giovedì 2 maggio 2024

Chetna Maroo, “T” ed. 2024

                   Voci da mondi diversi. Gran Bretagna e Irlanda

       romanzo di formazione

Chetna Maroo, “T”

Ed. Adelphi, pagg. 148, trad. Gioia Guerzoni, Euro 17,10

 

     Per chi non è pratico del gioco dello squash (simile al tennis e a padel ma con regole e campo diversi) il T è il centro del campo, il punto dove è consigliabile spostarsi velocemente, dopo aver colpito la palla, perché è da lì che si controlla meglio il gioco.

     Per le tre sorelle, Gopi, Khush e Mona (11,13 e 15 anni), gli allenamenti erano iniziati dopo la morte della mamma. Era stata un’idea del padre, dopo che la zia aveva osservato che le tre ragazzine crescevano come selvagge, che era necessario dare loro un impegno quotidiano. E così avevano iniziato a giocare a squash sul campo di Western Lane (da qui il titolo originale). È la piccola Gopi- voce narrante del romanzo- quella che si appassiona di più, quella che prenderà parte al campionato nonostante l’opinione contraria della zia, fedele alle idee tradizionali indiane su quello che una ragazza può o non può fare. Ma la zia (moglie del fratello del padre) è contraria a tante cose- all’amicizia tra Gopi e Ged (il ragazzo ‘bianco’ con cui lei si allena), alle chiacchiere che si scambiano, fumando, il cognato e la madre di Ged, al fatto che le tre nipoti crescano da sole con il padre, mangiando quello che capita, quello che la più grande di loro è capace di mettere in tavola. E avanza la proposta, per bocca del marito, lo zio Pavan, che Gopi vada ad abitare con loro ad Edimburgo. Sarebbe una gioia per loro che non hanno figli e sarebbe un sollievo anche per il padre. E Gopi andrà a stare dagli zii, a più di 600 km. di distanza dal padre e dalle sorelle.


    Il gioco dello squash ha un ruolo importante nel libro. È in parte un passatempo ma è soprattutto una disciplina mentale e fisica, con il T che diventa metafora di vita. Si gioca, si dà il meglio di sé, si allontana il pensiero costante della mamma che non c’è più. Perché la mamma è il personaggio che non c’è e che, però, è sempre presente nelle pagine del romanzo. La mamma che parlava gujarati (ha ancora senso che le sue figlie vadano a lezione di gujarati, adesso che lei è morta?), che indossava il sari con le scarpe pesanti per il clima inglese piovoso, che si applicava il sindur, la polvere rossa, sulla scriminatura dei capelli, che leggeva loro le storie quando andavano a letto. La mamma con cui Khush parla di notte, nel corridoio. La mamma che il padre continua a vedere seduta sulla poltrona. E perché dovrebbe negarsi il piacere di parlare con la madre di Ged? Il padre si è ristretto, sia come padre, sia fisicamente-fra poco scompare nella giacca che ha sempre indossato.


    È un libro sulla perdita, sul dolore del lutto, sul rapporto tra sorelle e tra fratelli, “T” di Chetna Maroo, scrittrice indiana britannica. Un libro sulla rielaborazione del lutto, su come affrontarlo senza lasciarsi sommergere dal dolore, un libro sul conforto che i legami famigliari possono dare. È anche un libro sul diventare grandi, sullo stupore pieno di incertezze nello scoprire i cambiamenti del corpo (dolcissima la scena in cui la sorella più grande di solo due anni tranquillizza Gopi, sgomenta alla vista del primo sangue), nel provare sentimenti finora sconosciuti di attrazione verso un ragazzo, nel desiderare di vederlo anche solo per giocare a squash con lui. Ognuno dei personaggi soffre e reagisce in maniera diversa- Mona si trova un lavoro (quanta delicatezza nel fare in modo che il padre non si senta umiliato quando è lei a pagare), Khush continua a parlare con una mamma che le ha lasciate e lui, il padre, lui è quello che sta per crollare, che si risolleva grazie alla vittoria insperata della figlia.

