Voci da mondi diversi. Area germanica
la Storia nel romanzo
il libro ritrovato
Wibke Bruhns, “Il cospiratore”
Ed. Longanesi, trad. Umberto
Gandini, pagg. 387, Euro 19,00
I Klamroth: una famiglia tedesca
benestante, una grande dimora, cavalcate mattutine, riunioni famigliari, un po’
di musica e buone letture, tutto con decoro e moderazione, secondo un codice
improntato al senso del dovere, dell’obbedienza e dell’onore. Hans Georg
Klamroth, il padre della giornalista e scrittrice Wibke Bruhns, apparteneva
alla generazione che ha fatto due guerre, giovanissimo nella prima, già con
moglie e cinque figli nella seconda. Con una documentazione ricca di lettere e
diari, attraverso la storia della sua famiglia Wibke Bruhns ripercorre la
storia della Germania dagli inizi del secolo: la prima guerra mondiale, il peso
della sconfitta e il crollo economico che preparano l’avvento del nazismo,
accolto dapprima con diffidenza e poi con un entusiasmo privo di fanatismo dai
Klamroth, la seconda guerra mondiale e infine l’attentato a Hitler per cui suo
padre, che sapeva del complotto ma aveva taciuto, fu condannato a morte.
INTERVISTA A WIBKE BRUHNS, autrice de “Il cospiratore”
20 luglio 1944, una data che
avrebbe potuto segnare un percorso diverso della Storia, se il tentativo di
uccidere Hitler avesse avuto successo. In casa Klamroth furono due i condannati
a morte per impiccagione per aver preso parte all’attentato: il padre di Wibke
Bruhns e il marito di sua sorella Ursula, pure lui con il cognome Klamroth in
quanto cugino alla lontana. Eppure era sceso il silenzio su quei fatti, dopo la
guerra la madre di Wibke non aveva mai voluto parlare di quegli anni. Paura per
la famiglia dapprima? Un voler mettere una pietra sul passato poi, quando si
era venuti a conoscenza della portata
degli orrori commessi dalla Germania? A 60 anni di distanza Wibke Bruhns
esplora quel passato, in una ricerca accuratissima nel tesoro di carte
famigliari, citando frasi, osservando fotografie, scoprendo segreti della vita
di coppia dei genitori (in un certo periodo avevano condotto un allegro ménage a quattro), costruendo anno dopo
anno, pagina dopo pagina, l’immagine del padre che quasi non ha conosciuto- per
ringraziarlo per quello che ha fatto, per quel complotto fallito che ha
alleviato il peso dei figli, eredi di un passato pesante della Germania, per
ricordare, per farlo vivere oltre il suo tempo. Wibke Bruhns, nata a
Halberstadt nel 1938, è stata la prima donna a condurre il più seguito
telegiornale tedesco nel 1971,
in seguito è stata corrispondente del settimanale Stern in Israele e negli Stati Uniti.
Attualmente vive a Berlino, dove Stilos l’ha incontrata.
All’inizio del libro lei spiega che l’origine della sua ricerca è
dovuta ad un film che ha visto in televisione sul fallito attentato a Hitler e
ha riconosciuto suo padre tra le persone in tribunale. Che cosa sapeva di suo
padre?
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H.G.Klamroth durante il processo |
Era il 1979, quando ho
visto il filmato sull’attentato: di mio padre sapevo tutto, che era stato un
ufficiale, un membro del servizio segreto militare in Danimarca e in Russia e
che era stato giustiziato per aver preso parte al complotto contro Hitler. Ma
non lo avevo quasi conosciuto, avevo cinque anni quando è morto, non sapevo che
persona fosse. Mi sono messa a scrivere il libro non tanto perché lo volevo
conoscere di più, quanto perché pensavo che questi uomini che erano stati condannati
a morte erano stati trasformati in eroi da leggenda perché rappresentavano la
parte buona della Germania. Il nome di mio padre si trova sui monumenti alla
resistenza, ma è uno tra tanti. Sentivo che questo, in qualche modo, sottraeva
qualcosa alla sua personalità individuale. E mi sembrava che non si potesse
fare questo a qualcuno, non puoi ridurlo ad uno tra tanti. Mio padre aveva un
ruolo nella riabilitazione della Germania, ma ci perdeva come essere umano.
