spesso le indagini sono frustranti, le difficoltà sembrano insormontabili, spesso sembra si arrivi ad un punto morto. Poi, quasi per miracolo, spuntano delle prove di questo mondo scomparso, dal nulla appaiono fotografie. La nonna materna di Natascha era italiana e apparteneva ad una famiglia ricca, quella paterna aveva origini nobiliari e sua madre aveva avuto (o aveva ancora?) un fratello che era un cantante d’opera e una sorella maggiore, Evgenija era nata a molti anni di distanza da fratello e sorella, in una foto sua madre appare con i capelli bianchi (leggeremo come le erano diventati bianchi in una sola notte) e poi, dopo che era partita per raggiungere la figlia più grande, era scomparsa, non si era saputo più nulla di lei.


   In seguito a questa paziente ricerca, Natascha scopre di avere una numerosa famiglia, fortemente colpita dagli eventi drammatici del secolo XIX, il secolo della Rivoluzione Russa, di Stalin e di Hitler, di quella che in unione Sovietica veniva chiamata la Grande Guerra patriottica, dei campi di sterminio nazisti e dei Gulag, delle famigerate purghe staliniane, dell’ Holomodor, il genocidio per fame degli ucraini in seguito alla collettivizzazione, il lavoro forzato degli Ostarbeiter, deportati dai nazisti in Germania.

   È questa storia poco conosciuta che la scrittrice ci racconta nella seconda parte del libro. Perché abbiamo letto molto, anzi moltissimo, sul genocidio degli ebrei e sui campi di concentramento, e quasi nulla, invece, sui lavoratori dell’Est che, indispensabili e facilmente rimpiazzabili, costituivano la mano d’opera nelle fabbriche sostituendo gli uomini tedeschi al fronte. Non c’era poi molta differenza tra i campi in cui venivano rinchiusi gli ebrei e quelli di questi lavoratori che dovevano cucire la scritta ‘Ost’ sulla giacca o sull’abito. Erano alloggiati in baracche sovraffollate, sottonutriti, mangiati vivi da pidocchi e altri insetti, forzati a lavorare fino allo sfinimento.


   La scrittrice non ha una documentazione a cui ricorrere per ricostruire la vita di sua madre in uno di questi campi, si basa su altre testimonianze, costruisce ipotesi sulla sua vita quotidiana. Ipotizza anche quando lei stessa sia stata concepita- sua madre era sposata quando era stata deportata-, forse non si era neppure accorta di essere incinta, nelle condizioni di deperimento fisico in cui si trovava. E poi c’è il ‘dopo’, la fine della guerra quando i ‘displaced people’ erano milioni. Sarebbero stati rimpatriati? E chi non voleva tornare perché sapeva sarebbe andato incontro a morte certa, avendo lavorato in una fabbrica tedesca ed essendo quindi considerato un collaborazionista?


   I Wodin (il loro cognome ha subito alcune varianti) rimasero in Germania, ma qui inizia un altro capitolo della loro vita, non meno difficile, in condizioni non meno squallide di cui la scrittrice (bambina all’epoca) ha qualche ricordo. Per sua madre era stato il culmine di un’esistenza tragica- la soluzione più facile era porvi una fine.

   Se la prima parte del libro è più fredda e ci incuriosisce senza appassionarci, questa seconda, in cui leggiamo anche il diario della sorella maggiore di Evgenija e Natascha entra in contatto con un cugino che è tuttora vivo in Siberia, è appassionante. Una lettura che definirei indispensabile.



lunedì 17 giugno 2024

Sunjeev Sahota, “La stanza delle mogli” ed. 2024

                            Voci da mondi diversi. Gran Bretagna e Irlanda

Voci da mondi diversi. India
            love story

Sunjeev Sahota, “La stanza delle mogli”

Ed. Astoria, trad. Cecilia Vallardi, pagg. 272, Euro 18,00

    1929. Una zona rurale del Punjab, al confine con il Pakistan. Tre spose di tre villaggi vicini per tre fratelli. E no, questo romanzo, longlisted per il Booker Prize 2021, non è una commedia romantica di stile hollywoodiano, è piuttosto un dramma.