    La semplicità e la dolcezza sono le cifra narrativa di questo breve romanzo soffuso da un’aura di nostalgia e di spaesamento in cui è la coesione famigliare a dare la forza per affrontare la perdita.



martedì 30 aprile 2024

Aravind Jayan, “Giovane coppia si diverte all’aperto” ed. 2024

                                                          Voci da mondi diversi. India

                 love story

Aravind Jayan, “Giovane coppia si diverte all’aperto”

Ed. Guanda, trad. Elisa Banfi, pagg.231, Euro 18,00

     Sreenath non esce dalla sua camera neppure per vedere la nuova automobile, una Honda Civic, che suo padre ha appena acquistato. Appa e Amma (papà e mamma) sono in ammirazione davanti a quell’auto che rappresenta la posizione che si sono guadagnati con tanto lavoro e fatica e già immaginano la curiosità e la sottile invidia dei vicini di casa. Dunque, perché il figlio maggiore non viene ad ammirarla? Lo scopriranno tra poco.

   C’è un video che circola in rete, un video che poi verrà definito da alcuni ‘porno’, un video che riprende Sreenath e Anita, la sua ragazza (nonché compagna di università), che amoreggiano in maniera spinta in un parco. Appa e Amma, del tutto inesperti delle nuove tecnologie, sono inorriditi e scioccati. Come ha potuto il loro figlio comportarsi così? E la ragazza? Oltretutto si vergognano, perché che spiegazioni potranno dare ad amici e parenti, quando questi verranno a sapere? Perché di certo la notizia è troppo ghiotta, sa troppo di scandalo piccante e pruriginoso, per non diffondersi a macchia d’olio.

   La famiglia di Anita sembra essere l’ultima a sapere. E il padre e la madre si presentano in casa di Sreenath…


   Noi sappiamo tutta la storia dalla voce del fratello minore, un punto di vista ideale perché è diviso fra la comprensione e, sì, la compassione per Appa e Amma, e la solidarietà, insieme ad un pizzico di invidia, per il fratello maggiore. È una voce simpatica e ironica che spesso ride di se stesso, che, tutto sommato, ammira l’audacia del fratello e vorrebbe imitarlo (con scarso successo, perché forse è troppo ‘imbranato’ per attirare l’attenzione di una ragazza). Da lui cogliamo la spaccatura tra due Indie, quella tradizionale, delle ragazze in sari, dei matrimoni combinati con gli sposi che a volte neppure si sono mai incontrati prima, dei tuk tuk che a poco prezzo ti trasportano da una parte all’altra della piccola città, Trivandrum, nel Kerala, e l’India moderna, che è quella dei giovani che sono cresciuti con le nuove tecnologie e gli smart-phones, delle ragazze che indossano i jeans, vanno all’università, fanno coppia con i ragazzi, hanno atteggiamenti impensabili al tempo dei loro genitori.

    C’è una escalation nella vicenda dello scandalo per la diffusione in rete del video e nello stesso tempo cresce nel fratello minore il desiderio di scappare, di evadere da questo ambiente asfittico. Mentre sia Sreenath sia Anita sono andati a convivere, mentre i genitori di Anita esigono quello che un tempo si sarebbe chiamato ‘un matrimonio riparatore’ per poter poi minimizzare la scenetta erotica, mentre Appa disconosce il figlio maggiore, lui, il figlio minore, smette di cercare un lavoro in posti il più lontano possibile (è divertente come prenda in giro se stesso in questa ricerca che sa non lo porterà da nessuna parte), prende un autobus per Bangalore.


   E poi? Sono felici, da sposati, Sreenath e Anita? Qualcuno è riuscito a far cancellare il video dai vari siti su cui accumula visualizzazioni? La scena nell’ufficio della polizia è un quadretto divertente dell’indice dei tempi. Anche il finale è uno specchio dei tempi e dei nuovi mezzi di comunicazione: Magari un giorno ci aggiungeremo tutti su Facebook e ci comporteremo da amici.



lunedì 29 aprile 2024

Annick Emdin, “Io sono del mio amato” ed. 2024

                                                                      Casa Nostra. Qui Italia

                 love story

Annick Emdin, “Io sono del mio amato”

Ed. Nord, pagg 240, Euro 17,00

 

Io sono del mio amato e il mio amato è mio; egli pascola il gregge tra i gigli.

