domenica 28 giugno 2020

Paolo Di Stefano, “Noi” ed. 2020


                                                               Casa Nostra. Qui Italia
            storia di famiglia

Paolo Di Stefano, “Noi”
Ed. Bompiani, pagg.  608, Euro  22,00 (formato Kindle 12,99)

    Un nonno. Un padre. Un fratellino morto troppo presto. Sono questi i personaggi principali che vivono- sì, vivono anche quando non ci sono più come presenza fisica- nelle pagine del romanzo autobiografico “Noi” di Paolo Di Stefano. E poi la nonna moglie del nonno pecoraio, gli altri nonni e cioè i genitori della mamma, zii e zie, i due fratelli e la sorella dello scrittore-narratore Paolo. Perché “Noi” è- come dice il titolo- un grande romanzo di famiglia, fitto di ricordi, di parole, di immagini impresse sulla retina della memoria. E anche di avvenimenti di quasi un secolo di Storia d’Italia, di costumi sociali e di cambiamenti economici sempre sullo sfondo di Avola, in Sicilia.
     Occupano tanto spazio, il nonno e il padre Vannuzzu. E sono sentimenti ambigui e complessi, quelli che legano nonno e padre e, di riflesso, il nipote Paolo. Perché il nonno che è stato un padre-padrone, un femminaro che aveva tradito la moglie con chissà quante donne, che aveva un numero imprecisato di figli illegittimi, questo uomo verso cui si prova un lieve disprezzo e da cui è meglio allontanarsi, esercita uno strano potere di fascinazione sul figlio che ritorna sempre alla famiglia di origine, anche quando ha trovato lavoro al Nord, prima a Milano e poi in Svizzera. Questo nonno  è anche capace di trasformarsi e di addolcirsi, di lasciarsi tirare i baffi quando prende in braccio il piccolo Claudio, il nipotino a cui non è capace di negare niente, neppure la tanto desiderata automobilina verde a pedali che il bambino aveva fatto a tempo ad usare solo una volta, nel corridoio di casa.
Avola
      Che adulto può diventare il figlio che cresce accanto ad un padre così, che lo caccia spesso di casa e che non rispetta sua moglie? Vannuzzu è sempre insicuro di sé e di quello che vuole, il figlio del femminaro dalle tante donne è un timido che sublima pensieri d’amore, che dedica versi alle donne che vagheggia, che neppure si accorge se queste non lo corrispondono. Per non dire della volta che viene respinto proprio perché figlio di suo padre. Vorrebbe studiare ma impiegherà degli anni per laurearsi in lettere classiche. Andrà al Nord per poi tornare a Sud, come se ci fosse un elastico che lo tira e poi lo ritira indietro- forse questo elastico è la madre che lo ricatta, forse è il sentimento di amore-odio per il padre, forse è Avola, è la Sicilia con il suo clima dolce o infuocato ben diverso da quello milanese che gli appare freddo e ostile. Si sposa, Vannuzzu, accetta la cattedra a Lugano, ogni estate si mette in auto per tornare ad Avola. Alla sera legge poesie ad alta voce ai bambini e poi, a volte, viene invaso da una furia che è una replica delle tremende scene violente del padre. E sua moglie non ha trovato mezzo migliore, per porvi fine, che svenire, accentrando tutta l’attenzione. Eppure c’è molto affetto per questo padre piccolo e calvo che si è conquistato un posto nel mondo partendo dal nulla, che guiderà senza mai fermarsi,  su quella strada che aveva fatto tante volte con l’auto stracarica di bambini e bagagli (quanti ricordi, quanti aneddoti buffi di quei viaggi) e che adesso trasportava la piccola bara di Claudio, morto per leucemia a cinque anni, da tumulare nella terra che era e rimane la sua.
Lugano
     “Noi” è un libro dominato da una grande presenza, quella del nonno, e da una grande assenza, quella di Claudio. La sua vocetta si fa sentire quasi subito in questa storia di famiglia. Non la riconosciamo, perché non conosciamo ancora Claudio.
Devono passare anni prima che lui entri nella storia, gli anni del femminaro e del piccolo professore calvo e dei tre fratelli più grandi. Il suo passaggio in famiglia sarà breve ma, se all’inizio pensavamo che il romanzo fosse l’elegia per un padre, mentre leggiamo ci rendiamo conto che è, invece, un omaggio straziante alla memoria del fratellino, prestandogli parole non dette, scherzi mai fatti, un’amichetta immaginaria, il ricordo del pupazzo Brontolo da cui non si separava mai. Pagina dopo pagina, aspettiamo gli intermezzi della voce di Claudio che si addormentò per sempre il 9 aprile 1967, il giorno in cui la Juve vinceva il Bologna con un goal straordinario di Burgnich.
      Le donne sono, invece, personaggi secondari, ombre dei mariti, in questo romanzo molto italiano e per molti versi molto regionalista. Un romanzo bello, affabulatore, la rielaborazione di un trauma alleggerito da sprazzi di umorismo e ironia, con una narrativa che mescola passato e presente.

