giovedì 30 luglio 2020

Javier Cercas, “Terra alta” ed. 2020


                                                  Voci da mondi diversi. Penisola iberica
                                                         cento sfumature di giallo


Javier Cercas, “Terra alta”
Ed. Guanda, trad. B. Arpaia, pagg. 384, Euro 19,00 (formato kindle 9,99)

       Nella Terra Alta, un angolo della Catalogna al confine con l’Aragona, viene uccisa una coppia anziana- lui era il ricchissimo proprietario delle Gràficas Adell che dava lavoro a quasi tutta la gente del posto. Un omicidio selvaggio e brutale, la scena del delitto era raccapricciante perché i due vecchi erano stati torturati e di certo avevano patito molto prima di morire. Un tale accanimento mostrava una volontà di imporre sofferenza, non poteva trattarsi di un banale tentativo di furto. Una vendetta, forse? Il vecchio Adell non aveva scrupoli e usava le persone. Tuttavia era difficile che qualche suo dipendente avesse eliminato il datore di lavoro. I sistemi di allarme erano stati messi fuori uso, la porta non presentava segni di scasso, c’erano impronte di pneumatici in cortile.
Gandesa, Terra Alta
    Il poliziotto Melchor Marin è chiamato ad occuparsi del caso. E’ un personaggio singolare e quanto mai interessante, è lui che conferisce valore al nuovo romanzo di Javier Cercas che si è imposto all’attenzione dei lettori con “Soldati di Salamina” nel 2002. È singolare il nome Melchor, prima di tutto- sua madre, una prostituta, lo aveva chiamato così perché le era parso somigliante ad un re magio quando era nato. Singolare il suo passato, non certo quello che potremmo immaginare per un rappresentante della legge. Melchor, segnato dalla forzata partecipazione al ‘lavoro’ della madre, era diventato un piccolo delinquente, era stato arrestato e imprigionato per commercio di droga. Aveva avuto la fortuna di essere difeso in tribunale da un avvocato scelto da sua madre, altro personaggio interessante che resterà al suo fianco come un angelo custode durante gli anni di prigione, lo aiuterà a studiare e a presentarsi al concorso per entrare in polizia. Possiamo sospettare- come passa ogni tanto per la testa di Melchor- che l’avvocato Vivales dall’aspetto così poco avvocatesco sia il padre biologico di Melchor, ma non lo sapremo mai, così come non lo sa Melchor. E poi- questo è uno dei due filoni intriganti del romanzo che contiene più di un romanzo, di cui uno è la storia a sé della vita di Melchor- la conversione ‘sulla via di Damasco’ per Melchor passa attraverso la lettura di un libro in prigione. Melchor era stato letteralmente folgorato da “I miserabili”.
Per lui, che mai si era interessato alla lettura, il romanzo di Victor Hugo era diventato una sorta di Bibbia, si era rispecchiato in entrambi i personaggi, in Jean Valjean, l’ergastolano che si era convertito ad una vita di bontà, e nel poliziotto implacabile Javert. E’ questa una sottotrama che ci accompagna lungo tutto il libro di Cercas- come Valjean anche Melchor cambia radicalmente quando, dopo essere diventato un eroe per aver fulmineamente ucciso dei terroristi, per sua sicurezza viene trasferito nella Terra Alta, si innamora e sposa Olga da cui ha una figlia che chiama Cosette (come la figlia adottiva di Valjean), come Javert anche Melchor non molla mai la preda a cui dà la caccia- non smette mai di cercare chi abbia ucciso sua madre, così come non si darà per vinto e continuerà a cercare gli assassini dei vecchi Adell anche quando il caso è stato archiviato. E la somiglianza con Javert si sigilla nel finale quando anche Melchor resta disarmato di fronte alla rivelazione improvvisa che la giustizia assoluta può essere nello stesso tempo la peggiore ingiustizia.

    In un certo senso è la letteratura che salva Melchor e tuttavia, nello stesso tempo, la letteratura entra di prepotenza nella storia, romanzo dentro romanzo, a mostrare che non è nelle pagine di un libro che termina il suo valore, che certe idee e certi modelli sono universali.
   Javier Cercas ci ha regalato un grande romanzo poliziesco, degno del premio Planeta che si è aggiudicato nel 2019. Mi è rimasto un solo dubbio: il compito di fare da portavoce alla famiglia Adell con la stampa è affidato ad un poliziotto, per il semplice motivo che è amico di famiglia e per questo gli Adell lo preferiscono ad un avvocato: non esiste il conflitto di interessi in Spagna?

