Casa Nostra. Qui Italia
cento sfumature di giallo
FRESCO DI LETTURA
Roberto Riccardi, “La
firma del puparo”
Ed. e/o, pagg. 199, Euro 16,00
“Dottore, prima di farmi altre domande
sappia che pongo due condizioni. La prima è che proteggiate la mia famiglia”.
“Come è composta?” s’informò il magistrato.
“I miei figli, mia moglie e una sua cugina che vive con noi”.
Gli occhi di Cordero divennero fessure. “E la seconda?”.
“Chiedo che le indagini e la tutela dei miei cari siano affidate al
tenente Rocco Liguori”.
Un altro Rocco, oltre a Rocco Schiavone,
sulla scena del romanzo poliziesco/noir/criminale italiano. I due Rocco sono
talmente diversi che è impossibile confonderli. Il Rocco Schiavone di Antonio
Manzini è il più antipatico simpatico vicequestore che indaga sui delitti
commessi ad Aosta infradiciandosi le Clarks che si intestardisce a voler
indossare come se vivesse ancora a Roma. Il Rocco Liguori di Roberto Riccardi è
un tenente dei Carabinieri così rifulgente nella sua immaginaria armatura, così
integerrimo e al di sopra di ogni sospetto, da farci rivalutare l’Arma (lo
stesso Roberto Riccardi riveste il grado di colonnello dei Carabinieri, oltre
ad essere scrittore e giornalista). Nel romanzo precedente, “Venga pure la
fine”, Rocco Liguori veniva chiamato in Olanda, dove un criminale di guerra
bosniaco, con cui Rocco aveva intrattenuto una corrispondenza, aveva cercato di
suicidarsi. Nel nuovo libro, “La firma del puparo”, un altro carcerato che
Rocco conosce molto bene chiede di parlare con lui. Di più. Nino Calabrò è un
pentito della ‘ndrangheta e accetta di parlare soltanto se sarà Rocco Liguori
personalmente a farsi carico della protezione della sua famiglia che si
troverebbe in una condizione di altissimo rischio, non appena Nino
incominciasse a parlare, a fare nomi, a sollevare il coperchio del vaso di
Pandora.
Siamo a Palermo, bellissima Palermo,
Palermo dannata, con quell’anima scura di mafia, incrocio delle vie di smercio
della polvere bianca, ricordi che pesano come piombo di delitti ed agguati, di
una lotta senza fine contro l’omertà, di una distorta concezione dell’onore, di
una violenza disumana che nulla rispetta, neppure i bambini. Ecco, i bambini.
Se Nino parla, se incomincia a rivelare che cosa ci sia dietro la sparizione- avvenuta
molti anni prima- del giornalista Michele Sanfilippo il cui corpo non è mai
stato ritrovato, se Nino si disonora, le sue colpe ricadranno sui suoi figli.
Che cosa questo significhi nel linguaggio della ‘ndrangheta o della ‘ndrina, lo
sanno tutti. E Nino tiene moglie e tre figli, l’ultimo è un maschietto, ha
pochi mesi, è il suo erede. Bisogna farli andare via dal paese, si dirà in giro
che si sono spostati in una città più vicina a quella dove si trova il carcere
di Nino, nessuno deve sapere nulla. Perché deve occuparsene Rocco? Perché ai bambini
di adesso, la cui vita è in pericolo, si contrappongono i vividi flash sui
bambini di un tempo, Rocco e Nino, amichetti improbabili in un paese
dell’Aspromonte dove il padre di Rocco era maresciallo dei Carabinieri, compagni
di gioco finché i giochi di Nino si erano discostati troppo da quelli
dell’infanzia. Ed ora Nino si fida solo di Rocco.
Rocco e il serio e pacato sostituto
procuratore Cordero, l’uditore giudiziario Francesca Mucci che ha appena avuto
una delusione d’amore e Vera, il commissario della Omicidi che Rocco ha già
incontrato in “Undercover” (e, per chi non lo avesse letto, dei brevi flashback
illuminano la loro storia non ancora ‘decollata’), i boss di due famiglie
nemiche che si combattono senza esclusione di colpi con crudeltà barbarica, due
grandi assenti, il giornalista Sanfilippo e il figlio di uno dei boss,
scomparsi quasi contemporaneamente- sono questi i personaggi protagonisti de
“La firma del puparo” in una vicenda che si svolge in parte in Sicilia e in
parte a Mantova, dove la famiglia Calabrò vive confinata in casa, in grande
segretezza. Segretezza non rispettata da una cugina senza cervello che ama
troppo flirtare con gli uomini…
Serratissimo e appassionante, con un
personaggio che amiamo e rispettiamo per il suo profondo senso etico, il nuovo
libro di Roberto Riccardi si legge velocemente. Anzi, troppo velocemente:
capita sovente di pensare che un centinaio di pagine in meno avrebbero giovato
ad un romanzo. In questo caso pensiamo il contrario: un centinaio di pagine in
più avrebbero dato più spessore al libro che, a tratti, ci pare un poco
affrettato.
la recensione è stata pubblicata su www.wuz.it