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lunedì 22 giugno 2020

Holidays







Se non riuscirò ad aggiornare regolarmente, la foto ne spiega il motivo. 

venerdì 19 giugno 2020

Mathijs Deen, “Per antiche strade. Un viaggio nella storia d’Europa.” ed. 2020


                                                            vento del Nord
             romanzo on the road


Mathijs Deen, “Per antiche strade. Un viaggio nella storia d’Europa.
Ed. Iperborea, trad. Elisabetta Svaluto Moreolo, pagg. 480, Euro 18,50

    Ricordo un libro di James Baldwin, “Se Beale Street potesse parlare”. Ecco, se le strade potessero parlare, quante storie, quante persone, quanti drammi si sono consumati sulle strade. Quanti sogni, quanti nuovi orizzonti. Perché quella della strada è la metafora migliore per parlare della vita.
     “Questa è la E8”, disse mio padre, “che va da Londra a Mosca.” Il padre di Mathijs Deen è al volante dell’automobile con cui la famiglia sta andando a trovare i nonni nella casa del bosco, sulle colline di Utrecht. Mathijs è un bambino, seduto in mezzo ai due fratellini sul sedile posteriore. E la strada non è più associata soltanto alle piccole storie tipo ‘lessico famigliare’ da automobile che la costellano- la fattoria fantasma, l’albero dell’impiccato, i dossi che la Due Cavalli affrontava baldanzosa per poi lanciarsi in un salto che faceva strillare i bambini di gioia e di paura-, adesso ha un altro fascino, ha un nome che è una sigla, collega due città circonfuse da un’aura mitica.

     E’ la strada il nesso che collega le storie del romanzo, singolare diario di viaggio, dello scrittore olandese Mathijs Deen, per farle diventare una straordinaria Storia d’Europa seguendo le orme di piedi fino ad arrivare al morso degli pneumatici dei primi bolidi su quattro ruote: in un tempo più lento si moriva sulle strade per stanchezza, fatica e malattie, ora che il tempo ha avuto un’accelerata si muore per velocità. Più lontano è il passato e più è incerta la ricostruzione dei percorsi dei viandanti- di certo i primi uomini che arrivarono in Europa venivano dall’Africa, come dicono i resti degli scheletri ritrovati dell’homo erectus, quanto poi al grosso calderone fabbricato dai Traci sulle rive del Danubio, come ha fatto ad arrivare migliaia di chilometri più a Nord in una palude della Danimarca?
Sulla Bisanzio-Roma (e parliamo del 207 d.C.) imperversa un audace brigante che si fa chiamare Bulla Felix, una sorta di Robin Hood della via Appia, mentre dalla lontanissima Islanda (1025 d.C.) si muove Guđriđur per andare in pellegrinaggio a Roma (una delusione), un ebreo errante fugge dall’Inquisizione e si muove dal Portogallo in direzione di Amsterdam (è il 1653) su una strada che attraversa i Pirenei, via di fuggiaschi nei secoli, il povero Coenraad Neel, arruolato nell’esercito di Napoleone nonostante soffra di asma, marcia per mesi per arrivare dall’Olanda a Mosca nel 1812, ritornandone più morto che vivo. E finalmente saliamo sulle automobili per raccontare le ultime due ‘storie di strada’. È l’inizio del secolo, le gare automobilistiche si fanno su strada.
Nel 1902, Marcel Renault vinse la gara Parigi-Vienna coprendo il percorso in 15 ore e 47 minuti. Oggi, secondo i navigatori satellitari, occorrono 25 ore e 8 minuti per fare lo stesso tragitto che si chiama E54 da Parigi a Belfort e E60 da Belfort a Vienna- sono le denominazioni usate dal padre dello scrittore, quelle decise dall’idealismo post-bellico di creare una rete di strade europee per collegare tra loro i territori di ex-nemici. La strage della gara Parigi-Madrid, in cui solo 99 delle 174 auto iscritte alla corsa arrivarono a Bordeaux, segnò la fine di questo tipo di gara di velocità e l’inizio delle gare su circuito. Il cerchio di questi racconti, spezzoni della Storia d’Europa, si chiude con un viaggio di andata ma soprattutto di ritorno, quello del marocchino Mohamed che, dopo aver vissuto nei Paesi Bassi, era tornato a vivere in Marocco per aiutare altri migranti di ritorno a destreggiarsi con la burocrazia olandese.

     In un arco di tempo che va dal Pleistocene ai nostri giorni, seguiamo i passi di viandanti diversi, in paesi diversi, alla scoperta di culture diverse. Viste idealmente dall’alto le  strade che essi percorrono formano una grande ragnatela in una trama meravigliosa e sottilmente collegata. Affascinante.

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martedì 16 giugno 2020

Jennifer Johnston, “Quanto manca per Babilonia?” ed. 2020


                                Voci da mondi diversi. Gran Bretagna e Irlanda
                                                               prima guerra mondiale



Jennifer Johnston, “Quanto manca per Babilonia?”
Ed. Fazi, trad. M. Bartocci, pagg. 198, Euro 18,00


How many miles to Babylon?/ Three scores miles and ten/ Can I get there by candle-light?/ Yes, and back again.