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mercoledì 29 luglio 2020

Kemal Yilmaz, “Elefteria di Istanbul” ed. 2020


                                                          Voci da mondi diversi. Turchia
            love story
       la Storia nel romanzo

Kemal Yilmaz, “Elefteria di Istanbul”
Ed. Brioschi, trad. Tina Maraucci, pagg. 204, Euro

  Atene. Fa molto caldo quel 25 luglio 1989 quando viene accompagnata al cimitero la salma di Elefteria. Lascia una sola figlia dal nome romantico, Magnolia, che cerca di farsi forza pensando che sua madre si riunirà all’uomo che amava tanto, il padre che Magnolia non ha mai conosciuto.
    “Elefteria”, dello scrittore turco Kemal Yimaz, è un romanzo che si svolge sul filo del ricordo. Il romanzo di un amore che ha colori drammatici e che vive nella memoria. Di un doppio amore, a dire il vero, per una città e per un uomo che vengono ad essere un tutt’uno nella luce del ricordo che smorza le tinte forti della violenza e del dolore. La bellissima città dei sogni è Istanbul da cui Elefteria è fuggita con la famiglia nel 1955. Suo padre era un dentista e lei, Elefteria, faceva la maestra. Era una donna forte che aveva saputo ricostruirsi una vita ad Atene, guardando avanti per amore della sua bambina, concedendosi uno sguardo indietro solo per raccontare alla figlia del grande amore che l’aveva unita a suo padre, per cantarle la canzone che aveva ispirato il suo nome, per parlarle del tramonto sul Bosforo e dello scintillare delle cupole e delle strade di Istanbul. Elefteria non era più tornata in Turchia, Magnolia non ci era mai stata.

     Uno scrigno in un cassetto, un diario, una lettera della madre scritta in turco spingono Magnolia a prendere un volo per Istanbul accompagnata da un’amica che le farà da interprete- è come se Magnolia avesse bisogno di qualcuno che le faccia da tramite per riappropriarsi del passato, per ricollegare i due mondi, quello che è suo per appartenenza e quello che è diventato suo per esserci nata e cresciuta. Seguirà le orme della madre da giovane, per vedere finalmente dove aveva abitato, per scoprire qualcosa su suo padre.
     C’è uno stacco netto tra la prima e la seconda parte del romanzo, e non solo perché la scena si sposta da Atene a Istanbul. Cambia il colore dell’ambientazione- da una scialba Atene ad una Istanbul di cui avvertiamo perfino i suoni e i profumi-, cambia il tono narrativo- il filo della memoria non è più sottile come quello dei racconti ‘lontani’ di Atene, diventa una corda robusta quando Magnolia incontra le persone che avevano conosciuto sua madre e ricordano l’incendio della casa di suo nonno; il dolore dei giorni di Atene, che era stato un dolore nell’ordine delle cose, per una morte ‘naturale’, impallidisce a fianco del dolore immane, della tragedia difficile da accettare dei fatti lontani ma sempre presenti nella mente del 5 settembre 1955. E qui si apre un capitolo di Storia poco noto, quando i greci residenti in Turchia furono soggetti a violenze di stampo nazionalista e costretti ad abbandonare i loro beni e cercare rifugio in Grecia. Non c’è mai niente di nuovo sotto il sole e i fatti della notte del 5 settembre 1955 a Istanbul quando bande di facinorosi sventrarono le case dei greci, appropriandosi  di tutto quello che poteva essere portato via, scaraventando in strada mobili e oggetti in un’esaltazione distruttrice, ricordano da vicino i pogrom agli ebrei nell’Europa orientale o la notte dei Cristalli in Germania. Perfino il dettaglio delle case marchiate per una veloce identificazione degli abitanti è un déjà-vu.

    La vicenda di Elefteria è racchiusa in quel 5 settembre di violenze e di disconoscimento di vecchi amici e vicini di casa. La perdita dei beni accumulati a fatica durante una vita intera non è più grave di quella dell’amore. Anzi.
 Il finale è esplicativo, dolce-amaro, conciliatorio, in un romanzo che è una pagina di Storia e non solo una comune storia d’amore.