Quando ho visto il filmato del processo, è successo qualcosa dentro di me,
perché è diverso vedere qualcuno in un film piuttosto che in una fotografia. I
filmati che Hitler aveva fatto girare, perché venissero proiettati nei cinema,
erano scomparsi- solo il sonoro era rimasto in circolazione, ma non le
immagini- e sono poi riapparsi a distanza di tantissimi anni. Hitler intendeva
spaventare il pubblico, dare una lezione con lo spettacolo delle punizioni-
perché anche le impiccagioni furono filmate. Ma la reazione suscitata fu
l’opposta: il pubblico era furibondo per il modo in cui il presidente della
corte trattò gli imputati. Erano tutti eroi di guerra, avevano delle medaglie e
lui li trattò come fossero dei topi di fogna. Alla gente non piacque, e la
proiezione dei film venne sospesa. Io volevo far conoscere mio padre per la
persona che era e non nella funzione che gli era stata data, del tipo ‘come
siamo fortunati che siano esistite persone così.’ Persino nella morte era stato
accomunato agli altri, perché le esecuzioni venivano fatte a sei per volta:
sentivo la necessità di restituire a mio padre la sua individualità, di
differenziarlo dagli altri.
Come mai la sua famiglia non è stata toccata, neppure sua sorella
Ursula, il cui marito aveva preso parte attiva al complotto? Molte altre famiglie
dei cospiratori sono state punite insieme ai loro uomini.
Nell’agosto del 1944, nei suoi
discorsi Himmler disse che le famiglie dei colpevoli dovevano essere estirpate,
perché erano sangue cattivo, ma non diede regole strette su come questo dovesse
essere fatto. Paradossalmente vennero dati due ordini contrastanti: che tutti i
famigliari fossero uccisi e che venissero dati mezzi di sussistenza alle vedove
e ai figli. Così molte donne furono portate a Ravensbrück, ai bambini venne
cambiato il cognome, e poi, dopo tre mesi, tutto tornò come prima, le famiglie
ebbero il permesso di tornare a casa. Il Reich non era così ben organizzato,
dopotutto.
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Donne a Ravensbruck |
Come ha potuto sopravvivere ai bombardamenti tutta la documentazione
che lei riporta? Fa riferimento ad un tesoro di lettere, diari, incartamenti,
qualcosa che la nostra generazione non lascerà certo dietro di sé. Suo padre ha
lasciato una registrazione straordinaria del suo tempo.
Halberstadt- dove
vivevamo noi- fu bombardata e la città fu distrutta all’80%, ma la nostra casa
rimase miracolosamente intatta. Quanto all’abitudine di scrivere, allora era
una questione di classe sociale. La gente, a quei tempi, scriveva tutto e nella
mia famiglia l’abitudine di scrivere lettere domenicali fu mantenuta finché mia
madre poté usare la macchina da scrivere. Per tantissimi anni ho ricevuto dai
mio fratello e dalle mie sorelle una lettera settimanale: ognuno di noi
scriveva una lettera in copia di carta carbone, in modo che ognuno ricevesse la
sua, come aveva fatto sempre mio padre. La domenica era il giorno per scrivere
lettere.
Io avevo già letto le lettere che mio padre
aveva scritto alle mie sorelle, perché loro me le avevano date, ma tutta la
documentazione personale era nei cassetti dello scrittoio di mia madre e io non
la toccai fino a dopo la sua morte: sapevo che le lettere e i diari di mio
padre erano là, perché l’avevo spesso aiutata nei traslochi, ma non ho mai
chiesto di vederli. Mi ci sono voluti più di tre anni per esaminare tutte le
sue carte.