  Sono le parole di una canzoncina per bambini in cui a volte la destinazione (Babylon che forse è una storpiatura di Babyland) è stata cambiata con il nome di un’altra città. Quelle che sono sempre rimaste uguali sono la domanda e la risposta finali, quell’ansioso ‘riuscirò ad arrivare per l’ora di sera?’ e la rassicurante risposta, ‘sì, anche tornerai’. Parole che ritornano spesso in mente ad Alec, quasi un inconscio desiderio di ritornare all’infanzia, al tempo in cui la maggiore paura è quella del buio e però una voce amorevole ti conforta scacciando le ombre.
    Irlanda, prima che l’Isola di Smeraldo acquistasse l’indipendenza. Alec appartiene ad una famiglia ricca, protestante, filo britannica. È figlio unico, un precettore viene a casa a fargli lezione- sua madre non vuole che si allontani per frequentare una scuola come è tradizione per i ragazzini inglesi di buona famiglia. E Alec è molto solo.
dal film
    Il romanzo di Jennifer Johnston inizia con delle parole che non permettono dubbi: “Mi hanno lasciato i miei taccuini, carta, penna e inchiostro, perché sono un ufficiale e un gentiluomo. Così, scrivo e aspetto.” Non ci vuole molta immaginazione per capire che cosa il protagonista stia aspettando. Ci resta da capire il perché della fine drammatica che gli è riservata. E i ricordi del passato iniziano proprio con una frase che dice tanto, “Da bambino ero solo”. Solo con una madre molto bella (che sa di esserlo) e molto egoista, con un padre affettuoso  a cui la moglie rimprovera di essere vecchio e a cui si rivolge con un tono sempre brusco e sprezzante. Quando Alec aveva conosciuto Jerry, aveva incontrato un amico per la prima volta in vita sua. Un ragazzo della sua età, figlio di lavoranti sulla terra del padre di Alec, con cui nuotare nel laghetto o uscire a cavallo. Era impossibile che sua madre glielo lasciasse frequentare. Impossibile. Un bifolco con le unghie sporche di terra. Un irlandese. Un cattolico. In qualche maniera il filo della loro amicizia resiste, finché…

     Allo scoppio della prima guerra mondiale la posizione dell’Irlanda è chiara e nello stesso tempo ambigua. In quanto sudditi dell’Inghilterra gli irlandesi sono tenuti ad arruolarsi nell’esercito britannico e però i tempi della sudditanza stanno scadendo. Parnell è già morto, ma resta un eroe. I nazionalisti, i ‘ribelli’, lottano per l’indipendenza dell’isola, la Rivolta di Pasqua, nel 1916, fu sedata nel sangue ma fu ugualmente una pietra miliare nella strada verso l’indipendenza. E allora per chi si arruola la possibile accusa di tradimento può venire da due parti. È la Storia che dobbiamo tenere a mente leggendo il romanzo di Jennifer Johnston, perché è una sorta di traccia nascosta sotto la vicenda principale, ci fornisce un’interpretazione aggiunta per l’astio nei confronti di Jerry, sia da parte della madre di Alec prima, sia poi dai suoi superiori nell’esercito. Jerry è il primo ad arruolarsi. Lo fa per la paga che riceverà e- lo dice apertamente- per farsi un’esperienza che gli servirà poi per servire la sua patria. Anche Alec si arruola, per ben altri motivi. Lui, che non aveva proprio alcuna intenzione di andare a farsi ammazzare, che non provava nessuna lealtà verso l’Inghilterra, si arruola dopo essersi ubriacato insieme a Jerry. Lo ha spinto sua madre, per una malsana ambizione, per vantarsi di avere un figlio al fronte. E riesce a vincere la riottosità del figlio usando un argomento che ce la fa disprezzare. Come la disprezza Alec. È una fortuna che, nell’inferno delle trincee nelle Fiandre, Alec e Jerry siano nello stesso battaglione? Oppure è il contrario, un destino avverso che sarà fatale per entrambi?

     “Quanto manca per Babilonia?” è un libro breve e compatto che si svolge per lo più con dialoghi. È quello che le parole non dicono che noi dobbiamo ascoltare. È un libro che parla di solitudine e di povertà, di amore filiale e del suo opposto, di coraggio e di paura, di amicizia. L’amicizia tra Alec e Jerry, che supera le barriere sociali, è del tipo che si instaura tra due ragazzi  che si trovano bene insieme, che sono legati anche, paradossalmente, dalla distanza sociale che c’è tra di loro, da quella sottile invidia buona per quello che ognuno di loro ha e l’altro no. Se c’è attrazione omoerotica tra di loro, sono gli altri che la percepiscono perché ne hanno paura per un lascito del vittorianesimo, perché sono così meschini da non saper concepire il valore di un affetto in equilibrio tra amicizia, fraternità, amore. E si ha l’impressione che è per questo che Alec e Jerry vengono puniti. La fine era annunciata e attesa dall’inizio.
     Intenso e drammatico. Una bella lettura.