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mercoledì 22 luglio 2020

Emergency

Una banale caduta. Una frattura. Con la carpa che simboleggia le virtù  dei guerrieri che non si arrendono, vi chiedo di avere pazienza. Aggiornerò  appena sarà  meno doloroso restare seduta davanti al computer.

domenica 12 luglio 2020

Jung Chang, “Le signore di Shanghai” ed. 2020


                                                         Voci da mondi diversi. Cina
                                                               biografia romanzata

Jung Chang, “Le signore di Shanghai”
Ed. Longanesi, trad.  Alba Bariffi, pagg. 448, Euro 22,00 (Formato kindle 9,99)

   È innegabile. Ci sono delle famiglie speciali, famiglie che hanno qualcosa in più, delle doti o delle qualità che le portano a sfruttare al massimo le possibilità che la fortuna ha messo sul loro cammino. Famiglie la cui vita  si presta a diventare materia di romanzo, con un intreccio di eventi straordinari di cui si potrebbe dire che la realtà supera l’immaginazione. Le sorelle Mitford appartenevano ad una di queste famiglie. Le sorelle Soong sono un altro esempio- Jung Chang ci racconta la loro storia ( e quella della Cina nell’arco di un secolo) nel suo affascinante nuovo libro, “Le signore di Shanghai”.
    Ei-ling: Sorella Maggiore. Chin-ling: Sorella Rossa. May-ling: Sorella Minore. Erano nate rispettivamente nel 1889, 1893 e 1898 in una ricca e lungimirante famiglia di Shanghai che mandò tutte e tre a studiare negli Stati Uniti (May-ling aveva solo nove anni quando lasciò la Cina per il college americano- per fortuna le sorelle l’aiutarono a superare il trauma della separazione dalla mamma) e fecero tutte dei matrimoni importanti che le avrebbero fatte vivere sotto le luci dell’attenzione mondiale.
Ei-ling sposò H.H.Kung, un banchiere che fu Ministro delle Finanze tra il 1933 e il 1944; Chin-ling sposò Sun Yat-sen, leader della rivoluzione cinese del 1911 e fondatore del partito Nazionalista (la famiglia Soong si oppose al matrimonio perché Sun Yat-sen era già sposato e aveva 26 anni più di lei); May-ling sposò Chiang Kai-shek, Presidente della Repubblica cinese (dapprima in Cina fino al 1949 e poi a Taiwan fino alla sua morte nel 1975). Tutte e tre erano belle, forse Ei-ling meno delle sorelle ma intelligente e di ottimo intuito finanziario.
Tutte e tre eleganti e raffinate, sapevano muoversi con disinvoltura nei due mondi, quello a cui appartenevano per nascita e quello in cui avevano studiato. In contrasto con il ruolo tradizionale femminile in Cina- di assoggettamento all’uomo- ognuna delle tre sorelle occupò un posto di primo piano a fianco dell’uomo che aveva sposato. Ei-ling, pur restando nell’ombra, fu la consigliera del Generalissimo Chiang Kai-shek, Chin ling, diventata Madame Sun dopo la morte del marito, fu Vice-presidente di Mao, e May-ling, dolce, seducente May-ling innamoratissima del marito, periodicamente afflitta da disturbi in parte di origine nervosa, fu una perfetta First-Lady, portavoce della Cina all’estero nel suo fluente inglese-americano.

      Un fortissimo legame famigliare univa le tre sorelle Soong, non solo tra di loro ma anche con i fratelli e fu un affetto che non venne mai meno, neppure quando la politica le divise. Soprattutto Sorella Rossa si allontanò da Ei-ling e May-ling per seguire l’astro di Mao. Eppure, se una aveva bisogno dell’altra, sapeva con certezza di poter contare su una risposta alla sua richiesta di aiuto. Sorella Rossa e Sorella Minore non erano sempre d’accordo con le decisioni politiche del partito a cui aderivano. Una aveva orrore  del ‘terrore rosso’ di Mao, così come l’altra ne aveva del ‘terrore bianco’ di Chaing Kai-shek. Non c’era molto che potessero fare per contrastarlo- anzi, ci furono momenti in cui Chin-ling ebbe paura per se stessa, durante la Rivoluzione Culturale. Tutte profondamente religiose e lettrici della Bibbia, si sentivano però anche legate da un impegno di lealtà verso gli impegni presi.

     Abbiamo già ammirato la bravura di Jung Chan nell’indimenticabile “Cigni selvatici”, la storia della sua famiglia in una sorta di anticipazione di quella che diventerà la sua cifra narrativa, nella biografia del Presidente Mao e poi in quella dell’Imperatrice Cixi. La ammiriamo anche ne “Le signore di Shanghai”, un libro che si legge come un romanzo e che, tuttavia, è qualcosa di più, è la storia vera di una famiglia nella grande Storia, ricca di dettagli, di descrizioni, di fatti, di intrecci di vite private e di vite pubbliche. Non sono solo  le tre affascinanti sorelle Soong a balzare fuori da queste pagine, ma anche Sun Yat-sen e Chiang Kai-shek, i due grandi leader cinesi del secolo scorso la cui esistenza è stata piena di luci e di ombre, di grandi iniziative e grandi crudeltà.
Ampiamente documentato e con un corredo fotografico che soddisfa la nostra curiosità, un libro assolutamente da leggere.

