domenica 29 agosto 2021

Aki Shimazaki, “Suisen” ed. 2021

                                                         Voci da mondi diversi. Giappone

Aki Shimazaki, “Suisen”

Ed. Feltrinelli, trad. Cinzia Poli, pagg. 165, Euro 13,00

   

   Ricordiamo bene Goro Kida, personaggio marginale del primo libro della pentalogia di Aki Shimazaki, ognuno con un fiore nel titolo. Il primo era “Azami” (il fiore del cardo), il secondo “Hozuki” (l’alchecengi) e questo terzo “Suisen”, il narciso. In “Azami” Goro era il vecchio compagno di scuola del protagonista Mitsuo, l’uomo un po’ tronfio e sbruffone, orgoglioso della sua posizione sociale come presidente di una famosa azienda produttrice di whisky, che aveva portato Mitsuo nel locale dove Mitsuke, che aveva frequentato la loro stessa scuola, lavorava come entraineuse.

   In “Suisen” Goro Kida ha il ruolo principale. Per noi occidentali l’allusione del fiore che dà il titolo al romanzo è chiara fin dall’inizio- il mito di Narciso innamorato di se stesso che cade nello stagno cercando di baciare il proprio riflesso. Nel romanzo il narciso è un leit motiv che si rincorre- era disegnato su una cravatta che uno dei suoi primi amori aveva regalato a Goro e che lui aveva disdegnato (sia la cravatta sia la ragazza a cui non aveva avuto il coraggio di dire che si sposava il giorno dopo aver ricevuto quel regalo), illumina di giallo una scena del film in cui la prima attrice è l’amante numero uno di Goro. Perché c’è anche un’amante numero 2. E la moglie, naturalmente.


    È un uomo pieno di sé, Goro. E anche molto sicuro di sé. Quando, all’inizio, va con la figlia universitaria alla proiezione del film di cui tutti parlano, non ha il minimo dubbio che l’attrice/amante sarà felice di farsi fotografare accanto a lui (non gli deve forse tanto?) e passerà la notte con lui. E invece resta deluso. E gli ci vorrà un po’ per capire che lei non ne vuole sapere più di lui, lei dovrà dargli il benservito in faccia E alla presenza dell’uomo che sposerà.

   È il primo smacco per Goro. Il primo sasso di una valanga che finirà per travolgerlo. Sembra quasi una congiura contro di lui- l’amante numero uno, poi l’amante numero due, la moglie (aveva mai saputo che la moglie era in terapia da uno psicologo a causa sua e dei suoi tradimenti?), il figlio che pare voglia fargli un dispetto rifiutando di iscriversi ad una facoltà di commercio che lo prepari a dirigere la loro azienda, il suo titolo di Shacho (presidente di un’azienda) a cui non avrà più diritto.


   Ma Goro non è uno stupido. Pur tramortito e incredulo per quello che gli sta succedendo, Goro pensa e ricorda. Si mette in macchina e fa un breve viaggio, e questa volta il viaggio è un percorso simbolico alla scoperta di sé, l’occasione per rielaborare i traumi della sua infanzia- la sua prima ragazza, quella che studiava psicologia e gli aveva regalato la cravatta con il narciso (che rispunta fuori a proposito da un cassetto della sua matrigna), gli aveva detto che era un bambino ferito e che non riusciva a diventare un adulto per questo.

   Piccoli, piccolissimi cambiamenti si succedono in Goro. E no, non finirà annegato in uno stagno come Narciso.

   Con il suo stile minimalista, con il tocco di un pennello giapponese a punta fine, Aki Shimazaki traccia il ritratto di un uomo che ci era risultato dapprima antipatico, e lo fa con grande umanità, senza mai giudicarlo. Facendo cambiare l’idea che ci eravamo fatta di lui.

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sabato 28 agosto 2021

Georges Simenon, “Il piccolo libraio di Archangelsk” ed. 2016

                                                          Voci da mondi diversi. Francia

cento sfumature di giallo

Georges Simenon, “Il piccolo libraio di Archangelsk”  

Ed. Adelphi, trad. M. Romano, pagg. 172, Euro 12,00

 

    C’è già tutto nel titolo. Jonas Milk è un libraio, vendere libri lo colloca un poco sopra agli altri commercianti che hanno la bancarella sul mercato del piccolo paese in Francia, al di sopra anche del macellaio o del panettiere o del gestore del bar. Jonas Milk è ‘piccolo’- forse lo è anche di statura ma è un uomo ‘piccolo’ che ha scelto di passare inosservato, di confondersi tra gli altri, senza grandi virtù e grandi vizi. Jonas Milk è originario di Archangelsk, in Russia. Nessuno sa neppure di preciso dove sia Archangelsk, a nessuno interessa che Jonas è nato in Russia ma era bambino quando era fuggito con i genitori. Aveva una storia di famiglia drammatica alle spalle che però non interessava a nessuno- di sorelle che non ricordava e che erano rimaste laggiù, di un padre che era tornato ad Archangelsk e di cui non si era saputo più nulla, di una madre che aveva ‘rincorso’ il marito ed era scomparsa pure lei. Il destino di Jonas Milk è nel suo essere invisibile e nello stesso tempo sempre un estraneo suo malgrado.