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sabato 13 giugno 2020

Nino Haratischwili, “L’ottava vita (per Brilka)” ed. 2020


                                                         Voci da mondi diversi. Georgia
               saga
           la Storia nel romanzo


Nino Haratischwili, “L’ottava vita (per Brilka)
Ed. Marsilio, trad. Giovanna Agabio, pagg. 1129, Euro 24,00

      Pagina 1129. Fine. Ho finito di leggere “L’ottava vita” di Nino Haratishwili e mi dispiace. Vorrei che ci fossero altre pagine, altre storie. Vorrei continuare a leggere.
     Come posso iniziare a parlare di questo bellissimo romanzo-fiume che vi trascina impetuoso, vi fa superare confini lungo il suo corso, indugiare nelle anse di storie tranquille, trattenere il respiro quando le acque precipitano nelle rapide di scontri e battaglie, quando si tingono di rosso o si sporcano di fango? Come un fiume questo romanzo riceve affluenti di tante storie minori e come un fiume finisce solo in apparenza, è pronto a mescolarsi ad altre acque, alla vita di Brilka che deve ancora essere raccontata: devo queste righe a te, Brilka…perché tu meriti l’ottava vita. Perché si dice che il numero otto equivalga all’eternità, al fiume che ritorna.
Tbilisi
     “In realtà questa storia ha molti inizi”, scrive Nino Haratishwili (non è un errore, non è un nome maschile: santa Nino fu un’apostola cristiana nella Georgia del 300 d.C.) prima di decidere di iniziare dal presente, dalla telefonata di sua madre che le chiede di andare a prendere la nipote dodicenne Brilka, scappata da Amsterdam dove si trovava con la compagnia di ballo, e fermata dalla polizia a Mödling. Da qui si avvia la storia di sei generazioni della famiglia georgiana Jashi, per raccontarla a Brilka, per affidargliene l’eredità insieme a quella della ricetta segreta della ‘magica’ cioccolata del trisnonno cioccolatiere che l’aveva portata con sé da Vienna. Soltanto una persona in famiglia conosceva il segreto della cioccolata, perché non si poteva gustare con leggerezza. Chi l’aveva assaggiata aveva conosciuto attimi di pienezza e beatitudine prima di essere colpito da una tragica sorte- coincidenza? caso? destino? E se ora pensate a “Chocolat” o a “Come l’acqua per il cioccolato”, siete fuori strada, perché c’è passione e lievità anche ne “L’ottava vita”, ma c’è l’ampiezza di respiro del romanzo epico che sa alleggerire la narrazione sfruttando elementi del feuilleton e del realismo magico- ci sono storie di amori e disamori e tradimenti, c’è l’irresistibile cioccolata, ci sono i morti che ritornano, fantasmi che però non suscitano sensi di colpa come Banquo, ma tengono compagnia.

    La Georgia e il cioccolatiere, dunque, negli anni immediatamente dopo la rivoluzione che vide la fine degli zar e l’ascesa di uno zar rosso, l’uomo della Georgia a cui ci si riferisce chiamandolo ‘il Generalissimo’, che governò con un pugno di acciaio (come il nome che si era dato) aiutato da un altro georgiano, il Piccolo Grande Uomo dagli occhialetti tondi. La storiella che girava su di loro (anni dopo, quando l’Unione Sovietica si era dissolta) diceva che Berija, in risposta a Dante che si era stupito di incontrarlo nell’Inferno immerso solo fino alle ginocchia in un lago di sangue, gli aveva fatto notare che era in piedi sulle spalle di Stalin. E, se la storia degli Jashi copre sei generazioni, è ovvio che sia strettamente intrecciata non solo con quella della Georgia ma pure con quella dell’Unione Sovietica poi ridiventata Russia, di Leningrado poi ridiventata San Pietroburgo (la donna amata dal giovane Kostja Jashi muore nell’assedio di Leningrado mentre lui è tra gli uomini che cercano di evacuare la città sulla Strada della Vita), di Mosca, sempre Mosca, il centro della Storia sovietica. Quante tragedie, quante morti, quanto sangue. Una, due guerre mondiali, gulag e carestie, kolchoz e deportazioni. Ma anche  amori e passioni, una madre che viaggia per un tempo infinito dalla Georgia a Mosca alla ricerca del figlio, una donna bellissima (e sposata) che deve soggiacere alle voglie di un potente, una ragazza torturata perché riveli dove sia il fidanzato che ha tradito la patria, bambini che crescono senza padri (portano tutti il cognome Jashi), bambini rifiutati dalle madri, amori lesbici e amori sul filo del telefono. E la paura, sempre.
tappeti in una strada di Tbilisi
E’ impossibile rendere l’idea di tutte le storie che sembrano formare il disegno di un tappeto fatto da migliaia di nodi (è l’immagine usata da Niza, la voce narrante), che arrivano nel nuovo millennio con i fermenti nazionalistici della Georgia, con altri drammi pubblici e privati raccontati con voce partecipe da Niza che finirà per allontanarsi da patria e famiglia per andare in Germania, ritornando poi con Brilka- sembra la chiusura del cerchio, ma no, la Storia e le storie continueranno in pagine ancora bianche.
       Sono tanti i personaggi del romanzo, difficile scegliere anche solo a chi accennare, perché sono tutti a tinte forti, sono tutti impressi in maniera indelebile nella nostra mente e nel nostro cuore.
il sottomarino K19 la cui tragedia ha ispirato il film "The widowmaker" del 2002
Kostja, il capofamiglia che regola la vita di tutti, il militare che ha corso il rischio di morire intrappolato nel sottomarino nucleare K19, che non sa rassegnarsi alla fine del vecchio mondo e del vecchio ordine. Sua madre, l’indomita Stasia che sognava la danza, la figlia Kitty che diventerà una cantante famosa all’Ovest, la bellissima Christine che dovrà nascondere metà volto con un velo, la debole Elene che delude il padre Kostja, il quale sarà doppiamente deluso dalla nipotina preferita che sceglierà di fare (di nascosto) l’attrice. Niza, infine, meno bella della sorella attrice, più intelligente, assetata di affetto, che non sa riconoscere la stessa sete di affetto in Brilka, la figlia rimasta orfana della sorella.
     Un romanzo grandioso, raro, che lascia un senso di pienezza. E non fatevi spaventare dal numero delle pagine. Vorrete che fossero di più.