Sono bellissimi questi versi del “Cantico dei cantici” che troviamo in apertura del romanzo di Annick Emdin e poi li ritroviamo in chiusura nell’andamento circolare della storia della famiglia Kogan che inizia con un matrimonio e termina con un altro matrimonio- è il cerchio che si chiude, simboleggiato dagli anelli nuziali in cui è inciso il verso e che passano dalla mano del nonno a quella del nipote e della sua giovane moglie.

    Teniamo a mente questi versi, perché ci promettono amore eterno in una storia che è anche piena di dolore e di tragedia, di morte e, sì, anche d’amore, di una duplice forma di amore spesso difficile da conciliare.

Sono due anche i tempi della narrazione, nel passato e nel presente in cui la storia di una famiglia si inserisce nella grande Storia.


    Boryslav, uno shtetl in Ucraina, 1941. Chaim Kogan ha appena spaccato il bicchiere sotto i piedi, come vuole il rito della cerimonia, la musica inizia a suonare, ma lui non fa neppure a tempo a baciare la sua novella sposa- un proiettile le ha trapassato la schiena.

Leggerete come Chaim riesca a scampare alla carneficina e che cosa ne sarà di lui nei terribili anni fino alla fine della guerra e come riesca ad arrivare in un kibbutz nella Terra Promessa. Non è più il giovane sposo che ha visto infrangersi i suoi sogni, Chaim ha anche imbracciato un fucile, ha aggiunto altri morti a quelli intorno a lui. Poi l’incontro con una donna, bellissima, che risveglia in lui un ricordo lontano. Per lei Chaim diventa uno charedi, un ebreo ultraortodosso, ritrova una fede che credeva di avere perduto.


    Gerusalemme 1995. Levi Kogan è uscito da Mea Shearim- non lo faceva quasi mai- per cercare un libro di note al Talmud. Guarda con curiosità gli altri passeggeri dell’autobus- sono tutti così diversi dagli ebrei vestiti di nero, con il cappello a larga falda e i riccioli a lato del viso, che si incontrano nelle strade di Mea Shearim e che sono esattamente come lui. Per non parlare delle donne che addirittura lo guardano negli occhi.

Poi un clic, la soldatessa bionda che gli aveva sorriso lo spinge contro la porta dell’autobus, gli fa scudo con il suo corpo. L’esplosione. Lei gli ha salvato la vita.

   A volte succedono cose, nella vita, che servono (sembra un gioco di parole) da detonatore, che fanno venire alla luce qualcosa che già era dentro di noi. Levi sente che non è sufficiente pregare e leggere i testi sacri, che non è giusto delegare agli altri la sopravvivenza di Israele, che deve anche lui arruolarsi.


   Nei capitoli del passato la storia di Chaim che prima rinnega un Dio che ha permesso Auschwitz e poi Lo ritrova in un estremismo religioso, in quelli del presente la storia di Levi, un Candide (o il John che arriva nel “Coraggioso Nuovo Mondo” di Huxley) che si lascia la famiglia alle spalle per scoprire una realtà di cui non sapeva nulla, che lo riempie di entusiasmo e di ammirazione e anche di sconcerto. E scopre anche l’amore.

   Tutto è bene quel che finisce bene, nelle parole del titolo della commedia di Shakespeare. Il finale è un poco banale e semplicistico, ma il libro offre spunti di riflessioni sulla storia passata d’Europa, sul genocidio degli ebrei, sulla stessa esistenza di Dio, sulla capacità di risorgere dalle ceneri, sulla licenza di uccidere che sembra essere data ai soldati, sugli estremismi religiosi e politici, sull’amore, infine. Su quell’amore che supera ogni egoismo, l’amore tra coniugi, tra genitori e figli, tra nonni e nipoti.

Io sono del mio amato e il mio amato è mio; egli pascola il gregge tra i gigli.

                                             



 

 

venerdì 26 aprile 2024

Eleonora Lombardo, “Sea Paradise” ed. 2024

                                                                   Casa Nostra. Qui Italia

                 distopia

Eleonora Lombardo, “Sea Paradise”

Ed. Sellerio, pagg 272, Euro 16,00

     Ho provato la stessa emozione, lo stesso entusiasmo, leggendo il romanzo “Sea Paradise” di Eleonora Lombardo, che provai molti, anzi moltissimi anni fa, quando lessi per la prima volta “1984” di Orwell e “Coraggioso nuovo mondo” di Huxley. Per l’inventiva e la lucidità, per la ricchezza di dettagli che rendono del tutto credibile la prospettiva di un mondo futuro, la trasformazione del nostro ormai vecchio mondo in un altro in cui tutto è rinnovato e cambiato.