    Era stata la madre di Gina a chiedergli di prendere la figlia come domestica in casa, prima, e di sposarla, poi. Gina, di una famiglia italiana, bella e passionale. Con quanti uomini era già andata, Gina? Quando Jonas le fa la proposta, non si illude che lei possa amarlo. Neppure pensa che lei possa prenderlo in considerazione. L’unica cosa che lui le può offrire è tranquillità. A Gina, con l’uomo che ama in prigione, deve sembrare abbastanza. Forse anche perché sa che lui la lascerà libera, non si intrometterà nelle sue avventure. Lo sposa.

     Una sera Gina dice che l’amica le ha chiesto di fare da baby-sitter perché andrà al cinema con il marito. Non è una novità, glielo chiede più o meno una volta al mese. Jonas osserva solo che Gina non ha preso con sé il libro da leggere, come fa di solito.

    Gina non rientra quella sera. E neppure il giorno dopo. E neppure quello dopo ancora. Dalla prima menzogna di Jonas che, al bar, dice che la moglie è andata a trovare un’amica nella città vicina e che ha preso la corriera del mattino, si sviluppa il dramma.


     “Il piccolo libraio di Archangelsk” è uno dei romanzi ‘senza Maigret’ di quel grande e prolifico scrittore che è stato Georges Simenon. Un romanzo in cui domina il colore grigio, perché questa è l’atmosfera. Il grigio non diventa mai del colore nero dei ‘gialli’, manca la tensione di scoprire che ne è stato di Gina che è andata via senza cappotto e senza valigia ma portandosi via i preziosi francobolli collezionati da Jonas. Possiamo indovinarlo, quando ormai è troppo tardi spunta una testimone che ha idea di dove possa essere. Troppo tardi perché ormai i sospetti sono puntati su Jonas ed è questo il nodo del romanzo- le parole passano di bocca in bocca, si sospetta di lui perché è incasellato nello stereotipo dello straniero, proprio come Gina risponde allo stereotipo dell’italiana focosa come i latin lovers. Perfino il fatto che lui, ebreo, si sia fatto battezzare per sposare Gina, viene calcolato a suo sfavore.   

    La storia di Jonas è una sottile analisi psicologica di un piccolo uomo che si accontentava di amare senza essere amato, un uomo che amava troppo, che ha rinunciato a difendersi per non incriminare la donna che amava e che, alla fine, non ha retto alle pressioni esterne.  E’ un perdente o un vincente, Jonas Milk?



giovedì 26 agosto 2021

Enchi Fumiko, “Maschere di donna”

                                                         Voci da mondi diversi. Giappone

                love story

Enchi Fumiko, “Maschere di donna”

Ed. Marsilio, trad. G. Canova Tura, pagg. 207, Euro 13,00

 

   Due donne, entrambe vedove. Mieko e Yasuko. Suocera e nuora.

   Due amici. Chiamiamoli per cognome come sono sempre chiamati nel romanzo, Ibuki e Mikame.

    Una fanciulla bellissima e misteriosa di cui nessuno sa nulla. È la gemella del figlio defunto di Mieko. Si riteneva che una nascita gemellare fosse di cattivo augurio e lei era cresciuta lontana da casa, tornandovi solo dopo la morte del fratello.

    Un ambiente colto e raffinato, le due donne fanno parte di una scuola di poesia e si interessano entrambe alla possessione diabolica, quel fenomeno per cui il fantasma di un morto o lo spirito di un essere vivente si impadronisce di un’altra persona e la perseguita.

    I tre capitoli di questo romanzo, un classico della letteratura moderna giapponese, hanno per titolo il nome di una maschera di donna del teatro no: Ryo no onna (la maschera dello spirito vendicativo di una donna non corrisposta in amore), Masugami (una giovane donna pazza), Fukai (esprime un animo arricchito dalla vita). Un’ottima introduzione al romanzo ci prepara alla lettura, affascinante, espressione di una cultura diversa dalla nostra.