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giovedì 11 giugno 2020

Simona Tanzini, “Conosci l’estate?” ed. 2020


                                                                     Casa Nostra. Qui Italia
     cento sfumature di giallo

Simona Tanzini, “Conosci l’estate?”
Ed. Sellerio, pagg. 269, Euro 14,00

     Palermo. Nove giorni in agosto, di cui quattro sotto il soffio dello scirocco- dicono che la regola sia tre per tre, “tre giorni di scirocco, tre volte all’anno”. Viola, giornalista televisiva che è arrivata a Palermo da Roma undici mesi prima, ha qualche perplessità sulla durata dei tre giorni- e non pensa di sbagliarsi. Non ci si può sbagliare quando non si vede l’ora che cessi quel getto di aria bollente che sembra sparato addosso a te da un phon potente. Ed è in uno di questi caldissimi giorni che viene ritrovato in strada il corpo di una ragazza- è stata strangolata. Si chiamava Romina, aveva vent’anni, era molto bella. Un delitto che non aveva niente a che fare con quello di altre due ragazze che ‘facevano la vita’- la sua è una famiglia borghese che vive a Ragusa anche se la madre è originaria di Palermo. E, per uno strano caso, Viola la conosceva, l’aveva incontrata fuggevolmente ed era stata colpita proprio dalla sua bellezza, da una certa aria di gioventù già un po’ bruciata, un po’ inconsapevole dei pericoli a cui si esponeva. Palermo non è poi una città così grande e, anche per un buon grado di casualità, il vicino di casa di Viola è il fratello di Zefir, noto cantautore palermitano con cui è stata vista Romina nella sua ultima sera. C’era stato uno scambio di parole piuttosto brusche tra di loro, la loro storia- se c’era stata una storia- sembrava essere finita. Ci sarà un altro morto…Saltano fuori  vecchie fotografie del passato…Perché Viola le vede color seppia? Non sono in bianco e nero?

     Il verso di una canzone di Fabrizio De André è l’esergo del romanzo di Simona Tanzini. Contiene le parole del titolo, Quando mi chiese “conosci l’estate?”, e all’estate associa il pensiero del vento e del suo colore, io per un giorno per un momento/ corsi a vedere il colore del vento. Estate, scirocco, il colore del vento. Viola a Palermo, e forse non è neppure un caso che la protagonista abbia un colore per nome. Perché è una delle sue due particolarità: la sinestesia per cui ogni cosa o persona che vede si unisce per lei ad un colore e la sua percezione di quello che vede è fortemente influenzata dall’aura di quel colore, quasi questo fosse una spia. L’altra particolarità di Viola è più invalidante- una malattia neurodegenerativa su cui lei non indugia, per cui non si autocommisera e che ha imparato a tenere a bada, riconoscendone le avvisaglie. Viola, l’io narrante del romanzo, è il personaggio principale. Non è lei che svolge le indagini, ma è attraverso i suoi occhi che vediamo gli altri personaggi- letteralmente, perché sono i colori che lei associa ad ognuno di loro che ci danno qualcosa di più, qualcosa che non è esplicito, una sensazione che non ha nulla di certo, ma è suggestiva in maniera inquietante. Eppure, in questa maniera insolita e strana, Viola è determinante nello svolgersi dell’inchiesta che termina in un modo sorprendente, alla maniera di Agatha Christie- “l’assassino è il maggiordomo”, la persona di cui mai avremmo sospettato.

     Se Viola è il personaggio principale che ci piace per il suo umorismo elegante, per l’ironia con cui le è d’obbligo affrontare le difficoltà che le si presentano, Palermo è la vera protagonista. Ed è una protagonista affascinante, nel bene e nel male. È Viola, la romana che ha chiesto di lavorare a Palermo non potendo ottenere Milano, che ci guida per la città. Con lei ci manca il respiro sotto il soffio dello scirocco, con lei prendiamo la 101, con lei ci fermiamo a bere insolia o ad assaggiare pane e panelle, con lei esploriamo la Kalsa, i Quattro Canti, la Cappella Palatina, la splendida Cattedrale. Tutto ci appare splendido in questa Palermo di Viola che non ci nasconde, però, anche le brutture, la mafia che non si deve nominare, le lapidi che ricordano i morti per mano della mafia, il ricordo delle stragi. E, se la trama è un poco debole, è per questa Palermo, per questo personaggio con le sue particolarità, per lo stile vivace, che il libro piace.

