Voci da mondi diversi. Medio Oriente
guerra
il libro ritrovato
Ron Leshem, “Tredici soldati”
Ed. Rizzoli, trad. Ofra Bannet e
Raffaella Scardi, pagg. 370, Euro 17,00
Dulce et decorum est pro
patria mori- se c’è un paese al mondo per cui ha ancora un valore la
retorica del verso di Orazio, questo è Israele. Se c’è un paese al mondo che
manda i suoi figli a combattere perché da loro dipendono altre vite, questo è
proprio quella tormentata striscia di terra così splendidamente collocata, sul
blu Mediterraneo, e così stritolata dalla pressione degli stati arabi confinanti.
Con una storia di guerra che risale alla sua stessa nascita. E allora il nome
del protagonista del libro “Tredici soldati” di Ron Leshem, l’ufficiale
ventunenne che comanda un gruppo di soldati nell’avamposto di Beaufort in
Libano nel 1999-2000, ci pare quanto mai adeguato, un incitamento continuo per
quelli che lui a volte chiama “i bambini”. Si chiama Liraz Liberti, ma è
conosciuto come Erez: certo, Erez può essere un nome proprio, ma la prima
associazione che viene in mente è con la vagheggiata Erez Israel, la terra di Israele, la patria, la dimora perduta.
Erez punta su questo per spronare i suoi soldati a resistere, per giustificare
la loro presenza in Libano: la vecchia fortezza dei crociati è un luogo
cruciale per frenare Hezbollah, per difendere i villaggi israeliani a ridosso
del confine. Che poi questa difesa assuma l’aspetto di un suicidio, soprattutto
quando inizia a circolare la voce di un prossimo ritiro, quando si spuntano i
giorni dal calendario e ogni morte in più appare inutile- rende più difficile
il compito di Erez.
Hanno a mala pena vent’anni, i soldati del
gruppo di Erez, e scherzano con la morte. Hanno inventato il gioco del “mai
più” che si fa quando muore un amico: ognuno deve buttare là una frase con
quello che il ragazzo morto ormai non farà più. Più strampalato è quello che si
dice, meglio è. Per ridere in faccia alla morte. Per non precipitare nella
follia quando un razzo uccide il tuo migliore amico. Chi muore “va sprecato”,
nel lessico da trincea che apprendiamo da Erez. E’ anche questa una maniera per
rinominare la realtà. O per passare il tempo. Così un soldato è ‘stellicato’
quando è preso da stanchezza bellica. Non c’è posto per il dubbio a Beaufort.
Quando l’infermiere River dice, “Noi moriremo uno dopo l’altro, e sarà per
niente, perché alla fine ripiegheremo, non c’è dubbio. Ma una parte di noi
uscirà in una bara, ed è un peccato morire così, senza motivo, è triste.”, Erez
si arrabbia, “con idee simili sarai un combattente di merda; saranno i dubbi ad
ammazzarti.” Questo è Erez il duro, che è finito in prigione per aver attaccato
il nemico senza rispettare gli ordini. Erez che, tuttavia, non riesce ad
immaginare altro che gli riempia la vita, neppure la ragazza che ama. Che non
riesce a tener fede al giuramento fatto all’amico Oshri, secondo cui uno
ucciderà l’altro, se questo dovesse restare gravemente menomato.
“Tredici soldati” è una sorta di diario di
guerra, un libro memorabile da accostare ai famosi “Niente di nuovo sul fronte
occidentale” e “Morte a credito”. Pieno di dettagli di giornate scandite da
regole ferree, in ascolto di rumori che possano annunciare un attacco,
perforando il buio della notte con le lenti a infrarossi per scorgere il
nemico. Ma anche di ore pigre di scherzi e battute, di parole salaci e sogni di
ragazze. Di giochi di “mai più”. Perché muore Zitlawi che era riuscito a farsi
la ragazza ortodossa, muore Ziv che era arrivato a Beaufort con la maglietta
pacifista, muore Spitzer, e il Libano è questo, il luogo dove ti ricopri del
sangue del tuo amico. “Ne valeva la pena? Cerco di convincermi che è valso
quello che abbiamo perso. Ma non ci riesco”, dice River, l’antitesi di Erez.
Dopo 18 anni di occupazione, nel maggio del
2000, Barak ordina il ritiro dal Libano. La fortezza di Beaufort viene fatta
saltare in aria, aleggia cupa la domanda di River, avvalorata dall’ammissione
del generale Kaplan- forse è stato tutto un errore, la presa del monte, prima
di tutto. Perché in realtà era stato emanato un contrordine che non era mai
arrivato. E Tsahal- acronimo per indicare l’esercito di difesa, come fosse una
sola entità- si era lanciato all’attacco dell’avamposto.
Storia di una ritirata, “Tredici soldati”
mette in dubbio la strategia politica israeliana in pagine a volte comiche e a
volte drammatiche, dove la risata salva dalla morsa della paura e dove
l’assenza di Dio (è difficile rimanere religiosi a Beaufort, dice Erez) è
colmata da quella speciale solidarietà che si crea in una “banda di fratelli”.
Un libro molto duro, molto sofferto, molto bello. Da leggere.
la recensione è stata pubblicata su www.stradanove.net
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