    Siamo in un imprecisato futuro, dunque. Sea Paradise è il nome di una gigantesca nave da crociera che contiene in sé una doppia promessa. La prima promette un viaggio paradisiaco (sarà di otto giorni e sette notti) con l’offerta di tutti i possibili piaceri del vecchio mondo, “mangiare, bere, fare qualunque cosa lecita e illecita”. La seconda promessa, nascosta dietro la prima, è quella di trovare un paradiso in mare, di fare un viaggio senza ritorno. I partecipanti lo sanno benissimo ma preferiscono non pensarci. E poi non è detto che capiti proprio a loro, di terminare questa volta la loro vita. Sapremo poi che la scelta delle persone ‘a termine’ viene fatta in base alle loro condizioni di salute, ai possibili costi futuri per il loro mantenimento che peserà sullo Stato. In pratica farà più giri, più crociere, chi costa di meno allo Stato, per un massimo di dieci. È una strategia di contenimento energetico del pianeta e forse non è neppure la maniera peggiore di abbandonare la scena.


      Elvira ed Amanda sono due amiche che hanno compiuto da poco settant’anni. Hanno due personalità opposte- Elvira razionale e severa, è stata un’insegnante, ha avuto un marito e due figli; Amanda è amabile di nome e di fatto, leggera come una farfalla, ha fatto l’attrice di teatro, ora l’Alzheimer l’ha resa smemorata, ma in una maniera ariosa e leggera. Sono amiche come non ce ne sono più nel nuovo mondo dove le amicizie sono improntate alla collaborazione, dove si diventa soci per un obiettivo comune. È Elvira che ha deciso di iscrivere entrambe alla crociera, proprio per accompagnare Amanda in questo viaggio. Non che avessero molta scelta. A settant’anni si è vissuto e si è dato abbastanza, secondo la politica attuale. A settant’anni si è un peso e lo Stato offre questa fantastica crociera. C’è la libertà di non accettare, ma in tal caso non avrà più nessun supporto dallo Stato- niente cure mediche, niente ricoveri in ospedale, non potrà tenere neppure la casa in cui abita, perché servirà a qualche coppia giovane.


   Amanda ed Elvira salpano sulla Sea Paradise. La descrizione della vita a bordo, di tutti i piaceri a disposizione, degli Impeccabili che sono al loro servizio (privandole peraltro di ogni libertà), degli altri ospiti che impariamo a conoscere anche noi (Il brillante anziano che Elvira soprannomina Achille, l’imponente Julie che è lesbica e si trova una compagna in un ultimo amore, i gemelli italiani, l’antipatico Diego), è piena di inventiva e resa in colori così vividi che anche noi lettori abbiamo l’impressione di essere a bordo.

    Mentre un giorno scivola in un altro, mentre Elvira osserva che ogni tanto qualcuno scompare, quello che succede a bordo della nave che solca il mare- eterna metafora di vita-, la maniera in cui la sorte (o meglio lo Stato o un computer che elabora i dati) decide chi farà questa unica crociera e come passerà (senza accorgersene, godendo della vita fino all’ultimo) nell’aldilà, creano in noi un’aspettativa intrigante. E i capitoli delle attività giornaliere, con i ‘ruoli’ assegnati ad ognuno perché siano impegnati (Elvira è guardiana delle farfalle), con le stravaganti richieste di Amanda del cibo che più le piace, si alternano a brevi capitoli sulle norme che regolano la crociera, i Protocolli diversamente numerati. È un’alternanza di forte contrasto- l’allegria e il divertimento da una parte, la fredda razionalità e il cinismo dall’altra.


    Se dovessi fare un paragone, questo Stato del futuro che si contrappone- e con un certo rimpianto- a quello del passato, assomiglia al paese degli Houyhnhnms, i cavalli intelligenti, razionali e perfetti, dove arriva Gulliver nel suo ultimo viaggio. Perfino le disposizioni sulla famiglia e sulla procreazione nel nuovo mondo assomigliano a quelle decise dagli Houyhnhnms per evitare il sovrappopolamento.