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lunedì 8 giugno 2020

Joanna Courtney, “Regina di sangue” Ed. 2020


                              Voci da mondi diversi. Gran Bretagna e Irlanda         
                                                      romanzo storico

Joanna Courtney, “Regina di sangue”
Ed. Superbeat, trad. Chiara Brovelli, pagg. 380, Euro 19,00

    “Non ho chiesto io di essere regina”- sono le parole di Cora McDuff all’inizio del romanzo storico “Regina di sangue” di Joanna Courtney. “Volevo essere moglie e madre”, aggiunge. Per chiedersi però, subito dopo- “Ma è davvero così?”.
   Il cognome-patronimico di Cora è rivelatore: discende da Duff, uno dei due figli di re Malcolm I, re di Alba (antico nome della Scozia nel secolo X), della linea di Costantino. Nella spietata lotta per il trono suo padre era stato fatto uccidere da re Malcolm II, Cora e il fratello erano riusciti a scappare, rifugiandosi a Nord dove dominava l’altro casato che aveva diritto alla corona, quello della linea di Aed. Per legge antichissima la successione avrebbe dovuto alternarsi tra i discendenti delle due linee ma, con il matrimonio della giovanissima Cora con Macbeth, nel 1025, un loro figlio sarebbe stato l’erede perfetto delle due famiglie unite insieme e la fine di tutte le contese. E però re Malcolm II, anziano ma indomito, voleva vedere suo nipote Duncan sul trono. Da parte sua Macbeth aveva dei nemici nei suoi propri cugini- Cora viene rapita e violentata la notte precedente alle nozze, Macbeth fugge (resterà lontano cinque anni), il matrimonio ‘riparatore’ non regala certo la felicità a Cora che avrà un figlio ma non dimenticherà mai di doversi vendicare su qualcun altro oltre che su chi le aveva ucciso il padre.
un crannog- ne leggerete ne libro
     Nel nostro immaginario Cora (in una interessantissima appendice la scrittrice spiega di aver modificato il nome gaelico originale, Gruoch, per renderlo più gradevole alle lettrici di oggi) è la Lady Macbeth di Shakespeare e non ci siamo mai chiesti che cosa ci fosse nel suo passato per farle dire frasi terribili spronando il marito ad uccidere Duncan, come, “so quanta tenerezza si prova nell’amare il bambino che si è nutrito al proprio seno: ebbene, io avrei, mentre egli mi avesse guardato sorridendo, strappato il capezzolo dalle sue morbide gengive, e gli avrei fatto schizzare via il cervello, se lo avessi giurato”. La Lady Macbeth di Shakespeare è una donna dura come l’acciaio che esordisce dicendo che teme la natura di Macbeth, “troppo piena del latte dell’umana tenerezza”, spingerà il marito minimizzando il senso di colpa fino ad un finale scambio dei ruoli, quando lei cercherà ossessivamente di far sparire il sangue che vede sulle sue mani mentre Macbeth sarà sprofondato in quel sangue a cui ormai non bada più.
     Niente di tutto questo in “Regina di sangue”. Cora McDuff, più tardi Lady Macbeth quando finalmente può riunirsi a lui, è una donna forte che è passata attraverso prove tremende, sia fisiche sia psicologiche, ma è anche un’amante appassionata (“my dearest chuck”, la chiamava Macbeth in Shakespeare), e una madre amorevole che mette il benessere del figlio avanti a tutto, anche se c’è qualcosa dell’ambizione che può portare alla spietatezza nell’occhiata di rimpianto per la corona a cui rinuncia a favore della nuora, scagliandola tra i rami di un albero, quasi ad assicurarsi che sia fuori della sua portata.

    “Regina di sangue” è un romanzo in cui, al di là di tutte le ricerche storiche fatte, l’immaginazione della scrittrice colma i vuoti e aggiunge passione, colorando le pagine con avventure, battaglie, alleanze e tradimenti, vendette e amori sullo sfondo della natura selvaggia e splendida della Scozia in cui non esistevano ancora paesi e città ma solo accampamenti attorno alla fortezza del re o alle abbazie. E in cui si beveva quel distillato dal sapore di torba e dal nome gaelico di usquebaugh, che ora conosciamo come whiskey. E, se la figura dominante del libro è Cora, la regina dai capelli rossi come il fuoco che l’ha deturpata, ben ha fatto la scrittrice a metterle a fianco un’altra protagonista, un’altra regina, la moglie vichinga di re Duncan, la bionda Sybil madre dell’altro erede al trono, rivale del figlio di Cora. Due donne dal carattere diverso ma con la stessa tempra, capaci di sfidare il destino, tra cui si dividono le nostre simpatie.
     Con un miscuglio ben dosato di violenza e passione, una storia appassionante di tempi antichi che sfiorano la leggenda.