La sua ricostruzione della vita famigliare dall’inizio del secolo rende
chiaro come fu facile per loro- come per la maggior parte dei tedeschi- seguire
Hitler ed aderire al nazionalsocialismo. Il caso di suo padre mi ha fatto
pensare ad Albert Speer che apparteneva all’alta borghesia come la sua
famiglia. Però nei documenti di suo padre non c’è nulla dell’attrazione
personale che Speer sentiva per Hitler.
Mio padre non era
entusiasta di Hitler, Speer lo adorava, era sempre attorno a lui. Penso che mia
madre e mio padre fossero stati attratti dal fatto che, dopo il disastro degli
anni ‘20 e dopo l’umiliazione del trattato di Versailles, c’era finalmente una
persona che, come il Kaiser, avrebbe mostrato al mondo che cosa eravamo. Oggi
non si penserebbe più in termini di “umiliazione”. Ma quando ci si sopravvaluta
come stato e poi si perde la guerra- e nessuno se lo aspettava- e tutti ti
trattano come se non valessi niente, la gente allora si sentiva umiliata. Per
Bismarck la Germania
era una delle quattro superpotenze d’Europa, ma per il Kaiser Guglielmo II la Germania era la prima
potenza: eravamo potenti e ricchi, avremmo vinto la guerra in quattro
settimane. Ma non andò così. La gente era grata a Hitler perché riportava la Germania alla grandezza
di prima. Negli anni ‘20, quando la Repubblica di Weimar non riusciva a tener fede agli
impegni presi a Versailles e venivano fatte delle rappresaglie da parte della
Francia, la Germania
veniva umiliata. Quando Hitler riarmò l’esercito nel 1935 ed entrò con le
truppe nelle zone demilitarizzate, nessuno sollevò obiezioni. E nel 1936 tutti
gli stati parteciparono alle Olimpiadi.
E’ naturale che si segua chi ti
restituisce quello che ti appartiene. Quando Hitler iniziò la guerra, riportò
sempre vittorie fino a Stalingrado. Non sto scusando i tedeschi, spiego
soltanto come è potuto succedere quello che è successo. Nel mio libro volevo
mostrare che la Germania
nazista non è iniziata nel 1933 ma molto tempo prima della prima guerra
mondiale, quando quelli che erano nati all’inizio del secolo erano stati
foggiati da questa idea di essere i primi del mondo. E anche l’antisemitismo
esisteva già prima di Hitler: nel 1888 un partito entrò in Parlamento con 16
rappresentanti e l’unico contenuto politico di quel partito era l’antisemitismo.
Era normale in Francia, in Inghilterra, Russia. Quello che fu nuovo nella
Germania di Hitler fu l’assassinio industrializzato.
Anche Speer fu sospettato di essere stato contattato dai cospiratori.
Abbiamo visto l’intelligenza strategica della sua linea di difesa a Norimberga:
pensa che nella stessa maniera sia riuscito a non farsi coinvolgere
direttamente nel complotto?
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Albert Speer |
Che Speer abbia potuto
essere nella lista dei cospiratori è stata un’invenzione, sua e del suo
biografo Joachim Fest. Dietro alla biografia di Speer, dietro alle sue memorie,
c’è un mucchio di soldi. Sia l’editore sia Fest videro in Speer l’opportunità
di “ripulire” questa persona. Più tardi Fest stesso ammise che Speer gli aveva
mentito, che lo aveva usato- ma anche Fest era contento di essere stato usato.
Il fatto è che c’era bisogno di qualcuno come Speer che potesse rappresentare
un’altra faccia del nazismo. Speer badava alla sua carriera, era una persona
spregevole che appendeva il cappotto dove gli faceva comodo.
Come spiega il fatto che suo padre, pur non essendo antisemita, come
dimostrano le sua carte, ha firmato insieme a tutta la famiglia il documento
che certificava l’origine ariana dei Klamroth?