    Un romanzo che ha il carattere della novità, che offre molti spunti di riflessione sulla ‘terza età’ (invecchiare vuol dire aver paura dell’attimo dopo) senza mai comunicare tristezza, con un doppio finale per le due amiche. Sembra tutto impossibile? Ricordiamo che cosa hanno anticipato Orwell e Huxley nei loro libri.

Da leggere.



  

     

mercoledì 24 aprile 2024

Tore Renberg, “La mia Ingeborg” ed. 2024

                                                                   Vento del Nord

 

Tore Renberg, “La mia Ingeborg”

Ed. Fazi, trad. Margherita Podestà Heir, pagg. 180, Euro 17,10

   Conosciamo il protagonista del romanzo di Tore Renberg (candidato al Premio Strega 2024 per la letteratura straniera) in una immagine di sangue- gli è caduto un dente, sta perdendo sangue dalla bocca. Fuori la luna pende sui boschi del Vestfalia, ha piovuto tutto il giorno.

Sono tutti dettagli che ci fanno entrare nell’atmosfera cupa di questa storia che lui ci racconterà, presentandosi alla fine del primo capitolo. Sono Tollak di Ingeborg. Appartengo al passato. Lungi da me l’idea di trovare il mio posto da qualsiasi altra parte.

    Ci ha già detto tutto, Tollak. Tollak che non appartiene a se stesso, ma a Ingeborg. L’amavo in maniera totale, come nessun altro uomo ha mai amato una donna e maledico le forze demoniache che me l’hanno portata via.

I tempi sono al passato, è chiaro che Ingeborg, la sua Ingeborg, non c’è più- quando sapremo perché e come? Tollak vive da solo e ha chiesto ai due figli di venire a trovarlo, deve parlargli. In realtà c’è un’altra persona che vive con lui, anche se per lo più sta nella stalla- è Oddo che in paese chiamano Oddoloscemo. Oddo che propriamente si chiama Otto ma non è mai riuscito a pronunciare la T, che è stato affidato a Tollak dalla madre che non riusciva più a gestirlo e a sopportarlo, che Tollak ha imposto a moglie e figli, che ha difeso con la forza dai bulli del paese.


   È un lungo monologo quello che leggiamo. Tollak ricorda quando si è innamorato di Ingeborg, quando l’ha chiesta in sposa (malvisto dal padre di lei), quando discutevano perché lei avrebbe voluto andare a vivere in città, soprattutto dopo che la segheria di Tollak aveva iniziato a non avere abbastanza clienti, quando lui la accompagnava in auto ad un bar in città dove lei incontrava le amiche. Lui era geloso del tempo che lei passava con loro, gli pareva che non facessero che chiacchierare di stupidaggini. C’era poi il suo rapporto con i figli, il maschio che assomigliava ad Ingeborg, la femmina che adesso viveva a Oslo e aveva rinnegato le sue origini.

   Tollak è un uomo passionale ed egocentrico che vive nel passato e non vuole avere niente a che fare con il mondo esterno- e infatti si sbarazza della televisione e della radio, disdice l’abbonamento al giornale. Non ha contatti con nessuno, tranne che con Oddo con cui va a caccia, dopo la scomparsa di Ingeborg.


   Perché ha chiesto ai figli di venire? Perché ha urgenza di parlare con loro? Perché i figli sono così restii a venire? sono due i grossi segreti che Tollak si è tenuto dentro. Di uno ci ha parlato con dovizia di dettagli (e non ce lo aspettavamo), avevamo sospettato l’altro, come lo avevano sospettato pure i suoi figli.

   È un libro intenso e pieno di dolore, “La mia Ingeborg”, con un protagonista rabbioso che sceglie la solitudine facendo il vuoto attorno a sé, che vive nel rimpianto e nel ricordo, nella bolla di un grande amore per la donna della sua vita. Amava veramente così tanto la sua Ingeborg?

    In Norvegia di questo dramma è stato fatto un adattamento teatrale.