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venerdì 5 giugno 2020

Leila Slimani, “Il paese degli altri” ed. 2020


                                                        Voci da mondi diversi. Africa
   Voci da mondi diversi. Francia
        saga

Leila Slimani, “Il paese degli altri”
Ed. La Nave di Teseo, trad.  Anna D’Elia,  pagg. 352, Euro 18,05 (formato kindle 9,99)

       La prima volta che Mathilde andò a vedere la fattoria, pensò: “troppo lontana”. Il fatto che fosse tanto isolata la preoccupava.

È il 1947. Mathilde, francese dell’Alsazia, ha seguito in Marocco l’uomo di cui si è innamorata. Lui, Amin, combatteva nelle truppe coloniali francesi contro i nazisti. Lei, Mathilde era giovane e focosa, voleva uscire dal paese in cui aveva sempre vissuto. Amin era bello, non importava se lei, alta e chiara di carnagione, era più alta di lui- gli opposti si attraggono. E le sembrava una fantastica avventura, da far invidia alle amiche, partire per un luogo esotico, con un uomo così aitante con le medaglie appuntate sulla divisa.
Povera Mathilde. All’inizio aveva dovuto condividere la casa con la suocera che non sapeva il francese, così come Mathilde non sapeva l’arabo. Lo avrebbe imparato- e bene-, come avrebbe imparato a fare molte cose che mai si sarebbe sognata di fare, compreso curare le malattie con cui si presentavano a lei i contadini, dopo che si erano trasferiti nella fattoria su quegli ettari di terreno arido che il padre di Amin aveva comperato nel 1935. E, dopo, avrebbe considerato una fortuna il vivere così lontano da tutti. Se si erano salvati, durante i disordini del 1955 quando il Marocco era in fiamme inneggiando alla libertà, forse era stato proprio perché non vivevano a Meknès dove soprattutto lei, “la francese”, probabilmente non avrebbe avuto scampo.

      Un bel personaggio, quello di Mathilde che domina l’intero libro di Leila Slimani, scrittrice francese di famiglia per metà marocchina. Troppo rude per essere ‘simpatica’, ci affascina con la sua forza di carattere, con le sue contraddizioni, con il piglio deciso con cui sa affrontare la nuova vita a cui non è preparata e le delusioni che arrivano presto. Quel marito così bello, da cui lei è così attratta, spesso la trascura, spesso la cerca solo per unirsi a lei, preso com’è dal sogno di rendere fertile la terra sassosa che ha ereditato. È questo che hanno in comune- l’impegno che mettono in quello che fanno, ognuno la sua parte. E ad Amin dobbiamo riconoscere lo sforzo per venire incontro alla moglie straniera, per conciliare le loro diversità. Non è facile per nessuno dei due, vivere nel ‘paese degli altri’. Perché è questo che è il Marocco, colonia francese dal 1912, ‘il paese degli altri’ con una miriade di significati. Per Mathilde è il paese di gente che ha tradizioni, cultura e religione diverse dalle sue, il paese degli uomini che sono sempre stati padroni delle loro donne, il paese dei nazionalisti che vedono in lei la nemica. Per Amin è il paese della sua gente che all’improvviso rifiuta l’assoggettamento alla Francia per cui lui ha combattuto e da cui è tornato con una moglie. A chi va la lealtà di Amin? Al suo paese, a suo fratello che combatte con i nazionalisti o alla donna che ama e che gli ha dato due figli di sangue misto che saranno per sempre nel ‘paese degli altri’, qualunque sia la loro scelta di appartenenza?

     Dei due bambini, è Aisha che ci fa tenerezza. Aisha si sente diversa, esclusa dal cerchio delle compagne dell’educandato francese tra cui lei, con quell’aureola di capelli chiari ma crespi e refrattari al pettine, brilla per intelligenza, tanto da saltare un anno a scuola. Povera Aisha che, nascosta nel sottofondo di un armadio insieme al fratellino la notte dei peggiori disordini, ha paura di essere l’unica sopravvissuta, quando ne esce al mattino. Che chiede chi siano i buoni e chi i cattivi in questa guerra che, come le spiega il padre, è peggio di una guerra, “perché i nostri nemici, o quelli che dovrebbero esserlo, vivono insieme a noi da tempo. Alcuni sono nostri amici, sono i nostri vicini, sono la nostra famiglia”. E Amin usa una bellissima immagine per cercare di farsi capire dalla sua bambina per metà francese e per metà marocchina, quella del ‘limarancio’, l’albero metà limone e metà arancio che hanno creato con un innesto.

     Termina con le fiamme che  distruggono un mondo, divorando i libri e le suppellettili che i francesi- anche loro abitanti del ‘paese degli altri’- ostentavano con orgoglio davanti agli indigeni. Aisha ne è contenta, “Meglio se se ne vanno. Meglio se crepano”. Quanto deve aver sofferto nel paese degli altri che forse riuscirà a fare suo.
    “Il paese degli altri” è il primo romanzo di una trilogia, un libro molto bello, di raro equilibrio, realista e poetico. Un libro che riesce a far nostro ‘il paese degli altri’.