    Tre matrimoni con una sola cerimonia (così si risparmia), tre spose con un sari rosso che non sanno quale dei tre fratelli sarà ed è il loro marito. Tutte e tre sono alloggiate nella stanza delle porcellane (“The China room” il titolo in inglese per dei piatti di porcellana che qualcuno di famiglia aveva portato dalla Cina), lavorano nella fattoria tutto il giorno dirette dalla temibile suocera a cui, alla sera, i figli rivolgono la richiesta di chiamare la moglie in un’altra stanza. Sono amplessi nel buio, si può cercare di indovinare dai calli sulle mani, dal profilo del volto, dal tono di voce, quale dei tre uomini sia il proprio marito, ma l’incertezza permane, la fantasia corre. E’ un bambino che si vuole. Non importa chi lo generi, basta che sia un maschietto.

   Mehar è la più giovane delle mogli. Ha solo quindici anni e la futura suocera aveva già contrattato per lei quando aveva solo cinque anni. Sarebbe dovuta essere la moglie del terzogenito, lo scapestrato figlio ventenne, ma il figlio maggiore, il prediletto della madre, se ne era innamorato a prima vista e l’aveva chiesta per sé.


   C’è un grosso errore alla base della storia d’amore che segue. C’è una ragazzina quindicenne che sbircia dalle fessure degli scuri della finestrella, che fantastica, che crede di riconoscere l’uomo che è così tenero con lei di notte, che diventa ardita e sfacciata (ma non è poi suo marito quello a cui lei si rivolge con tanta audacia?), c’è un amore che divampa tra corpi giovani, nutrito dalla segretezza e- almeno per uno dei due- dal proibito. Ma gli incendi d’amore sono sempre pericolosi. E a questo pericolo di dramma famigliare si aggiunge quello dei movimenti di rivolta che iniziano ad infiammare l’India e che hanno bisogno di reclutare guerriglieri.

    Nel 1999 la fattoria è in rovina, la porta della camera delle mogli è sprangata, ci sono delle sbarre alla finestrella, nel paese circolano leggende su quanto è successo e incuriosiscono il ragazzo diciottenne arrivato dall’Inghilterra in condizioni pietose. Lo zio che lo ospita non capisce quale sia il male che affligge il ragazzo, il medico pensa che sia dengue. È tutt’altro naturalmente e forse è meglio allontanarlo dalla casa dove abitano gli zii, mandarlo alla fattoria.


   I due filoni si alternano anche se quello delle tre spose ha una rilevanza di gran lunga maggiore che fa impallidire la storia parallela di un ragazzo discriminato in Inghilterra per la sua pelle scura che trova un riscatto nel ritorno alla terra della sua famiglia dove si sente stranamente a suo agio, dove il lavoro fisico lo libera dalle dipendenze, dove apprende la vera storia della sua bisavola.

    “La stanza delle mogli” è, in un certo senso, un romanzo doppiamente e parzialmente autobiografico- la storia della bisnonna dello scrittore in Punjab e tracce della sua stessa adolescenza, cresciuto in una famiglia emigrata dal Punjab nel 1966. È un romanzo destinato a catturare il cuore delle lettrici con una storia di tre spose che sono tre ragazze che trovano nell’amicizia tra di loro un conforto, perché non hanno neppure il diritto di sapere chi è il proprio marito, perché sono strumenti per la procreazione in cui non c’è spazio per l’amore. Anche se poi l’amore è più forte e vince sempre, soprattutto se si è giovani. A che prezzo? Viene in mente il film “Lanterne rosse” tratto dal libro di Su Tong, vengono in mente altre donne della letteratura e della Storia in una sorellanza senza confini.



sabato 15 giugno 2024

Catherine Bardon, “Flor de Oro. La figlia del tiranno” ed. 2024

                                                        Voci da mondi diversi. Francia

         biografia romanzata

Catherine Bardon, “Flor de Oro. La figlia del tiranno

Ed. e/o, trad. Alberto Bracci Testasecca, pagg. 373, Euro 19,50

 

    Flor de Oro. Era stato suo padre a scegliere di chiamarla così e, con questo nome che dà l’idea di bellezza, delicatezza, preziosità, ci si immagina un padre che avrebbe circondato la figlia di cure e di affetto. Niente affatto. Suo padre era Rafael Trujillo, il sanguinario dittatore di Santo Domingo, il Jefe, ‘l’Orco dei Caraibi’. Si potrebbe pensare che suo padre avesse due facce e riserbasse a Flor de Oro quella amorevole. Niente affatto. In tutta la sua vita Flor de Oro avrebbe cercato di adeguarsi a quello che il padre voleva da lei, proprio per conquistare la sua benevolenza, e invece i momenti di ‘grazia’ erano stati rarissimi.