   C’è una donna, ancora molto bella, che ha perso un figlio e che non sembra nutrire grande affetto per la figlia che si aggira come un’ombra, come una bambina cresciuta. E c’è una donna giovane che ha perso il marito dopo neppure un anno di matrimonio e che ha scelto di restare a vivere con la suocera. Non c’è alcuna rivalità tra le due donne, tutt’altro. Uno dei due amici che le frequentano (sono entrambi innamorati di Yasuko) suggerisce che ci sia qualcosa di vischioso tra di loro, avanza addirittura il sospetto che ci sia un legame lesbico. Di certo Yasuko è soggiogata dalla forte personalità di Mieko, si lascia manovrare da lei. Se pensasse di risposarsi, quale dei due corteggiatori sceglierebbe? La risposta parrebbe ovvia, considerando che uno dei due è sposato. Ma è così ovvia? Se invece ricambiasse i sentimenti dell’altro, non dovrebbe separarsi dalla suocera…


   Un breve saggio, scritto da Mieko, su un personaggio della “Storia di Genji” (il capolavoro della letteratura giapponese), una storia di amore, gelosia, possessione, vendetta, è un breve romanzo dentro il romanzo che ci offre una chiave di lettura importante. Perché non c’è nulla di esplicito in questa narrazione in cui tutto viene suggerito- il volto bianco come un fiore che appare nella notte illuminata dalle lucciole (episodio bellissimo, questo della festa delle lucciole), il profumo dei fiori di notte che sembra emanare da Mieko, capelli lunghi e capelli corti su un cuscino, una macchia di rossetto, un liquore troppo dolce, facce che sembrano maschere e maschere che prendono vita esprimendo i sentimenti basilari dell’esistenza che si ripetono al di fuori del tempo.

    È la maschera di Fukai che viene regalata a Mieko, alla fine. Quella che esprime la ricchezza degli anni e che più si addice a lei. Esprime anche il dolore della madre che ha perso un figlio: c’è un significato profondo in quello che accade- ‘la maschera le sfuggì quasi colpita da dita invisibili’. Di chi sono queste dita invisibili in questo fenomeno di possessione?

    Un classico indispensabile a chiunque sia interessato al Giappone.



   

   

martedì 24 agosto 2021

Paolo Malaguti, “Se l’acqua ride” ed. 2020

                                                             Casa Nostra. Qui Italia

       romanzo di formazione

Paolo Malaguti, “Se l’acqua ride”

Ed. Einaudi, pagg. 200, Euro 17,50

 

      Quando che senti l’acqua che ride, che gorgoglia, vuol dire che lì c’è una piera, o il fondo basso, e bisogna starci alla larga. Se l’acqua ride, il burcio piange!”- era stata questa la spiegazione che il padre aveva dato al ragazzo che faceva da mozzo sul burchio del nonno, quando questi gli aveva urlato un ordine, cori a prua, sta ‘tento se l’acqua ride, che lui non aveva capito.

     Era l’estate del 1965. Il ragazzo che conosceremo soltanto con il soprannome, Ganbeto (il ferro ricurvo a U utilizzato per unire due anelli), deve ancora frequentare un anno di scuola media, ma sa già quale sarà il suo futuro. Perché la scelta non è molta: in paese c’è chi va operaio alla Fabrica, chi sta nei campi, chi parte sui burci. I soldi sono pochi in ogni caso, è una vita misera in quella bassa pianura percorsa da una rete di fiumi che sfociano nell’Adriatico.


Da un paio di anni la scuola media unificata e gratuita è diventata scuola dell’obbligo, il temuto professore Oio ha messo sulla cattedra un barattolo di vetro in cui gli alunni dovranno mettere una moneta per ogni errore che fanno (però, che sorpresa quando, alla fine dell’anno, scoprono che ognuno di loro riceve un libro in regalo, comperato con quei soldi), a Ganbeto la scuola non piace, in casa si parla il dialetto e l’italiano è quasi una lingua straniera, suo padre cede a malincuore a Ganbeto il suo posto sull’imbarcazione del nonno Caronte (un altro soprannome, quanto mai adeguato?) per andare a lavorare alla Fabrica. I loro sogni sono modesti- avere il gabinetto in casa (e quale sarà mai l’uso di quella strana cosa allungata posta tra il lavandino e la tazza?) e comprare un televisore. Ganbeto, poi, risparmierà per comprarsi una Vespa, come quella del film “Vacanze romane”. Quanto poi all’attore di quel film, Gregory Peck, nel ruolo di Achab è un mito, Ganbeto riesce quasi ad immaginare se stesso a bordo della baleniera.