 

lunedì 22 aprile 2024

Daria Shualy, “La calda estate di Mazi Morris” ed. 2024

                                           Voci da mondi diversi. Israele

cento sfumature di giallo

Daria Shualy, “La calda estate di Mazi Morris”

Ed. Neri Pozza, trad. Raffaella Scardi, pagg. 335, Euro 19,00

 

     Questo è un noir come non ne avete mai letti, ambientato in una Tel Aviv che potrebbe anche essere New York per lo stile di vita che ci si conduce, in un Israele lontano anni luce da quello dei ‘gialli’ di Batya Gur, forse la prima scrittrice israeliana di gialli che io abbia letto trent’anni fa. Già, trent’anni fa. E in trent’anni le società cambiano, perfino i ricordi del passato più tragico possono affievolirsi.

    È un’estate caldissima a Tel Aviv. E Jasmin Schechter è scomparsa. Era in un bar all’aperto con il marito David, chiamato Dudi, e la bambina di tre anni. Dudi era entrato a prendere qualcosa da bere, un’auto (grigio metallizzato? Lo ha detto la bambina, le si può credere?) si è fermata e Jasmin si è accostata per dire qualcosa al conducente, aprendo la portiera. Poi è scomparsa. Jasmin che adorava la bambina, che, quando doveva passare qualche giorno lontano da lei, le telefonava ogni sera, non si è più fatta viva. È il marito che incarica l’investigatrice privata Mazi Morris di ritrovarla.


    Mazi è un personaggio unico e sorprendente. Iniziamo dal suo nome: Mazal vuol dire ‘fortuna’, ma lei non ne ha avuto affatto di fortuna nella vita. Non anticipo nulla, perché lei stessa ne parlerà solo verso la fine, quello che invece è un refrain costante è la nostalgia per il padre di cui, ad un certo punto, non ha saputo più niente, e però lei non ha mai perso la speranza di ritrovarlo. Suo padre era un grande amico del padre di Dudi e loro due erano inseparabili da bambini. Poi Mazi, capelli rasati, fisico da ragazzino, era entrata in polizia diventando uno degli elementi migliori, ma era stata ‘cacciata’ per comportamento inadeguato. Adesso è un’investigatrice privata e il fratello e la sorella adottivi sono i suoi aiutanti. Non ci vuole molto per capire quale sia stata ‘l’inadeguatezza’ di Mazi. Quando, in momenti di stress, dice di aver bisogno di una dose, non pensate che si tratti di droga, anche se a lei fa lo stesso effetto. Mazi è una ninfomane, ha bisogno di rapporti sessuali per rilassarsi e lavorare più lucidamente. Non importa con chi, anche se preferisce le sue conoscenze fisse- il suo vicino di casa, per esempio. E, paradossalmente (o forse no), non ha un rapporto fisico con un giornalista d’indagine di cui è innamorata.

    Dunque, Jasmin Schechter è scomparsa. Sembra che sia accaduto altre volte, in passato, che scomparisse. Una volta, addirittura, l’avevano ritrovata che faceva la cameriera all’Eliseo. Gli Schechter sono una potenza a Tel Aviv. E forse c’è qualcosa di vero quando si dice che enormi quantità di denaro non sono mai un guadagno pulito. Infatti. Se si alza il coperchio di una immaginaria scatola con l’etichetta ‘Schechter’ viene fuori di tutto. Corruzione, appalti pilotati, edifici di proprietà affittati a tenutarie di bordelli, traffico d’armi e, a livello privato, c’è ben altro ancora, difficile dire se è di peggio. Di certo, noi restiamo inorriditi.


    Il primo romanzo di Daria Shualy è un noir singolare- ci sono i delitti e ci sono i morti ma non c’è la tensione colma di paura in attesa di un assassinio, c’è un’indagine doppia, una per la ricerca della giovane Jasmin, e una che fornisca la spiegazione di tutto quello che è avvenuto e chi ne sia il responsabile. Non si tratta però solo di una ‘piccola’ vicenda famigliare, il quadro è ben più vasto, quello che si scopre riguarda un intero paese puntando il dito dell’accusa a personaggi in vista nel mondo della politica e dell’economia. E mai ci ricorderemmo che tutto sta accadendo in Israele, se non ci fosse la guerra sullo sfondo, le sirene d’allarme che seminano il panico, le esplosioni, il tracciamento dei razzi nel cielo.



sabato 20 aprile 2024

Laura Forti, “La figlia inutile” ed. 2024

                                                                     Casa Nostra. Qui Italia

           Storia di famiglia

Laura Forti, “La figlia inutile”

Ed. Guanda, pagg. 256, Euro 18,05

   Io sono quella che spazza le foglie sopra una tomba vuota.