  Nelle note finali Catherine Bardon ci dice come sia arrivata a scrivere questo romanzo, perché si sa pochissimo della figlia di Trujillo. Doveva scrivere una guida turistica dei dominicani celebri e uno dei nomi era quello di Porfirio Rubirosa- chi non conosce l’affascinante playboy, giocatore di polo, diplomatico e spia, che ha ispirato il personaggio di James Bond e che è morto schiantandosi con la sua Ferrari contro un albero del Bois de Boulogne alle prime ore del mattino dopo una notte di bisboccia?


‘Rubi’ aveva avuto molte mogli, anche la famosa attrice francese Danielle Darrieux, ma la prima era stata Flor de Oro Trujillo, appena diciassettenne. Non è stato facile per Catherine Bardon trovare notizie di questa donna nata nel 1915 e morta nel 1968. E scrivere la storia della sua vita ha richiesto calarsi nel personaggio e immaginare i suoi sentimenti, le sue reazioni. D’altra parte, come dice la stessa scrittrice, la vita di Flor de Oro “ha avuto più immaginazione del più creativo dei romanzieri”.

    Era bella, Flor de Oro, anche se di certo al padre non doveva piacere che il colore della sua pelle, i capelli scuri e ricci, quegli occhi di un nero profondo, rivelassero la goccia di sangue nero, haitiano, che era in lui (il Jefe si incipriava per schiarire il suo colorito). Aveva un sorriso luminoso e smagliante che era parte del suo fascino. Sua madre era l’unica vera moglie di Trujillo, l’unica sposata in chiesa, poi soppiantata da altre mogli sposate con rito civile e da schiere di amanti che gli avrebbero dato figli bastardi (una di queste era la più cara amica di Flor, sua coetanea).

Flor de Oro con Rubi

    Il primo trauma di Flor era stato l’allontanamento dalla madre- era stata mandata in Francia a studiare quando era ancora una bambina. Possiamo immaginare la solitudine e la difficoltà ad ambientarsi in un paese freddo dove veniva guardata con un certo disprezzo, dove le compagne del collegio non sapevano neppure dove fosse la sua isola.

   La narrativa di Caherine Bardon è vivida e vivace e, se ha molto del feuilleton, è perché la vita stessa di Flor de Oro fu una vita da feuilleton, che sarebbe incredibile se non fosse vera. Ad iniziare dai nove- sì, nove- mariti. Quello per Porfirio Rubirosa era stato veramente un grande amore, il colpo di fulmine della giovinezza. Lei sapeva che lui la tradiva, sapeva della sua esistenza dissoluta, eppure, anche dopo il divorzio, avrebbe continuato ad amarlo. Aveva amato qualcun altro, veramente, dopo quell’uomo che la chiamava Fleur? Forse il medico che l’aveva tirata fuori dalle sue dipendenze, dall’alcolismo, dai disturbi alimentari, dalla depressione. Da questo marito non aveva divorziato- era morto in un incendio. E gli altri? C’era sempre il padre dietro gli altri. Anzi, c’era il dittatore che non tollerava offese al suo onore, non accettava da lei comportamenti disdicevoli a cui l’unico rimedio era il matrimonio. E molto spesso c’era un tornaconto economico o politico dietro quei matrimoni.

Rafael Trujillo

  E poi era stato uno shock per Flor de Oro scoprire chi fosse veramente suo padre. Era possibile scindere la persona del padre a cui la legava un rapporto complesso da quella che affogava nel sangue il suo paese, che aveva un ego smisurato, che coltivava il culto della personalità, che aveva costantemente umiliato sua madre e lei?

    Non si può fare un paragone tra “Flor de Oro” di Catherine Bardon e “La festa del caprone” di Mario Vargas Llosa. Il romanzo di Vargas Llosa è un capolavoro, opera di un gigante della letteratura, ma il romanzo di Catherine Bardon illumina la sofferenza di una donna vittima di un rapporto malsano con un padre dominatore- nella bella copertina la luce è su di lei, Flor, con il suo viso aperto e il sorriso che conquista, lasciando nell’ombra la buia figura de ‘l’orco dei Caraibi’.



giovedì 13 giugno 2024

Gianni Dubbini Venier e Giovanni Fantoni Modena ed. 2024

                                                                          Casa Nostra. Qui Italia

   seconda guerra mondiale

Gianni Dubbini Venier e Giovanni Fantoni Modena

Ed. Neri Pozza, pagg. 224, Euro 18,05

 

    Singapore, Singapura, ‘la città del leone’ in malese, situata sull’estrema punta della penisola malese, su una delle 58 isole che formano un arcipelago.