     Dal 1965 al 1966, un inverno e due estati che volano, colme di nuove esperienze per Ganbeto che scopre due cose- che ama la vita con il nonno a bordo della Teresina, che non riesce neppure a immaginare di rinchiudersi nella Fabrica, e poi che le ragazze non sono più delle mocciose, che pensando a loro commette dei peccati di cui si deve andare a confessare. Il burchio diventa come la baleniera che solca i mari inseguendo Moby Dick, come la nave che porta Ulisse alla scoperta del mondo. Le pagine in cui Ganbeto si trova nella laguna e ne annusa il profumo, o quando resta abbagliato da Venezia dove compera una gondola di plastica per il nonno sono di una bellezza poetica speciale, contrastata dalle scene realistiche in cui deve sostituire il cavallo che da riva trascina il burchio- un lavoro scomparso, quello del cavalante, come stanno scomparendo i burchi senza motore ammucchiati nel cimitero dei burchi, dove Ganbeto andrà a cercare il nonno dopo che questo è scomparso. È stata una decisione sofferta ma saggia, quella del nonno, di lasciare a casa Ganbeto, mentendo e dicendo che non è tagliato per fare il marinaio? Per permettergli di apprendere un mestiere, sapendo che per la Teresina era finita?


    Piove senza smettere mai, nell’autunno del 1966. È l’autunno dell’alluvione, quello che segna definitivamente la fine di un mondo che già stava sgretolandosi, un punto di svolta per Ganbeto che è diventato grande, che ha la morosa.

     Un romanzo di formazione singolare, in cui tutto è al limite- gli anni in cui è ambientato, sulla soglia dell’epoca moderna dei consumi, l’età di Ganbeto, tra infanzia e una matura adolescenza, la terra al limite dell’acqua, il linguaggio tra un colorito e irriverente dialetto e un italiano pieno di poesia.




    

venerdì 20 agosto 2021

Laura Imai Messina, “Le vite nascoste dei colori” ed. 2021

                                        Voci da mondi diversi. Giappone

            Casa Nostra. Qui Italia
                  love story

Laura Imai Messina, “Le vite nascoste dei colori”

Ed. Einaudi, pagg. 328, Euro 18,50

   Giappone.

   Lei si chiama Mio. Ha un dono, senza sapere di averlo. Per lei un colore non è un solo colore, sono mille sfumature di quel colore. Per lei una persona non ha un nome e un cognome, ha un colore che la identifica.

   Lui si chiama Aoi. Gestisce un’agenzia di pompe funebri. Non ha paura della morte. Il suo lavoro è accompagnare con dolcezza, rispetto ed empatia un defunto alla soglia dell’aldilà. È cercare di rendere più tollerabile la perdita per chi resta. Non è un lavoro che ha scelto, lo faceva suo padre che glielo ha insegnato.

    La madre di Mio era preoccupata per quella bambina che aveva iniziato tardi a parlare e che poi, quando doveva dire il colore di qualcosa, non diceva mai una sola parola, ma, ad esempio, ‘arancione come il tramonto alle sei di sera’. D’altra parte lo stesso colore bianco dei kimono da sposa preparati e venduti dal laboratorio della madre e della nonna di Mio era un bianco fatto di diversi bianchi. E il matrimonio, quella tappa così ambita, era, in fin dei conti, una piccola morte- la donna abbandonava il suo sé precedente, lasciava anche il suo cognome per prendere quello del marito.


    Quando Aoi si rivolge alla ditta Pigment presso cui lavora Mio in cerca di una consulenza per cambiare l’aspetto e i colori degli ambienti della sua agenzia, sappiamo già che tra i due scoccherà la scintilla, che c’è un destino che unisce loro due, pur così diversi. Perché quello che importa, nell’amore, non sono le uguaglianze o le differenze, è il nuovo a cui si riesce a dare vita, non sono più i due colori con cui Mio può identificare Aoi e se stessa, ma il nuovo colore generato da entrambi. E quella che ci racconta Laura Imai Messina è una storia bellissima, di gioia e di dolore, che parla tanto di vita e anche tanto di morte, che ci insegna a guardare la morte senza paura, come un passaggio obbligato.