È un’immagine che ci colpisce, quella con cui inizia il nuovo romanzo di Laura Forti. Con delle parole che ci incuriosiscono. Con un’immagine di tristezza infinita. ‘Io sono quella’- vuol dire che non c’è nessun altro che serbi il ricordo della persona defunta? Perché non c’è dubbio che sentiremo la storia di una persona che non c’è più, perché le foglie sul terreno sono foglie di autunno, foglie morte, e poi c’è questa tomba che, però, è vuota, lungo il muro del cimitero ebraico, in una zona destinata ai suicidi o a coloro che hanno voluto essere cremati. Ed ecco che sappiamo: sotto la lapide c’è un’urna con le ceneri della nonna della scrittrice.

   In realtà la nonna Elena aveva espresso il desiderio che le sue ceneri venissero versate nelle acque della Mosella in Francia, dove era nata. Ma alla figlia, la madre della scrittrice, era sembrato complicato e costoso, portarle là. E così le ceneri erano rimaste lì, ma la nonna dove era? L’avevano mai conosciuta veramente?


   Ecco il desiderio di sapere di più su di lei, perché, se chi non c’è più è da qualche parte, è in noi, conoscendo loro conosciamo noi stessi. E allora la storia della nonna diventa la storia della famiglia Dresner e anche la storia del tempo in cui i Dresner hanno vissuto. C’è un’affinità iniziale tra la nonna e la scrittrice- in qualche maniera quel sentirsi ‘la figlia inutile’ di Elena (da bambina era stata lasciata in Francia con una ‘tata’, quasi fosse un di più, quando la madre, il padre, la sorella e il fratello si erano trasferiti in Italia) trova un riscontro nella scrittrice, l’unica figlia cresciuta nella religione ebraica- e forse era per questo che la mandavano spesso dalla nonna che accendeva le candele dello Shabbat e a volte le parlava in yiddish-, la figlia diversa che aveva un altro padre.

   La frase di Tolstoj sulle famiglie infelici è fin troppo conosciuta, possiamo creare una variante, che le storie di famiglia non sono poi molto diverse le une dalle altre, ma alcune sono decisamente diverse. Prendiamo i Dresner. Fuggiti dalla Russia dopo il terribile pogrom di Kishinev del 1903, arrivati in Francia, da lì poi in Italia e dopo ancora, in seguito alle leggi razziali, scappati in Cile. Ci vuole una resilienza eccezionale, ci vogliono una forza d’animo e una capacità di riinventarsi ricominciando da capo, ci vuole lo spirito dei Dresner, come si diceva nel loro lessico familiare.


   Sono due i personaggi che giganteggiano nella storia di famiglia del romanzo- il bisnonno Giulio e la nonna Elena. Il bisnonno Giulio che in realtà non si chiamava affatto così. Il suo nome era Jezszaja, impossibile farlo capire all’impiegato che doveva registrare la nascita della sua prima figlia a Parigi. L’impiegato aveva scritto Gilles, poi diventato Jules, Giulio in Italia, Julio in Cile. Dresner in origine aveva un suono più duro, con la z, e in Italia sarebbe diventato Dresneri. Sembra cosa da poco, un nome, e invece è indice della capacità camaleontica di adattarsi. In Italia Giulio aveva raggiunto un alto livello nella banca del Credito Italiano, conosceva di persona Mussolini, si era illuso di poter aggirare le leggi razziali.

     Se la ricostruzione del passato più lontano si basa su ricerche accurate in cui i vuoti di vita vissuta sono riempiti dall’immaginazione, quella di un tempo più recente si avvale dei racconti della stessa nonna, ancora una volta in fuga in Toscana durante la guerra, lontana da un marito che l’aveva tradita con sua sorella, lontana dai genitori ormai in Cile, incapace di superare il primo trauma dell’abbandono quando era bambina, bisognosa di amore, capace di far fronte alle difficoltà- come tutti i Dresner. E adesso che non c’è più, tutte le statuine di gatti che collezionava dovrebbero essere vendute? Le prenderà lei, la scrittrice, perché anche gli oggetti hanno una voce, contengono un ricordo. Come questo libro, che salva il ricordo della nonna.