   Singapore oggi, città stato, quarto principale centro finanziario del mondo, città cosmopolita, secondo paese più densamente popolato del mondo, con un porto che è tra i primi cinque per attività e traffico mondiale.

   Singapore nel passato. Città contesa dalle potenze europee per la sua strategica posizione geografica, passata e ripassata di mano dagli olandesi agli inglesi finché nel 1824 il trattato anglo-olandese accordava ai britannici il controllo di Malacca e Singapore e in cambio gli olandesi ottennevano l’evacuazione britannica di Sumatra, Giava e isole vicine. La Compagnia inglese delle Indie Orientali assumeva dunque il controllo amministrativo di Singapore. Alla fine della prima guerra mondiale gli inglesi realizzarono la grande base navale di Singapore- doveva essere il baluardo contro una possibile invasione giapponese. Singapore sarebbe stata imprendibile.


    E invece Gianni Dubbini Venier, nel suo libro scritto con Giovanni Fantoni Modena, ci racconta quello che accadde alla città imprendibile in cui, nel febbraio del 1942, entrò vittorioso l’esercito giapponese, arrivato da terra e non dal mare verso cui era puntata tutta la difesa- sei giorni di combattimento e poi la resa. Winston Churchill l’avrebbe definita come ‘il peggior disastro e la più grande capitolazione della storia inglese’.

  “Fuga dalla fortezza celeste” ha il fascino del romanzo che è una storia vera, una storia personale con un protagonista ‘vero’ che si muove nella grande Storia e ne porta le cicatrici nel corpo e nell’anima, che è, nello stesso tempo, un grande romanzo di avventura con qualcosa di salgariano nelle descrizioni dello stentato avanzare del gruppo di soldati fuggiaschi nella giungla.


    Si chiama Charles McCormac l’eroe del romanzo e definirlo ‘eroe’ non è solo perché ricopre il ruolo di protagonista delle vicenda, ma perché lo fu veramente- gli fu conferita una medaglia al valore alla fine della guerra. McCormac era un ufficiale della RAF, era già scampato una volta alla morte quando il biplano sul quale volava era precipitato in mare per un guasto, a Singapore aveva sposato una ragazza euroasiatica che era in attesa del loro primo figlio quando i giapponesi conquistarono la città. Lui fece a tempo a farla imbarcare in fretta e furia su una nave affollata di civili in fuga prima che succedesse il peggio. Perché sappiamo la violenza e l’indiscriminata crudeltà dei soldati nipponici che facevano rotolare teste per terra con le loro katane. Charles fu preso prigioniero e internato nel campo di Pasir Pajang dove capì presto che sarebbe morto se non avesse tentato la fuga. Meglio morire fuggendo che sotto le indescrivibili torture che aveva assaggiato. Furono in diciassette a tentare la fuga e solo due di loro dovevano farcela in quei disperati cinque mesi attraverso la giungla indonesiana e poi l’ancora più disperato tentativo di raggiungere l’Australia in una imbarcazione di fortuna.

le singolari case di Minangkabau in cui si imbatterono i fuggitivi

Furono aiutati, a rischio della vita, da indigeni locali ma non furono risparmiati da fame, sete, febbri, malaria, punture di insetti. In realtà un altro di loro sopravvisse e la sua è una piccola storia insolita dentro quella principale- era un donnaiolo, si era innamorato di una ragazza del villaggio che aveva offerto loro ospitalità e non era voluto ripartire. Anni più tardi, a guerra terminata da un pezzo, Charles avrà notizie di lui…
Giovanni Fantoni Modena

   Leilani McCormac Stafford, una delle figlie di Charles McCormac, ha messo l’archivio di famiglia a disposizione degli autori per questo romanzo che termina con un’interessante e intrigante considerazione sulla Singapore di oggi, vista come un ‘assaggio del nostro futuro’, perché ‘un processo di singaporizzazione è in atto in tutti i continenti’. Con questo termine coniato apposta, Gianni Dubbini Venier intende quella morte dello spirito ‘in favore del Leviatano tecnologico’ profetizzata da Spengler. La caduta di Singapore non è stata soltanto l’inizio della fine del colonialismo ma anche la morte del mondo di ieri che ormai non esiste più. “A Singapore abbiamo smarrito la nostra identità”, dice lo scrittore. Ci siamo omologati, grazie alle, o a causa delle, nuove tecnologie.

    Interessante, appassionante, documentato, coinvolgente. Da leggere.