 L’incanto della visione del mondo dai mille colori con nomi così poetici di Mio (e quanto ci dispiace non avere neppure i rudimenti del giapponese per capire la sottigliezza dei diversi ideogrammi) si accompagna all’incredibile bellezza della descrizione dei riti funebri in Giappone, le usanze della cerimonia delle nozze, le storie private delle spose che sono andate nell’atelier della madre di Mio, la complicata vestizione dello shiromoku (il fastoso kimono da sposa), hanno il loro riscontro nelle usanze funebri, nelle richieste più o meno singolari dei parenti dei defunti (straordinaria la delicatezza dei figli che interpretano il segreto desiderio del padre di essere vestito da donna per il suo ultimo viaggio), nella preparazione di una vecchina che indosserà da morta lo shiromoku che non ha fatto a tempo a mettersi in vita.

manjushage, il fiore dei morti

    Non è solo la realtà che ci circonda ad essere ricca di colori, lo è anche la vita. Non è in bianco e nero, la vita. Solo ora che i suoi genitori sono morti Mio scopre il grande segreto di sua madre e riesce, forse, a capirla di più. Di certo capisce che neppure l’amore è monocolore, che c’è l’amore fatto di pienezza ma anche quello che si manifesta nella rinuncia, quello che parla e quello che tace. C’è infine l’amore che insegna i colori a chi non li vede ma è pronto ad immaginarli con le parole dell’altro.

     Delicato, poetico, struggente e rasserenante. Con gli occhi del Giappone Laura Ima Messina ci insegna che l’inizio di tutto contiene anche la sua fine e che ogni paura non è giustificata. Bellissimo.

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giovedì 19 agosto 2021

Ragnar Jónasson, “Notturno islandese” ed. 2021

                                                 Voci da mondi diversi. Islanda

                                                  cento sfumature di giallo


Ragnar Jónasson, “Notturno islandese”

Ed. Marsilio, trad. Silvia Cosimini, pagg.230, Euro 17,00

 

   “Notturno islandese”. Un titolo perfetto per questo romanzo di Ragnar Jónasson, perché suggerisce l’immagine di un paese che per due mesi interi non vede la luce del sole, perché ci anticipa che quello che leggeremo è un noir, perché, in qualche maniera, ci comunica un leggero disagio, una tristezza per ora inspiegabile e che la trama del libro servirà a giustificare. Perché “Notturno islandese” è un libro molto triste, che porta alla luce- ma sì, giochiamo su questo contrasto di luce e buio del paesaggio islandese- i lati oscuri della personalità di molti di noi.

   È inverno. Fa molto freddo. Herjólfur, nuovo ispettore a capo della polizia di Siglufjörður, viene ucciso mentre si appresta ad entrare in una casa fatiscente sul limitare della città. Che venga ammazzato un poliziotto è una notizia sensazionale. Che cosa ci facesse lui là, da solo, nessuno lo sa. Sulla porta di una casa abbandonata su cui circolavano molte voci, di fatti lontani e vicini. Di un uomo caduto dal terrazzo tantissimi anni prima, alla presenza del fratello gemello e di un amico, e di un commercio di droga in tempi più recenti.


    Ari Þór è incaricato delle indagini. Non ha ancora acquistato confidenza con il suo nuovo superiore ed è contento che arrivi da Reykjavic l’ispettore che aveva preceduto Herjólfur per affiancarlo. La procedura è la solita- si parla con la moglie e il figlio (è da lui che veniamo a sapere del traffico di droga), si tracciano le telefonate, si cerca l’arma del delitto. Ci sono poche speranze che Herjólfur riprenda conoscenza e dica qualcosa, però  si scopre che aveva parlato spesso con il sindaco e che è scomparso un fucile dalla rimessa di un insegnante locale.

   La trama del romanzo suscita ben pochi brividi  (che non siano per il freddo polare) ed è tutta giocata sui segreti, su quello che ognuno nasconde o tace. Come se ogni persona racchiudesse in sé la doppia personalità di Dr. Jekyll e Mr. Hyde, a diversi livelli di male. Ad iniziare da Ari Þór che cerca di scacciare il pensiero che la morte di Herjólfur gli sgombrerebbe la strada per essere nominato ispettore capo, alla moglie che è tentata di tradirlo, alla sorella dell’amico del gemello morto nella casa dei fantasmi, al sindaco e alla sua vice, a Herjólfur stesso, infine, da cui proprio non ci saremmo aspettati quello che apprendiamo.


E, con la rivelazione finale in cui tutto si spiega, comprendiamo anche il diario, scritto in corsivo, che intervalla la narrazione e che raddoppia, se possibile, la nostra tristezza. È difficile distinguere chi sia colpevole e chi sia vittima. Difficile non chiedersi che cosa contribuisca a certi comportamenti- quanto sia eredità genetica, quanto l’esempio assimilato pur inconsciamente, quanto una debolezza caratteriale o una superficialità etica. E, se non sapessimo che, purtroppo, gli stessi crimini vengono commessi ovunque, saremmo tentati di attribuirne la colpa al clima, al freddo e al buio, come recita la frase conclusiva delle note dell’autore, tratta da un articolo del nonno suo omonimo, quando dice che, al ritorno dei mesi estivi senza notte, tutti i mali dell’inverno vengono allora spazzati via.