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sabato 4 luglio 2020

Ilaria Tuti, “Fiore di roccia” ed. 2020


                                                         Casa Nostra. Qui Italia
   prima guerra mondiale

Ilaria Tuti, “Fiore di roccia”
Ed. Longanesi, pagg. 241, Euro 18,80 Formato kindle 9,99)

  Lo chiamano ‘fiore di roccia’ o ‘stella alpina’. Lo conosciamo con il nome di ‘Edelweiss’ ricordando Julie Andrews che cantava la canzone in “Tutti insieme appassionatamente”. È un fiore raro e prezioso, diverso da qualunque altro con quei petali vellutati. Nel linguaggio dei fiori significa ‘coraggio’. Quanto coraggio, di quello che non ha bisogno di parole per spiegarlo, quello delle Portatrici carniche della Grande Guerra.
    Nel suo nuovo romanzo “Fiore di roccia”, Ilaria Tuti ci racconta la storia vera di donne, vecchie, giovani e giovanissime, che furono ‘reclutate’ nei villaggi ai piedi delle pareti di roccia della Creta di Timau dove, lassù in vetta, lungo il confine tra Italia e Austria, passava il fronte durante la prima guerra mondiale. Un dettaglio che avrà la sua importanza nel libro: questa è un’area in cui si parla, fin dal medioevo, un particolare dialetto carinziano molto simile al tedesco. E c’è un personaggio vero che possiamo immaginare in uno di quelli di cui leggiamo in queste pagine: Maria Plozner Mentil,
morta il 15 febbraio 1916, colpita da un cecchino austriaco mentre si riposava con un’amica dopo aver consegnato il carico della sua gerla agli alpini. I suoi resti sono conservati nel tempio Ossario insieme a quelli degli altri caduti al fronte, una caserma è intitolata a suo nome e il Presidente Scalfaro le conferì una medaglia d’oro al valor militare nel 1997, come rappresentante di tutte le Portatrici.
     Il lavoro di Ilaria Tuti per fissare nella memoria il ricordo di queste donne è importante  e necessario. Perché la guerra è sempre stata degli uomini, perché quanto hanno fatte le donne, sia come crocerossine negli ospedali da campo, sia- in maniera del tutto trascurata e sottovalutata- per ‘tenere il fronte’ a casa (c’è una bellissima canzone inglese, Keep the home fires burning, che sottolinea il valore del ruolo femminile come sostegno psicologico per gli uomini in battaglia che pensano a madri e mogli che ne aspettano il ritorno), è sempre stato considerato secondario. Le Portatrici carniche salivano in vetta al mattino presto dopo aver riempito le gerle di munizioni, pezzi di armi, viveri- un carico il cui peso poteva arrivare a 40 kg. Gli spallacci delle gerle incidevano la carne, la schiena urlava dal male, il freddo mordeva le mani. Ai piedi calzavano le scarpitz, le pantofoline con la suola di tessuto che faceva presa sui sassi nell’ascesa.
Si arrampicavano come capre in un percorso che non era senza pericoli perché i cecchini, ‘i diavoli bianchi’, erano in agguato. Prima di partire avevano già svolto una parte dei lavori necessari con le bestie o nei campi. Al ritorno non le aspettava il riposo dopo la fatica, ma altri lavori, anche lavare gli indumenti che erano stati loro affidati dagli alpini. Alcune di loro- come Maria Plozner- avevano bambini piccoli, altre, come la protagonista voce narrante, avevano genitori anziani di cui prendersi cura.
     In vetta si combatte, in una battaglia disperata il fronte cade e poi viene riconquistato. I morti- sono tutti giovani- vengono portati dalle donne in paese su slitte, per essere seppelliti. Le Portatrici proseguono il loro combattimento, contro la fame e la fatica e, sì, la paura. E poi c’è un’altra battaglia ancora- quella contro i traditori, contro coloro che si sentono più austriaci che italiani, oppure che, più semplicemente, passano nelle file dei più forti.

     “Fiore di roccia” è costruito su testimonianze e fatti storici veri e poi la scrittrice aggiunge del ‘suo’- molti dei dettagli che riguardano le portatrici, perfino i loro sentimenti, sono veri; inventato è il personaggio di Agata Primus (con un cognome preso a prestito da una portatrice realmente esistita) e tutta la storia che la riguarda. È un bel personaggio che, con la sua forza e intelligenza, ben si contrappone a quello del capitano degli alpini- l’omaggio che questi le fa, di un fiore di roccia, è un riconoscimento di parità
Debole e inadeguato è, invece, il finale sentimental-rosa che sarebbe stato meglio evitare: il significato dell’insensatezza della guerra tra gente che parla quasi la stessa lingua, era già chiaro.

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