Posso solo pensare che
abbiano stilato quel documento per motivi pratici. Certo, l’antisemitismo era
un atteggiamento latente nella famiglia: nessuno di loro avrebbe mai sposato
un’ebrea, ma neppure una cattolica. Pensavano, con quel documento, di
certificare la stirpe ariana della famiglia, anche se poi, in pratica, non è
servito a niente quando Ursula e Bernhard si sono sposati. Ugualmente, però, è
stato rivoltante che abbiano steso questo documento di arianità. Era un essere
obbedienti al di là di ogni obbligo.
In una parte del suo libro si parla anche di Dora, il campo di lavoro
forzato dove venivano costruiti i V2. Come mai dell’esistenza di Dora si è
saputo molto dopo di quella degli altri campi?
Mentre lavoravo al libro
ho scoperto quanti fossero i campi di lavoro forzato. A me interessava
soprattutto Dora perché mio padre c’era stato.
Per questo biasimo i tedeschi:
perché la maggior parte di loro effettivamente non sapeva di Auschwitz, o di
Treblinka e degli altri campi di concentramento, perché erano fuori dal paese,
sapevano delle deportazioni ma non sapevano che cosa stava succedendo. Ma i
campi di lavoro forzato in cui si usava la mano d’opera dei prigionieri
trattati come schiavi erano dappertutto. Speer stesso aveva organizzato
l’arrivo massiccio di persone dai paesi dell’est per il lavoro forzato. E a Norimberga
ha detto che non ne sapeva niente, che se n’era occupato il suo assistente. I
primi campi di lavoro forzato sono stati aperti nel ‘42, il pensiero di tutti
era focalizzato sulla guerra, ed è anche vero che chiunque allungasse una
pagnotta a qualcuno nelle file dei prigionieri veniva fucilato all’istante.
Il titolo del suo libro in tedesco, “Meines Vaters Land”, è molto
bello, perché fa risuonare corde diverse, visto che significa sia “la terra di
mio padre”, sia “patria” se scritto in una sola parola, sottolineando il suo
legame con suo padre e con il paese di lui, che è anche il suo.
Il paese di mio padre è
il mio solo geograficamente e il titolo voleva significare anche questa
differenza. E naturalmente gioco sulle parole: “Vaterland” è anche la patria e
per quella generazione la patria, la Vaterland, la terra dei padri, era importante.
Per me è un tabù.
Ha visto il film sugli ultimi giorni di Hitler, “La caduta”? pensa che
sia un film “pericoloso”, che possa suscitare simpatie filonaziste?
Penso che sia un film
noioso e superfluo: non abbiamo appreso niente di nuovo da quel film. Le scene
mostrano della gente nel bunker che aspetta la fine. Non viene detto che cosa
li ha portati ad essere lì, nessuno si domanda se è giusto o sbagliato essere
confinati lì. E’ il tipico brutto film commerciale- il fatto che Hitler sia
gentile con la giovane segretaria non vuole dire proprio niente. E’ un
argomento troppo complesso per essere trattato in un film, a meno che non ci
sia il tocco dell’arte, come nel film di Benigni, “La vita è bella”. “La
caduta” è un film politicamente corretto, un documentario che non si pone e non
pone domande.
Tra più o meno vent’anni saranno scomparsi i figli della generazione
che ha combattuto la guerra: sarà un bene? Servirà a dimenticare i crimini del
passato e le colpe, per andare avanti e costruire qualcosa di nuovo?
In questo paese non ci
libereremo mai dei sensi di colpa e dei ricordi dei crimini del passato. La Germania di oggi ha la
responsabilità di educare la gente, di impedire la reazione del tipo, ‘ma
dobbiamo continuare a parlare sempre di queste cose?’. Sì, dobbiamo parlarne
perché è una cicatrice sull’anima del nostro paese. Certo, non dobbiamo
parlarne ogni giorno, ma serve per ricordare che cosa gli esseri umani, che
cosa i tedeschi hanno potuto fare. E ricordare e parlarne non impedisce di
andare avanti e costruire una nuova società. No, non possiamo liberarci di
questo ricordo e non penso neppure che dovremmo- anche se non abbiamo bisogno
che ci venga ricordato ogni momento
da altri.
la recensione e l'intervista sono state pubblicate sulla rivista Stilos