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lunedì 16 agosto 2021

Peter May, “The noble path”

                  Voci da mondi diversi. Gran Bretagna e Irlanda

cento sfumature di giallo

il libro dimenticato

in altre lingue

Peter May, “The noble path”

Ed. Quercus, pagg. 532, Euro 8,38

     1978. La scena che apre il libro è a Belfast. Intorno ad un tavolo dove c’è la fotografia di un uomo con una cicatrice sulla guancia, tre uomini ne sentenziano la morte in quanto responsabile dell’uccisione di compagni membri dell’IRA. L’uomo che deve morire è Jack Elliot, un mercenario, un soldato a pagamento.

      Nella seconda scena si sta svolgendo un funerale. Ci sono pochissime persone ad assistere. È morta la madre della giovanissima ragazza che è lì presente, accompagnata dal suo corteggiatore. Lisa Robinson ha la visione fuggevole di un uomo in piedi, un po’ discosto. Ha una cicatrice sulla guancia.

    Il nuovo incarico affidato a Jack Elliot prevede che vada in Cambogia- Ang Yuon offre un compenso altissimo perché Elliot trovi sua moglie e i suoi due figli e li porti fuori dalla Cambogia. Se sono ancora vivi. Quando Pol Pot aveva preso il potere con i suoi Khmer Rossi, nel 1976, Ang Yuon era fuggito abbandonando moglie e figli. La loro sorte era stata quella degli altri cambogiani- no, forse erano stati più fortunati. Perché, nonostante il duro lavoro nei campi, nonostante la fame cronica e le malattie, nonostante che la figlia avesse dovuto soggiacere alle voglie di un sorvegliante del campo dove vivevano in baracche, nonostante- e questo è ancora più straziante- al figlio, un bambino di dodici anni, fosse stato fatto imbracciare un fucile con l’ordine di uccidere, erano sopravvissuti.


    La trama del romanzo (insolito per Peter May, al di fuori delle serie con Lewis e Enzo) segue una duplice traccia ed entrambe le tracce mirano ad un ricongiungimento famigliare. Perché Lisa, in Inghilterra, ha scoperto, frugando tra le carte della madre, che suo padre non è morto come lei le aveva fatto credere. Ha anche scoperto il perché di questa damnatio memoriae e, da una vecchia foto, riconosce suo padre nel misterioso spettatore al cimitero: Jack Elliot. Si mette in cerca di lui, non può attendere, prende un volo per Bangkok per scoprire, laggiù, che lui è partito per la Cambogia.

    L’operazione di Jack in Cambogia è pericolosa ed inizia male, con un tradimento da parte del tailandese che avrebbe dovuto essere di aiuto. Jack ha ‘arruolato’ due vecchi commilitoni, senza sapere che uno non ha paura di morire perché sta già morendo per tumore, e l’altro (piccolo e magro, esperto della guerra nei cunicoli sotterranei dei nordvietnamiti) vuole assolutamente vivere per far crescere il figlio in America.


    Entrambi i filoni sono ricchi di suspense e di orrore. Quello che Jack vedrà nella cosiddetta Kampuchea Democratica è pari agli orrori commessi dai nazisti. Crudeltà allo stato puro. Morte e distruzione. Phnom Penh, la Perla dell’Asia, deserta e in rovine. Il fatto che la famiglia di Ang Yuon sia viva, e che Jack riesca a ritrovarli, è miracoloso. Il tempo stringe, i Vietnamiti stanno per invadere la Cambogia, il ritorno via terra è precluso. Non vi anticipo altro, e però non posso tacere che i fuggitivi giungono in vista degli splendidi templi di Angkor, le vestigia di un passato grandioso in brutale contrasto con il presente.

    Lisa Robinson, che ora ha preso il cognome di Elliott, arriva in Thailandia con la baldanza e la sprovvedutezza dei suoi 18 anni. Anzi, la sua fiducia mal riposta nel prossimo ci sembra sconfinare nella stupidità che neppure la sua giovane età riesce a giustificare. Lisa si fida di tutti. Del tassista che le fa da guida, del marpione che la ospita dicendo che è amico del padre, della bellissima donna che le fa indossare un abito audace per una cena durante la quale Lisa accetta il garbato corteggiamento di un generale che finge un atteggiamento di protezione paterna. Possibile che Lisa sia così ingenua? Possibile che salga in auto con sconosciuti che hanno in mente trame obbrobriose? Siamo in Thailandia…


    Il finale ci riserba un’ultima sorpresa.