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mercoledì 3 giugno 2020

Elizabeth Strout, “Olive, ancora lei” ed. 2020


                                     Voci da mondi diversi. Stati Uniti d'America


Elizabeth Strout, “Olive, ancora lei”
Ed. Einaudi, trad. S. Basso, pagg. 272, Euro 18,52 (9,99 formato Kindle)

    Eh sì, sono passati dodici anni da quando abbiamo conosciuto Olive Kitteridge e, adesso, ancora lei. Ancora Olive e ancora Elizabeth Strout con la sua bravura impareggiabile nello scrivere un romanzo così speciale, costruito non su un solo personaggio- almeno in apparenza, perché poi è solo lei, Olive Kitteridge, che domina la scena- ma sugli abitanti di un intero paese, Crosby, nel Maine, dove abita anche Olive. Tredici capitoli che sono tredici tessere di una storia corale che ruota intorno ad Olive senza che quasi ce ne accorgiamo, e soprattutto senza darci un’impressione di frammentarietà. E questo è veramente straordinario, ci pare quanto mai giusto non concentrarsi su una sola persona- “nessun uomo è un’isola”, scriveva John Donne.
     Non incontriamo subito Olive. Nel primo capitolo, o meglio, nella prima storia, la vediamo attraverso gli occhi di Jack Kennison, il professore universitario che diventerà il secondo marito di Olive. Lui la descrive con parole non proprio lusinghiere, “alta, grossa, Dio che donna strana”, e però “aveva una sincerità, aveva qualcosa di speciale”, prima di ricordare la volta che le aveva dato un bacio, “baciare Olive era un po’ come baciare una balena incrostata di cirripedi”- non male da parte di uno che era stato allontanato da Harvard perché accusato di molestie sessuali.
dal film
Nella seconda storia Olive, pratica e razionale, si trova ad aiutare una ragazza a far nascere il suo bambino. Si introduce così uno dei temi principali del libro, quello dei figli e del rapporto con i figli. “I figli. Tuo figlio. Mia figlia. Non gli piacciamo, Olive”, le dice Jack. “I figli, c’era qualcosa che non andava con i figli”, riflette il protagonista di un’altra storia. Nessuno dei personaggi ha un buon rapporto con i figli, e nessuno dei figli di queste storie ha avuto un rapporto sereno con i genitori. C’è affetto tra gli uni e gli altri, ma c’è distacco- i genitori non fanno parte della vita dei figli e quasi tutti i figli hanno scelto di andare ad abitare lontano: ci sarà pure un motivo, no? Così i ragazzi Burgess con i loro sensi di colpa (come Olive, sono anche loro vecchie conoscenze, erano i protagonisti del bellissimo “I ragazzi Burgess”), così Amy, la figlia che Isabelle ha avuto quando era giovanissima (e che piacere ritrovare anche loro due, di cui avevamo letto in “Amy e Isabelle”, uno dei primi romanzi di Elizabeth Strout), così la figlia di Jack Kennison che lui disapprova perché lesbica, così la figlia dei McPherson che sconvolge i genitori quando dice loro che fa ‘la dominatrice’ in documentari sessuali.
Il figlio di Olive vive a New York e, quando viene a trovare la madre insieme a moglie e bambini, è nell’incapacità di Olive di organizzare un’accoglienza adeguata, di comprare latte e cereali, di scambiare due parole con i nipotini, che si acuisce il senso di estraneità che la porta a pensare di aver sbagliato qualcosa o tutto, di aver fallito , di “aver vissuto l’intera vita come una cieca”.
     Dal tema dei figli, che sono il nucleo centrale della nostra vita, a quello della vecchiaia che incalza, delle malattie che ci mettono faccia a faccia con la morte, del residence che sarà la nostra ultima casa quando non sarà più sicuro per noi abitare da soli.  È nel residence in cui si è già recata per far visita ad una amica, che Olive andrà a stare dopo aver avuto un infarto, sempre battagliera ma impaurita dai pericoli in agguato nella solitudine- la tappa finale che non è necessariamente tinteggiata di scuro. Perché ‘quella vecchia ciabatta’ della nostra Olive, sempre scorbutica e troppo sincera, troverà un’amica con cui poter condividere le umilianti situazioni in cui la pone il decadimento fisico che non perdona. 

      C’è qualcosa che fa parte dell’esistenza di ognuno di noi, nelle storie degli abitanti di Crosby. Perché, con profondità e leggerezza, con ironia e umorismo, tutti i sentimenti, le paure, le fasi della nostra vita scorrono in queste pagine. E ci accomiatiamo da Olive ripetendo a noi stessi le parole della conclusione a cui lei è arrivata- “Non ho la minima idea di chi sono stata. Dico sul serio, non ci capisco niente.” Non aveva forse detto Pompeo ai suoi marinai, Navigare necesse est, vivere non necesse? Quello che importa- è la lezione di Olive- è ‘vivere’ nel senso di conoscere, di fare esperienze, di darsi, di ricevere. Il resto è silenzio.
     Bellissimo.
  
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