   

 

lunedì 10 giugno 2024

Cédric Gras, “Gli alpinisti di Mao” ed. 2024

                                                          Voci da mondi diversi. Francia



Cédric Gras, “Gli alpinisti di Mao”

Ed. Corbaccio, trad. Barbara Ponti, pagg. 240, Euro 20,90

 

   Se la lettura de “Gli alpinisti di Stalin” era stata una lettura appassionante  per chi ama la sfida della montagna, lo sarà ancora di più quella de “Gli alpinisti di Mao”, il nuovo libro di Cédric Gras, perché ancora più sfaccettato del precedente, perché parlare di ‘alpinisti di Mao’ ha qualcosa dell’incredibile, perché i risvolti politici della conquista delle vette acquistano la massima importanza.

  Puntualizziamo subito che, agli albori dell’alpinismo cinese, c’è una sola montagna che interessa- l’Everest con i suoi 8849 metri di altezza, si trova nella catena dell’Himalaya, al confine tra Cina e Nepal. Alla vetta si sale o da sud-est in Nepal o dal nord in Tibet. Per i tibetani il Chomolungma (‘madre dell’universo’) è un monte sacro, cercare di raggiungere la cima è un sacrilegio. Erano opposizioni ridicole per la Cina di Mao che aveva abolito qualunque religione e che mirava all’annessione del Tibet ‘cinesizzandolo’. La conquista dell’Everest era per i cinesi qualcosa di totalmente diverso da come l’avevano intesa Mallory e Irvine quando erano saliti dalla cresta Nord nel 1924 morendo nell’impresa (probabilmente ne lui né Irvine erano riusciti ad arrivare alla vetta, erano scomparsi e solo il cadavere di Mallory fu trovato 75 anni dopo), o Hillary e Tenzing che erano stati i primi a documentare il loro successo nel 1953, salendo dalla cresta Sud. A questo punto per i cinesi era una questione di onore, per loro era una sfida, non potevano essere da meno dell’Occidente capitalista. L’alpinismo cinese nasce dal dovere e non dalla passione- negli anni ‘50 in Cina non c’è neppure un alpinista.

Hillary e Tenzing

    Ed ecco che Xu Jing si trova a Mosca nel 1955 per imparare questo strano sport, l’alpinismo- non ha mai visto una parete in vita sua. Lui e altri sono stati scelti in base a criteri disparati, la loro fedeltà politica, l’avere attitudini sportive. Nel 1960 Xu Jing, insieme a Wang Fuzhou e Liu Lianman, tenteranno la scalata- devono piantare sulla vetta la bandiera cinese e lasciare lassù un busto del presidente Mao.

    Non c’è niente di certo nei resoconti delle scalate cinesi, come, del resto, per qualunque notizia giunga dalla Cina dove tutto viene piegato per aderire alla visione del partito. Quella che è certa è la diversa impostazione delle imprese- il grande numero di partecipanti perché l’alpinismo non deve essere per una élite, la mancanza di una preparazione adeguata e l’attrezzatura a dir poco ridicola. Ma tutto si fa in nome di Mao, Mao supplisce ad ogni mancanza, slogan maoisti vengono gridati dalla montagna, poco importa il numero dei morti per embolia, le dita dei piedi o delle mani amputate. Sarà vero che, durante una scalata, per superare il secondo o il terzo gradino della parete, è stata fatta una scala umana sulle spalle di Liu Lianman? La volta seguente fu portata sul posto una scala di metallo.


    C’è una foto della spedizione del 1960 in cui due cinesi e un tibetano raggiunsero la vetta- almeno questa volta ce l’avevano fatta. Perché c’erano anche altre difficoltà, oltre a quelle tecniche, ed in parte a questo è dovuto il fascino del libro di Cédric Gras, nel tracciare un quadro storico di quegli anni, con l’usurpazione del Tibet da parte della Cina, la fuga del Dalai Lama, l’assassinio di monaci, lo snaturamento dei templi, in primis quello di Rongbuk a 5154 metri di altezza, la Rivoluzione Culturale e i laogai (campi di rieducazione attraverso il lavoro forzato), la tremenda carestia che causò la morte di un numero di persone dai 20 ai 40 milioni. Neppure gli alpinisti che avevano contribuito alla gloria della Cina furono risparmiati dalle purghe.

Monastero di Rongbuk

    Il libro di Cédric Gras nasce da accurate e difficoltose ricerche ed è una narrazione avvincente, spruzzata di humour e di pietas nei confronti di uomini strumentalizzati e mandati allo sbaraglio- impossibile non fare un confronto con l’impresa ricordata del nostro Messner che il 20 agosto 1980 salì sulla cima dell’Everest da solo e senza ossigeno.