Un romanzo che non è dello stesso livello della trilogia dell’ “Uomo di Lewis”, perché i cenni storici e le descrizioni della Cambogia dei Khmer Rossi sembrano essere presi in prestito, e tuttavia ha una sua attrattiva, soprattutto per la tematica dell’innocenza violata- dei due figli di Ang  Yuon e della figlia di Elliot. Sembra quasi che i figli debbano scontare le colpe dei padri. 


 

domenica 15 agosto 2021

Jean Luc Bannalec, “Oro bretone” ed. 2021

                                  Voci da mondi diversi. Area germanica

cento sfumature di giallo

Jean Luc Bannalec, “Oro bretone”

Ed. Neri Pozza, trad. Giulia Cervo, pagg. 269, Euro 18,00

 

     È il sale, l’oro bretone. Candido e non giallo ma prezioso come l’oro, da sempre. E- diciamolo subito- se non fosse per tutte le restrizioni del momento, partirei immediatamente per la Terra Bianca, o Gwenn Rand, come in lingua bretone viene chiamata la distesa salina del territorio della Guérande. Perché le descrizioni di Jean-Luc Bannalec (pseudonimo di uno scrittore tedesco) nel romanzo “Oro bretone”, terzo della serie che ha per protagonista il commissario Dupin, ne fanno un paesaggio magico, soprattutto quando l’estate sembra non voler morire mai e i colori dei riquadri di terra sono di un bianco latteo che pare riflettere il cielo. È più quello che non si vede che quello che si vede, dice la gente di laggiù, alludendo a folletti o ad altri personaggi di miti e leggende. Quando poi  a queste presenze elusive si aggiunge, come nei giorni dell’indagine di Dupin, un canguro- sì, proprio un canguro australiano-, c’è qualcosa di veramente surreale nell’atmosfera.


     È stata la giornalista Lilou Breval a suggerire a Georges Dupin di andare a dare un’occhiata alle saline per cercare delle botti di plastica blu. A quanto pare, botti di questo tipo sono molto comuni e anche molto usate per molteplici scopi. La loro caratteristica è che sono fatte di un materiale che, dopo l’uso, difficilmente serba traccia del contenuto. E però qualcuno spara a Dupin, che si aggira incantato nelle saline. Si rifugia in un capanno, quel ‘qualcuno’ gli blocca la porta dall’esterno, il suo cellulare non ha campo…

     Questo l’avvio del romanzo. Se Dupin pensava che la giornalista lo avesse mandato a fare un’ispezione inutile, la sparatoria prova che i suoi sospetti hanno delle fondamenta. Nessuno spara ad un commissario se non ha nulla da nascondere. Seguiranno altri morti…e intanto noi, insieme a Dupin, scopriamo molte cose, alcune che spiegano quello che sta accadendo e sono collegate all’economia del sale bretone- rivalità tra diversi produttori e conflitti di interesse nello sforzo di sfruttare al massimo le potenzialità dell’oro bianco che viene reclamizzato come unico nella sua purezza- e altre che solleticano la nostra curiosità, su usanze e specialità culinarie, sull’unicità della salsiccia bretone, modi di dire e costumi locali, sull’orgoglio dell’appartenenza celtica.


     Una bella ambientazione, dunque, una trama che, dopo tutto, ‘si svolge’ in Bretagna ma, per le motivazioni che portano ai delitti, potrebbe svolgersi ovunque nel nostro mondo che ha perso la coscienza etica del bene comune e suscita in noi un certo disagio, un timore che cerchiamo di sopprimere, e infine due personaggi accattivanti, uno il doppio dell’altro- il commissario Georges Dupin e la sua omologa, Sylvaine Rose, commissario della Guérande. Lui parigino, lei bretone. Sembra quasi che lo scrittore inverta di proposito le caratteristiche che, in maniera stereotipata, si attribuiscono al genere maschile e femminile. Lui viene ferito, lei ha una forte attitudine al comando, lui deve accettare un ruolo subordinato, lei ha una guida spericolata e un piglio deciso, ci sono parentesi amorose per lui, mentre della vita privata di lei sappiamo poco o nulla. E tutto è spruzzato di una leggera ironia.

      Un bel thriller per l’estate, tenendo in mente il proverbio bretone: Prima di arrivare a conoscersi, bisogna consumare insieme sette sacchi di sale.

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venerdì 13 agosto 2021

Guillermo Martínez, “I delitti di Alice” ed. 2021

 

                        Voci da mondi diversi. America Latina

cento sfumature di giallo

Guillermo Martínez, “I delitti di Alice”

Ed. Marsilio, trads. Valeria Raimondi, pagg.264, Euro 17,00

 

    1994. Oxford. Il protagonista e io narrante de “I delitti di Alice”, terzo volume della saga poliziesca “La serie di Oxford” dello scrittore e matematico argentino Guillermo Martínez, si trova da due anni nella cittadina universitaria inglese per seguire un corso di logica matematica. È argentino e ha un nome impronunciabile che, perciò, non viene mai detto. Il fatto che il narratore sia uno straniero ha la sua importanza- del famoso ospite di Oxford, Lewis Carroll il cui vero nome era Charles Dodgson, che aveva insegnato matematica oltre ad essere ministro della chiesa anglicana, lui sa poco, ha letto solo “Alice nel paese delle meraviglie” e un’altra opera minore, della sua vita privata non si è mai interessato. Adesso apprende che manca una pagina nel diario di Carroll del 1863 e che si è speculato molto sul possibile contenuto di quella pagina che doveva essere scottante, se qualcuno si è preso la briga di strapparla- c’era qualche compromettente riferimento alla ‘passione’ di Carroll per Alice Liddell che aveva undici anni all’epoca?

Alice Liddell

    La confraternita intitolata a Lewis Carroll si appresta a pubblicare un’edizione critica dei diari ed ha incaricato una giovane dottoranda di fare un lavoro di revisione di tutte le pagine conservate nella casa dello scrittore a Guildford, diventata ora un piccolo museo. Scatta qui la trama ‘gialla’ di questo appassionante romanzo che si svolge lungo un duplice mystery da scoprire: chi è pronto a commettere dei delitti perché non si sappia quale confessione contenga la pagina strappata e casualmente ritrovata dalla dottoranda e che cosa mai sarebbe il ‘segreto’ di Lewis Carroll?

    

Lewis Carroll

Incidenti che non sono banali incidenti anche se, purtroppo, hanno un esito quasi mortale, morti giustificate da condizioni fisiche non ottimali e che, tuttavia, qualcuno ha fatto accelerare, e poi, a ben guardare, tutti gli ‘attentati’ seguono il modello di episodi del capolavoro di Lewis Carroll, si riferiscono tutti a qualcosa che accade ad Alice. Una sequenza che fa pensare al famoso giallo di Agatha Christie, “E poi non rimase nessuno”, in cui era sufficiente interpretare bene ogni verso della filastrocca per capire come l’assassino avrebbe congegnato il delitto della vittima seguente.

     Oltre a questo riferimento letterario del tutto pertinente (viene voglia di rileggere “Alice nel paese delle meraviglie” che credo nessuno di noi abbia più affrontato dopo l’infanzia quando neppure lo aveva capito bene), ce ne sono altri, tutti intriganti, così come ci sono dettagli di nuove tecniche di indagine- una, in particolare, riguarda i suoni: se di un’automobile viene registrato il rumore di una frenata o di un’accelerata, il significato implicito per un investimento avvenuto subito dopo è ben diverso. E così pure il canto degli uccelli, sorpresi da un altro rumore.


    Se il narratore argentino è un protagonista con il ruolo di indagare nei delitti con una obiettività maggiore degli altri membri della confraternita, il vero personaggio sotto indagine, più dell’ignoto assassino, è Lewis Carroll su cui si imparano molte cose. Una personalità complessa e sfaccettata con una sessualità dubbia- oggigiorno lo liquideremmo come un pedofilo tout court  e- confessiamolo- proviamo disgusto per questo uomo che venne considerato come il migliore fotografo dell’età vittoriana. Scattava foto di bambine (dopo i dodici anni non gli interessavano più e diceva che i maschietti non lo attraevano affatto), per lo più vestite ma ci sono anche foto di bambine nude, sia le une sia le altre in pose e con espressioni che turbano, che lasciano pensare alla mancanza di innocenza negli occhi di chi le guarda e le fissa su pellicola. Eppure i genitori di quella ‘strana’ epoca vittoriana in cui si coprivano le gambe dei tavoli lo lasciavano fare (anche se i Liddell, genitori di Alice, ad un certo punto gli avevano impedito di vedere le bambine).

    E poi c’è lo sfondo di Oxford, con le sue guglie, i college gotici, i prati verdeggianti, il fiume. Quanta pace per una storia torbida.

     Un giallo ‘nuovo’, da leggere.

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